Interessi economici-finanziari e ricerca in ambiente e salute: che genere di intreccio?

stamina3

di *Cristina Mangia, *Marco Cervino **Emilio A. L. Gianicolo

* Ricercatore/trice ambientale, Istituto di Scienze dell’Atmosfera e il Clima del Consiglio Nazionale delle Ricerche

** Statistico ed epidemiologo, Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche e Johannes Gutenberg-Universität Mainz, Institut für Medizinische Biometrie, Epidemiologie und Informatik, Mainz, Germania

Sommario

In questo saggio riflettiamo sulle modalità con cui l’identità del ricercatore e alcune prassi del lavoro scientifico si siano modificate a causa di interessi economico – finanziari, e sulle conseguenti implicazioni nella relazione scienza-società. Il nostro è il punto di vista di ricercatori pubblici, impegnati in quel settore della scienza che si occupa della relazione tra ambiente e salute pubblica.

Parole chiave

Ambiente e salute, conflitti di interesse, genere, innovazione, ricerca partecipata, epidemiologia.

Introduzione

Siamo tre ricercatori dipendenti di due diversi Istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Due di noi sono fisici, uno è statistico ed epidemiologo. Da dieci anni circa ci occupiamo di epidemiologia ambientale, ovvero della ricerca sui nessi fra esposizione ad agenti inquinanti e stato di salute delle popolazioni esposte. Ci siamo resi conto, per esperienza e formazione professionale, che la materia ha delicate ed importanti relazioni con la politica, l’economia, con i interessi generali e particolari. Queste relazioni sono il centro del presente saggio. Le argomentazioni e le conclusioni espresse in questo saggio non riflettono necessariamente quelle delle direzioni dell’Ente in cui svolgiamo il nostro lavoro.

Sebbene l’educazione scientifica tradizionale e i percorsi di formazione accademica siano ancora orientati a trasmettere un’idea di scienza oggettiva, astratta e decontestualizzata, volta alla conoscenza del mondo e a risolvere i problemi dell’umanità, la scienza reale non è mai stata avulsa dal contesto in cui ha operato. La ricerca scientifica, tramite i suoi strumenti e risultati, ha influenzato l’economia, la politica e l’opinione pubblica.

Economia e politica che, a loro volta, attraverso la disponibilità di risorse, umane e materiali, e meccanismi di controllo, hanno influenzano lo sviluppo della ricerca.

L’intreccio di dinamiche politiche, religiose, economiche, sociali e di genere, il cui peso è mutevole al variare dell’area geopolitica e del momento storico, è oggi dominato dal potere economico-finanziario, che influenza e indirizza modalità, finalità e tempi della ricerca scientifica e tecnologica.

Nella grande narrazione odierna dell’innovazione come motore del benessere economico, per una crescita smart, sostenibile e solidale, la ricerca scientifica, pubblica e privata, ha assunto sempre più il ruolo di soggetto propulsore del processo di innovazione. Quel processo che dovrebbe portare, secondo le parole della ex-Commissaria Europea alla ricerca scientifica Marie Quinn, “la meravigliosa ricerca scientifica che abbiamo a disposizione fino in fondo lungo la catena produttiva, fino a trasformarla in prodotti e a venderla sul mercato: sviluppare nuovi prodotti, creare prodotti per i quali c’è mercato e che la gente vorrà comprare” (Benessia e Funtowicz, 2015, pag. 62).

D’altra parte, tuttavia, la ricerca scientifica potrebbe contribuire a valutare criticamente questo processo di innovazione, prevederne e, se possibile, suggerire modalità per regolarne le conseguenze. Ma attraverso quali meccanismi la ricerca scientifica è influenzata dagli interessi economici e finanziari sempre più dominanti e dalla contemporanea riduzione dei finanziamenti pubblici? Cosa succede quando gli interessi del mercato e della ricerca sulla salute pubblica vanno in conflitto? È sufficiente la nuova prassi della dichiarazione dei conflitti di interessi nei lavori scientifici?

