Infortuni sul lavoro: morti bianche e informazioni grigie

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Gli incidenti in occasione di lavoro o per il lavoro sono da decenni rappresentati secondo l’immagine di un triangolo.

Secondo questa rappresentazione gli infortuni mortali sono la punta di un iceberg che si amplia verso la base progressivamente: gli infortuni mortali, quelli con lesioni permanenti, quelli con lesioni temporanee e – ma non sempre – le medicazioni sono oggetto di denuncia all’Istituto assicuratore (in Italia l’INAIL).

I dati italiani contraddicono questo schema: mentre crescono gli infortuni mortali gli altri infortuni sono stabili o addirittura diminuiscono. E i governi ne approfittano per ridurre le tariffe dei premi assicurativi alle imprese, per ridurre il costo del lavoro ed essere più competitive. L’esito è incerto ma nessuno si interroga, tanto tutto si scarica sull’unica variabile dipendente, l’essere umano che lavora.

Eppure quello che sta sotto dovrebbe essere ben conosciuto e studiato per comprendere i fenomeni e intervenire in modo appropriato. In particolare si dovrebbero conoscere i dati, ma il servizio di informazione con la relativa banca dati progettato dalle Regioni e poi trasferito all’INAIL con un provvedimento del Governo nel 2010, denominato “Informo”, è fermo ai dati del 2012.

Possiamo quindi studiare il fenomeno con le informazioni generali accessibili, consapevoli che alcune delle informazioni più importanti come la tipologia del rapporto di lavoro e il periodo di permanenza nella prestazione dove è avvenuto l’incidente mortale sono ignoti.

Come facciano gli organi di vigilanza a programmare e organizzare in modo serio e documentato le azioni di prevenzione e di controllo degli infortuni è estremamente difficile descrivere. Infatti, tranne pochissime eccezioni, non vengono più fatte.

Alcuni dati

Vediamo allora di svolgere alcune considerazioni sui dati che si possono conoscere esaminando quelli contenuti nel comunicato dell’INAIL sul fenomeno infortunistico nel 2018 e alcuni dati meglio disaggregati sul trend dal 2013 al 2017.

Nel 2018 sono stati denunciati 641.241 infortuni di cui 1.133 mortali, 104 in più dell’anno precedente, più 10,1%.

Sui dati generali sappiamo poco di più se non per una analisi per classi di età che ci informa di una loro riduzione per i lavoratori tra 35 e 54 anni e di un aumento per i giovani sino a 34 anni (+ 4,0%) e per gli anziani da 55 a 74 anni (+ 3,2%): danni collaterali delle leggi “job act” e Fornero.

È impossibile calcolare l’indice di frequenza degli infortuni

Normalmente si calcola l’incidenza degli infortuni in numero di accadimenti ogni 1.000 occupati. Ma un lavoratore può essere occupato lavorando un’ora alla settimana e un’altro lavorandone 40 o più. Contano nello stesso modo.

Le norme tecniche dell’ente di formazione italiano stabiliscono che l’indice di frequenza va calcolato in ragione delle ore lavorate. Ma i dati sugli orari di lavoro effettivi sono sconosciuti, l’ISTAT li rileva solo per le aziende con più di 500 addetti, cioè per una esigua minoranza di lavoratori.

In questo modo quasi tutte le informazioni sull’effettivo andamento del fenomeno infortunistico diventano opache.

Per quale ragione si riducono gli infortuni lievi?

Verrebbe da dire che se si riducono gli infortuni di lieve o media entità sono migliorati i sistemi di sicurezza. Eppure se si facessero analisi più approfondite potrebbero emergere informazioni meno rassicuranti.

Lo ha fatto chi studia il problema nel dipartimento di epidemiologia del Piemonte esaminando l’andamento in un settore a rischio molto elevato come l’edilizia. Quel che è emerso è una tendenza a non denunciare le lesioni che non comportano danni permanenti (o per cui bisogna ricorrere al pronto soccorso) o conseguenze mortali. Tra il 2010 e il 2016 le denunce di infortunio sono diminuite in Piemonte da 29,4 a 17,7 ogni mille addetti, ma il tasso di incidenza degli infortuni che hanno comportato più di 40 giorni di convalescenza è aumentato dal 30 al 34%.

Uno studio analogo si dovrebbe fare sul lavoro precario. Non sarebbe difficile: basterebbe incrociare, attraverso il codice fiscale della persona infortunata, i dati dell’INPS sul tipo di rapporto di lavoro con le denunce di infortunio all’INAIL. Probabilmente emergerebbe un fenomeno analogo a quello dell’unica indagine svolta diversi anni fa tra andamento dell’assenteismo e tipologia del rapporto di lavoro: più si era precari e meno ci si ammalava. Ora più si è precari e più si lavora in luoghi e con comportamenti sicuri … oppure no! Si è semplicemente meno liberi.