Partendo dal nostro punto di vista di ricercatori pubblici, in questo saggio proponiamo alcuni spunti di riflessione su come stia cambiando l’identità del ricercatore, su come alcune prassi fondamentali del lavoro scientifico si siano modificate nel tempo per rispondere alle esigenze del mercato, e su alcuni possibili posizionamenti alternativi del fare ricerca scientifica.

Conoscenza e innovazione: quale identità per il ricercatore

L’attività scientifica ha sempre avuto bisogno di risorse economiche che consentissero agli esseri umani dediti al pensiero scientifico di esprimersi, strutturarsi in scuole, laboratori e società scientifiche. Oggi la gestione delle risorse economiche ha assunto un aspetto ideologico globale prevalente. Gli scienziati, per i quali l’attività identitaria è la ricerca della conoscenza, l’hanno collegata a scoperte di nuova conoscenza che abbiano valenza economica: e cioè a innovazioni di prodotto e di servizio che riproducano e facciano crescere i capitali e i consumi. Il binomio scienza-innovazione è diventato egemonico. Infatti, nei programmi quadro della Unione Europea, la dicitura

Ricerca&Innovazione ha sostituito Ricerca&Sviluppo, che già comunque declinava lo sviluppo essenzialmente in termini di crescita economica. Il binomio scienza-innovazione ha dunque stralciato qualsiasi possibile alternativa; tra le residue alternative la ricerca guidata dalla curiosità ha assunto un carattere via via recessivo, e si è ridotta alla “promozione” della cultura scientifica attraverso i canoni prevalenti del marketing e della spettacolarità.

Istituzioni scientifiche e potere economico agiscono e retro-agiscono. Se da un lato l’impresa economica (banche, fondazioni, imprese multinazionali in primis poiché più potenti e capienti), assume su di sé il carico dello sviluppo scientifico, dall’altro i ricercatori accettano la separazione tra pensiero sulla natura e pensiero sulla società (neutralità della scienza); in cambio di una posizione di co-privilegio, accettano la suddivisione dei ruoli imposta dall’establishment; come motivazione prevalente del loro agire accettano il compito a loro affidato di razionalizzare l’organizzazione dell’economia e del potere conseguente (trasferimento del know-how, valorizzazione industriale della scoperta, partecipazione diretta o indiretta agli utili, ecc.). Anzi, questo compito diventa la scienza, mentre la curiosità intellettuale viene derubricata a motivazione personale, elemento interessante per la formazione individuale e per la promozione sociale (espressione di talento, eccellenza, selezione), ma ambiguamente confinante con l’autoreferenzialità, e come tale non conforme alla spinta all’innovazione e alla crescita.

La curiosità dello scienziato verso la natura, non regge come identità sociale, ed egli finisce per ricadere nel programma ideologico del potere economico, che gli offre legittimazione sociale ai patti prima esposti.

La velocità di questi processi innovativi, al pari di quelli economici, ha assunto un andamento esponenziale. Da molti anni si sono raccolti elementi che dimostrano l’insostenibilità, proprio sulla scala globale, di questo sistema economico ed epistemico.

L’abuso di combustibili fossili ha scavato il fossato delle diseguaglianze fra Paesi e all’interno di molti Paesi, compresi quelli più ricchi (di trasformazioni, non di risorse). E ci presenta il conto dello squilibrio climatico. I sistemi di welfare sono passati sotto il controllo degli investitori e dei mercati, che privilegiano il rimedio (farmaco) e trascurano la prevenzione primaria, che invece ambisce ad individuare le cause di cattiva salute e a prevenire i danni sanitari che da tali cause discendono.

La spinta a trasformare sempre più la conoscenza in prodotto ha fatto sì che, in molti settori, l’efficacia e la trasferibilità al mercato di una scoperta scientifica siano diventate più rilevanti rispetto al suo senso intrinseco. Il doversi allineare alle esigenze del mercato e, dunque, di profitti che si devono maturare nel tempo più breve possibile, limita la realizzazione di studi ed elaborazioni a scala temporale più ampia, e ostacola valutazioni di più lungo periodo sulle possibili implicazioni di una determinata ricerca scientifica sui più svariati contesti. Per esempio, la valutazione, nel lungo termine, di effetti sanitari dovuti ad insulti ambientali mal si concilia con gli interessi a breve termine sopra descritti.

In questo modo, stenta a trovare finanziamenti la ricerca, che richiede tempi lunghi, sugli effetti di nuove tecnologie così come sulle conseguenze probabilmente già intervenute a seguito dell’adozione di una tecnologia. I dati sui fondi della ricerca europea (Gee, 2012) nel 2002-2013 sono a tal proposito emblematici. A fronte di 70 miliardi di Euro investiti sullo sviluppo di prodotti e tecnologie, appena 465 milioni di Euro sono destinati alla protezione della salute e dell’ambiente, lo 0,7% del totale. Oltre alla carenza di fondi, la ricerca “cautelativa” e sul lungo termine si caratterizza anche per incidere negativamente sulla carriera dei ricercatori che lavorano nelle università o negli enti pubblici di ricerca, laddove la valutazione è oramai incentrata sul numero di articoli pubblicati, brevetti registrati e finanziamenti attratti.

Interessi economici e ricerca su ambiente e salute

Cosa succede invece quando la ricerca riguarda la salute pubblica o l’epidemiologia ambientale? Anche in questo caso, un ruolo preponderante nel finanziamento delle attività di ricerca è esercitato da multinazionali con interessi economici da difendere, interessi che potrebbero essere messi in discussione da ricerche realmente indipendenti, ovvero in grado di intaccare, o semplicemente disturbare, interessi economici costituiti. Una riflessione che illumina questo campo è offerta da uno scritto di Lorenzo Tomatis (Tomatis, 2004). Tra gli argomenti discussi, Tomatis mette in luce come l’esercito di ricercatori sostenuti dalle risorse economiche fornite dalle multinazionali sia in grado di alterare una pratica scientifica fondamentale, l’esercizio del dubbio, trasformandolo in un alibi per proporre sempre nuovi studi mai conclusivi; un caso illustrato è quello della tossicità dell’atrazina: “In pratica è successo che appena i risultati di uno studio dimostravano l’azione di disturbo endocrino dell’atrazina (azione che già si manifesta, è bene ricordare, a concentrazioni di pochi parti per miliardo) spuntavano come funghi diversi studi i cui risultati li mettevano in dubbio”. (Tomatis, 2004, pag.204). Grazie a pratiche come questa diventa possibile pilotare o rimandare sine die l’assunzione di decisioni tese alla salvaguardia della salute pubblica.

Più di recente, nel rapporto dell’Agenzia Ambientale Europea “Late lessons from early warnings: science, precaution, innovation” (EEA, 2013) vengono riportati una serie di esempi storici di mancati allarmi relativi a sostanze e tecnologie, al loro esordio apparentemente sicure, che però nel tempo si sono mostrate nocive per la salute e/o per gli ecosistemi. Comuni ai vari casi sono le strategie utilizzate da gruppi di interesse, con la partecipazione attiva o il consenso tacito di singoli e gruppi di ricerca per individuare ed ingigantire dubbi, per sottovalutare rischi, ignorare segnalazioni, ricerche e prove scientifiche della pericolosità di prodotti e tecnologie.

Emblematiche, a tal proposito, sono le azioni messe in atto dall’industria del tabacco per sovvertire la conoscenza scientifica sugli effetti nocivi del fumo (Bero, 2013). Azioni che ritroviamo ancora oggi, ogniqualvolta un interesse economico finanziario si senta minacciato o semplicemente danneggiato nella sua immagine da una ricerca scientifica.

Ancora una volta, si procede al finanziamento di studi paralleli al fine di produrre risultati favorevoli all’industria e che, in almeno due modi, alimentano controversie: dettando l’agenda della ricerca sotto il controllo del gruppo di interesse, oppure producendo dati che mettono in discussione ricerche sui rischi condotti da altri.