Gli infortuni delle donne

Una delle cause degli incidenti sul lavoro delle lavoratrici è quella degli infortuni in itinere, nel percorso tra casa e lavoro. Quello che colpisce è l’incidenza per le donne degli infortuni mortali andando o uscendo da lavoro per recarsi a casa. Ad oggi si conosce solo il dato complessivo per l’anno 2018 con 104 incidenti mortali. Ma se si esaminano alcuni dati degli anni precedenti colpisce il fatto che più del 50% di tali incidenti non avviene sul luogo di lavoro ma sulle strade.

Siamo anche qui a un fenomeno riconducibile alla precarietà del lavoro, ai part time distribuiti in più momenti nella giornata, al lavoro con la chiamata tramite WhatsApp …

Gli immigrati

Tra il 2017 ed il 2018 l’aumento degli infortuni, sia quelli meno gravi che quelli mortali, è stato esclusivo appannaggio degli immigrati: meno 0,2% per i lavoratori italiani, più 9,3% per i lavoratori extracomunitari e più 1,2% per i lavoratori provenienti da altri Paesi dell’Unione Europea.

Anche le morti per ragioni di lavoro sono appannaggio degli stranieri: 181 su un totale di 1.133, il 16%. «Rubano il lavoro» – ormai è una vulgata che fa le fortune dei nostri governanti – ma lo rubano dove si fatica di più, si muore di più e quasi sempre si è pagati di meno.

I lavoratori anziani

Anche tra i lavoratori italiani il numero degli infortuni sul lavoro cresce più della media.

Se si considerano i dati per i lavoratori di oltre 55 anni età – momento in cui tutti gli indici funzionali dell’organismo umano hanno già subito una riduzione dal 20 al 40% (Rinaldo Ghersi, Invecchiamento e lavoro, CIIP 2017, pp. 42-45) che continuerà con il progredire dell’età – si evidenzia che gli infortuni mortali per le età dai 55 ai 65 anni è in notevole crescita: dai 258 del 2013 ai 328 del 2017. Storicamente erano appannaggio dei lavoratori autonomi dell’agricoltura ma ora interessano numerosi settori. Solo dopo i 65 anni, per ora, questi infortuni interessano in modo quasi esclusivo i contadini.

Amare considerazioni conclusive 

I cambiamenti intervenuti nella composizione del lavoro e nelle prestazioni professionali hanno mutato radicalmente le caratteristiche degli infortuni così come stanno determinando nuove patologie professionali determinate sempre meno da esposizione ad agenti chimici, fisici o biologici e sempre più da una organizzazione del lavoro che provoca danni psicologici o agli arti superiori. Questi aspetti ben difficilmente possono essere colti da un ispettore durante la sua visita in una azienda (tra l’altro da un ispettore che dovrebbe avere nuove competenze e raramente le ha).

Ci sarebbe allora bisogno di un sindacato permanentemente presente e attivo con i suoi rappresentanti.

Ma il sindacato ha abbandonato il campo. Il 12 dicembre del 2018 i sindacati confederali hanno stipulato con la Confindustria un accordo sui temi della salute e sicurezza dei lavoratori. In un momento di sincerità lo hanno chiamato “Patto per la fabbrica”, non patto per la salute. Infatti l’obiettivo è migliorare la competitività e non la salute e la sicurezza dei lavoratori rispetto ai rischi che si presentano oggi.

È un accordo di restaurazione che propone il ritorno del sistema pubblico di prevenzione a prima dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale del 1978 e un sistema dei diritti dei lavoratori e dei loro rappresentanti sul tema chiave dell’informazione (mi difendo dal rischio se lo conosco…) a prima dello Statuto dei lavoratori e dei contratti collettivi nazionali del 1969.

Nel 1978 si era affermato che la salute del lavoratore non era separabile da quella del cittadino e che il servizio sanitario lo doveva proteggere dentro e fuori la fabbrica. Ora la salute del lavoratore in fabbrica non sarà più quella del cittadino ma un rischio durante il lavoro e quindi le attività ispettive dovranno tornare sotto il ministero del lavoro.

Nel 1970 si era affermato, all’articolo 9 della legge 300, che «i lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica». Ora, per accordo sindacale, la documentazione sui rischi può essere conosciuta solo in azienda e il rappresentante dei lavoratori è vincolato al segreto industriale… Era uno dei pochi articoli dello Statuto dei lavoratori sopravvissuto alle manomissioni dei governi in questi anni, ma dove non erano ancora arrivati loro ci hanno pensato le parti sociali.

Fulvio Perini

13/2/2019 https://volerelaluna.it

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