La conduzione di studi paralleli e il finanziamento ad essi associato vengono affidati a gruppi di ricerca interni all’organizzazione industriale, ovvero – direttamente o attraverso fondazioni ad essi collegati – a singoli ricercatori o consulenti, o ancora ad intere istituzioni di ricerca esterne. Per distrarre l’attenzione del grande pubblico, si alimentano  ricerche su aspetti minori, su fattori collaterali, o comunque su fattori la cui conoscenza non confligge con interessi industriali, ma che anzi li alimenta.

Oltre a fabbricare dubbi e controversie, la ricerca finanziata da imprese, multinazionali o da altri gruppi di interesse serve anche ad altri scopi. In relazione all’interesse economico in gioco, i risultati possono essere forniti direttamente ai policy makers o, in generale, ai mass media. Non secondario è lo scopo di fornire un’immagine positiva dell’impresa che finanzia la ricerca scientifica.

Un’altra strategia è costituita da interventi tesi ad alimentare ricerche che supportino la posizione dei gruppi di interesse, al fine di soverchiare i risultati di ricerche indipendenti con evidenze scientifiche a’ la carte. Molto spesso questa strategia si realizza attraverso l’organizzazione scientifica di convegni sponsorizzati e la pubblicazione degli atti senza peer review, oppure attraverso il reclutamento di scienziati di fama per scrivere articoli, editoriali, review su riviste scientifiche e/o giornali di stampa al fine di screditare autori di ricerche non gradite. Di contro, viene alimentata la tendenza ad occultare la ricerca che non supporta la posizione del gruppo di interesse, chiedendo ai ricercatori propri consulenti di tenere i risultati sfavorevoli chiusi nel cassetto o ancora mettendo in atto azioni mirate ad impedire o ritardare la pubblicazione di risultati di una ricerca non gradita.

La pratica dello scetticismo costruttivo viene piegata allo scopo meno nobile di sminuire la ricerca che non supporta la posizione del gruppo di interesse attraverso attacchi all’integrità dei ricercatori sui mass media (accusati di essere “deviati” da premesse ideologiche o da militanza di parte), definendo fuorvianti le metodiche adottate, confondendo i termini dello studio e delle conclusioni per riportare il dibattito su un piano di astrazione teorica lontano dalle decisioni pratiche; ancora, vengono proposte sempre nuove peer review sul lavoro scomodo, o si cerca di usare i medesimi dati di partenza con differenti tecniche per raggiungere risultati differenti.

In ultimo si è andato rafforzando il fenomeno che Tomatis aveva già chiaro nel 1999: “Le ricerche impegnate nella prevenzione e nella lotta per l’equità sanitaria e sociale venivano un tempo bloccate chiudendo i canali di finanziamento e privandole di mezzi.

Al blocco per carenza si è sostituito (oggi possiamo dire, aggiunto con vigore, ndr) un blocco per abbondanza, attraverso l’attrazione che possono esercitare finanziamenti cospicui e sicuri a temi di ricerca scelti dal potere economico”. (Tomatis, 1999, pag. 402).

Tutte queste strategie attualmente si intrecciano in modo complesso alla scarsità di risorse destinate alle università e agli enti pubblici di ricerca. Istituzioni, che sono ormai esposte ad una quasi totale dipendenza dai finanziamenti esterni. Con la contraddizione che le medesime istituzioni preposte a sovrintendere alla integrità scientifica dei loro ricercatori e, tramite le loro ricerche, alla tutela della collettività, entrano in rapporti finanziari con le industrie di cui dovrebbero valutare criticamente i processi di produzione, i prodotti, i manufatti che esse producono (Gallino, 2007).

I conflitti di interesse

Notoriamente l’epidemiologia ha il compito di diagnosticare la salute di una collettività per individuarne i fattori di rischio. In ciò, essa è differente dalla medicina che, al contrario, si rivolge alla diagnosi e cura dei singoli (Saracci, 2011).

La storia dei conflitti di interesse che hanno caratterizzato e caratterizzano le attività degli epidemiologi è lunga e articolata. Descrivere questa storia, tuttavia, esula dagli scopi di questo saggio. Qui, intanto, riportiamo una definizione del conflitto di interessi che, secondo il Dictionary of Epidemiology è “la compromissione dell’oggettività di una persona quando quella persona ha un interesse personale, ovvero può beneficiare finanziariamente o in termini di carriere e prestigio da alcuni aspetti della sua attività.”  (Porta, 2014)

Si possono distinguere due livelli di interessi, tra loro confliggenti. L’interesse primario della ricerca e del ricercatore in ambito epidemiologico e di salute pubblica dovrebbe essere quello di produrre evidenza imparziale su fattori di rischio per la salute (Vineis e Saracci, 2014). D’altro canto, anche l’industria energetica, del farmaco o di produzione di dispositivi medici può avere come interesse quello di produrre un’evidenza scientifica imparziale in ambito di salute di comunità. Pur tuttavia, tale interesse è subordinato a quello tipico di una azienda privata: il profitto. L’attività di ricerca in ambito pubblico è una condizione necessaria per la massimizzazione dell’interesse primario. L’operare in istituti di ricerca pubblici – pur rappresentando sulla carta e, non di rado anche nei fatti, una garanzia di indipendenza – non è però sufficiente, considerato il crescente ruolo dei finanziamenti privati anche nei bilanci degli enti pubblici. Dunque, anche in enti di ricerca pubblici non è raro imbattersi in pubblicazioni che di fatto, sulla falsa riga di quanto avviene ed è documentato nel privato, mirano a costruire dubbi intorno, per esempio, alla nocività dovuta all’esposizione ad alcune sostanze.

A proposito della produzione di dubbi, per meglio chiarirne la portata nefasta, è utile fare un passo indietro e tornare al parallelismo tra epidemiologia e medicina.

Ciascuno di noi, quando si presenta come paziente al cospetto di un medico, non si aspetta che questi si limiti ad illustrargli lo stato dell’arte della conoscenza scientifica, acquisita imparzialmente, sul disturbo o malattia che l’affligge. Né ci si aspetta dal medico che si limiti alla valutazione dell’incertezza che accompagna, inevitabilmente, la conoscenza scientifica. Al contrario, ciascuno di noi si aspetta che, sulla base delle conoscenze disponibili e valutata opportunamente l’incertezza ad esse associate, il medico gli fornisca la soluzione migliore (Saracci, 2014).

Analogamente, i gruppi di lavoratori esposti a nocività in ambiente occupazionale, o le popolazioni esposte a sostanze emesse da industrie, non si aspettano che il ricercatore o il decisore rappresentante di una agenzia sanitaria o di protezione ambientale si limiti ad illustrare l’evidenza scientifica e l’incertezza ad essa associata. Lavoratori e cittadini si aspettano che tali soggetti prospettino le soluzioni migliori per proteggere la loro salute.

Soluzioni che, come in ambito medico-clinico, massimizzino il beneficio probabile e minimizzino il danno probabile per la salute (Saracci, 2014).

Il parallelismo tra epidemiologia e medicina ci torna ancora utile per rifocalizzarci sull’interesse primario. Ciascuno di noi si aspetta da un medico che questi sia

incondizionatamente dalla parte del paziente, nel momento in cui vaglia delle alternative  diagnostiche, fa delle scelte ed elabora una decisione. Sarebbe biasimabile e soggetto a reprimende il medico che subordinasse l’interesse primario della sua azione – la salute del paziente – ad un altro interesse, per esempio economico, di prestigio o di carriera.

Anche dal ricercatore, dal funzionario di agenzia o dal dirigente pubblico impegnato in studi che, direttamente o indirettamente, hanno un valore in termini di salvaguardia della salute pubblica, ci si deve aspettare che sia incondizionatamente dalla parte della popolazione. Né è ammissibile che altri interessi, anche i più apparentemente nobili, come la salvaguardia di posti di lavoro in una industria inquinante, possano in alcun modo competere con l’interesse primario delle popolazioni.

Le riviste scientifiche adottano oramai come prassi quella di richiedere agli autori degli articoli di dichiarare eventuali conflitti di interesse. Allo stesso modo, è prassi che si esiga la stessa dichiarazione dai revisori di articoli scientifici e dai valutatori di progetti. È lecito, tuttavia, domandarsi se questa pratica sia sufficiente. Alla luce di quanto discusso fino adesso e documentato anche in letteratura (Gennaro e Tomatis, 2005) pensiamo che, a prescindere dalla dichiarazione di conflitto di interessi, a prescindere da eventuali distorsioni negli studi, la competizione tra interessi connaturata al ricercatore privato o a servizio dell’industria rende di fatto insufficiente la semplice dichiarazione di conflitto di interessi.

Scienza –società

La pressione di interessi economici in diverse attività di ricerca, la connivenza del mondo scientifico con interessi di carattere commerciale o carrieristico rispetto a quelli generali della collettività hanno portato negli ultimi anni al fatto che le posizioni di molti ricercatori vengano anche lette rispetto a possibili conflitti di interesse di parte a cui possono essere funzionali.

Nel 2014 ha fatto discutere la candidatura di Paolo Boffetta, epidemiologo di fama internazionale, al vertice del centro di ricerca francese in epidemiologia e salute della popolazione. L’impegno professionale di Boffetta, al centro di un conflitto di interessi fra privati finanziatori e oggetto delle ricerche, ha suscitato un dibattito sulla stampa francese, che ha costretto lo scienziato a ritirare la sua candidatura (Foucart, 2013; Foucart, 2014).

Un’altra situazione caratteristica è quella legata all’individuazione di soluzioni

tecnoscientifiche di problemi pratici (localizzazione di discariche, impianti di

smaltimento di rifiuti, etc) da parte di commissioni di esperti e istituzioni. Soluzioni che sempre più spesso innescano conflitti tra le comunità locali per il loro potenziale impatto.

Diventa pertanto necessario rivedere alcune prassi del lavoro scientifico in relazione alla società in ambiti come quelli dell’ambiente e della salute, in cui gli interessi in gioco sono elevati, l’incertezza scientifica è ampia e i valori in campo sono differenti.

Se in passato l’isolamento della comunità scientifica dalla società ha permesso al singolo scienziato di concentrarsi su problematiche per le quali lui stesso riteneva di essere in grado di trovare la soluzione, oggi è necessario individuare forme di ricerca e comunicazione più inclusive che ridiscutano il rapporto tra soggetti e oggetti della ricerca.

Queste devono comportare un allargamento dei soggetti autorizzati a partecipare alla  definizione delle domande di ricerca e delle metodologie di lavoro, e alla raccolta di informazioni rilevanti. Accanto agli esperti è, quindi, auspicabile la presenza di osservatori competenti, scienziati portatori di prospettive minoritarie o di altri settori, nonché di cittadini portatori di interessi non esclusivamente economici.

La storia dell’amianto fornisce ancora un’altra importante lezione in questa direzione (Gee e Greenberg, 2001). Le prime segnalazioni del pericolo per la salute causato dal lavorare con l’amianto vennero da Lucy Deane, una delle prime ispettrici del lavoro in Gran Bretagna nel 1898. Nel 1909 e nel 1910 seguirono due osservazioni analoghe da parte di ispettrici del lavoro pubblicate nelle relazioni annuali dell’ispettore capo delle Industrie di Sua Maestà. Sebbene le osservazioni di queste professioniste competenti fossero supportate da solide argomentazioni nel campo delle malattie occupazionali, esse non furono considerate come un “parere di esperti”. Non vennero confutate, vennero semplicemente ignorate. Così come furono ignorate le appropriate indagini di mortalità che le stesse suggerirono. Sarà solo nel 1998, un secolo dopo, che il governo britannico metterà al bando ogni forma di amianto, una decisione a cui farà eco qualche anno dopo quella dell’Unione Europea. Oggi si stimano circa 6000 morti l’anno per malattie collegate all’amianto solo nel Regno Unito, 400 miliardi di Euro per i costi nell’Unione europea per le varie forme di cancro collegate all’amianto, più altri miliardi di euro per lo smaltimento dell’amianto (Gee, 2012).

Ma mentre nel Regno Unito le segnalazioni di alcune ispettrici del lavoro venivano ignorate, negli USA negli stessi anni la patologa e riformista sociale Alice Hamilton cominciava, su incarico dello Stato dell’Illinois, la sua indagine sui veleni nei luoghi di lavoro. Le sue ricerche porteranno ad importanti risultati sugli effetti dannosi dell’esposizione al piombo, al mercurio, ai materiali esplosivi, al benzene etc., e contribuiranno allo sviluppo della medicina del lavoro negli USA. Suo fu, infatti, il primo insegnamento di “Medicina industriale” alla facoltà di Medicina di Harvard, suoi i testi “Industrial poisons in the United States” e “Industrial toxicology” su cui si formarono generazioni di studenti americani. E’ lei stessa ad affermare nella sua biografia che forse quel ruolo ad Harvard (roccaforte del maschilismo) le era stato assegnato perché unico candidato disponibile a insegnare una materia considerata dai colleghi medici non troppo dignitosa in quanto troppo sentimentale, se non addirittura socializzante (Hamilton, 1943). In tutte le sue indagini Alice Hamilton approfondì sul campo sia l’aspetto ambientale che quello sanitario, gettando le basi di quella che sarà chiamata “shoe-leather epidemiology”. Non si limitò ad analizzare dati, cartelle, bibliografia, ma visitò le fabbriche, entrò nei reparti, girò tra i medici, si recò negli ospedali, nelle chiese, nelle farmacie per trovare i casi di malattia, seguendone le tracce nei quartieri e nelle case dei lavoratori. La novità del suo approccio di ricerca, “non era solo nei contenuti, ovvero nella scoperta del prezzo pagato dai lavoratori alla produzione di fabbrica, ma anche nel metodo: le sue ricerche si svolgevano per le strade ed i principali soggetti erano proprio i lavoratori e le lavoratrici che diventavano produttori di sapere” (Armiero, 2014 pag. 10). E se il suo essere donna non la aiutò nella carriera accademica, si rilevò invece fondamentale nel suo lavoro quotidiano per l’empatia con le persone dentro e fuori la fabbrica. Non a caso Alice Hamilton è stata definita una precursore della street science, ovvero di quella coproduzione di sapere tra attivisti ed esperti che consentiva di svelare  rischi lavorativi che non erano in genere segnalati dai proprietari delle fabbriche e dai medici (Armiero, 2014).

L’allargamento dei soggetti autorizzati a partecipare alla definizione delle domande di ricerca comporta l’assunzione della parzialità, anche di genere, di quanti finora sono stati al centro della scienza. Di coloro, cioè, che sulla oggettività, sull’imparzialità, sulla separatezza dalla natura hanno costruito oltre che le fondamenta della scienza anche il suo potere. L’esclusione ossessiva delle donne ha caratterizzato dalla nascita la scienza moderna. Scienza, che ha teso ad escludere tutto ciò che con il genere femminile veniva identificato ovvero la soggettività, l’emotività, lo stretto legame con la natura. (Fox Keller, 1985). Rispetto ad un paradigma astratto di una scienza come rispecchiamento della realtà e della natura, indipendente dal soggetto osservatore, nel mondo reale della ricerca scientifica non è affatto “neutrale” essere nei luoghi dove si decidono gli indirizzi della ricerca scientifica, le tematiche e i settori da potenziare economicamente, per modellare il mondo del futuro. L’aver escluso il genere femminile per secoli dall’impresa scientifica e dai ruoli decisionali ha significato anche una perdita di punti vista, bisogni, domande, prospettive ora più che mai necessari per affrontare le sfide ecologiche e sociali che gli intrecci economici e tecnoscientifici pongono. Al contrario assumere un punto di vista di genere permetterebbe di mettere al centro del dibattito il modo in cui produzione, riproduzione e responsabilità interagiscono nel rispetto della vita in ogni sua forma (Barca, 2015).

Prospettive e posizionamenti alternativi

Può esistere una attività scientifica al di fuori della relazione totalizzante con il potere economico? Nella formazione scientifica attuale si delinea una netta alternativa: o integrarsi alla relazione scienza-società oggi data, per avere le risorse per fare scienza, o rinunciare alla scienza e agire politicamente. Esiste invece una possibile scelta della comunità scientifica (oggi comunque praticata da una sua piccola parte) che non sia “la soluzione altrettanto falsa, la pratica schizofrenica dello “studio di giorno e di sera agito le masse” (Maccacaro, 1977, pag.10): la scelta di motivare e definire il proprio studio e le domande di ricerca con una visione etica integrata ad una teoria e pratica sociale.

Diverse sono le forme in cui si declinano questi posizionamenti alternativi, che spesso si intrecciano tra di loro.

Una forma è quella delle reti sempre più numerose di scienziati indipendenti per un uso responsabile e sostenibile della scienza e della tecnologia. Tra queste, la “Union of Concerned Scientists” (UCS, www.ucsusa.org), rete nata nel 1969 da un gruppo di scienziati e studenti del Massachusetts Institute of Technology, con il loro progetto di un pianeta più sostenibile da un punto di vista ambientale, sanitario e sociale. Attraverso studi dettagliati e rigorosi, questo gruppo prende posizione apertamente allo scopo di arginare lo strapotere economico e mediatico delle varie corporations. In Europa è attiva dal 2009, con base in Germania, una associazione no-profit, la European Network of Scientists for Social and Environmental Responsibility (ENSSER) che mette insieme competenze scientifiche indipendenti per una valutazione critica delle tecnologie esistenti  ed emergenti (www.ensser.org/). Un’altra esperienza di storia più lunga è quella dell’International Network of Engineers and Scientists for global Responsibility (INES, www.inesglobal.com/) che tra i suoi obiettivi ha quello di promuovere l’uso responsabile e sostenibile della scienza e della tecnologia (nel network l’unica realtà italiana presente è l’Unione degli Scienziati per il Disarmo, attivi principalmente sul rischio di guerra nucleare). Collegato a questo network c’è il gruppo inglese “Scientists for Global Responsibility” (www.sgr.org.uk) costituito da centinaia di scienziati naturali, sociali, ingegneri, tecnici ed architetti impegnati nel promuovere scienza, design e tecnologia che possano contribuire alla pace, alla giustizia sociale e alla sostenibilità ambientale.

Un’altra realtà che si è ritagliata uno spazio nel panorama di altri modi di pensare e fare scienza è quella dei Science Shop, in Europa ricostruita di recente dalla rete ISSNET (Improving Science Shop Networking), che si confronta nelle conferenze biennali “Living Knowledge” (www.livingknowledge.org/livingknowledge). Un Science Shop è una entità in grado di produrre ricerche scientifiche in un vasto spettro di discipline a beneficio dei cittadini e delle organizzazioni della società civile e in risposta alle loro necessità. Questo approccio ha aperto (o riaperto) il confronto su cosa possa essere una “ricerca scientifica partecipativa”. Lo sguardo dei ricercatori (e sperabilmente quello delle istituzioni scientifiche che organizzano la ricerca) si allontana dalla relazione esclusiva con le esigenze di crescita economica di tipo capitalistico, si allarga ad esigenze differenti da quelle economiche. L’allargamento comincia dalla stessa formulazione delle domande di ricerca, ovvero dalla scelta su cosa valga la pena investire il tempo e sviluppare gli strumenti dei ricercatori. L’intenzione è quella di sviluppare la partecipazione, ovvero la comunicazione bidirezionale tra i ricercatori da un lato e dall’altro quelle che Marcello Cini individua come le vere “istituzioni culturali di una società – chiese, associazioni civiche, solidaristiche, circoli sportivi, gruppi artistici, ONG” (Cini, 2006, pag.334), queste ultime in grado di generare la fiducia sociale che potrebbe rappresentare un diverso patto con la comunità scientifica. In questo sistema relazionale, la cultura scientifica recupera un senso originario e specifico: misurare i fenomeni e proiettare le conoscenze in scenari per il futuro. Nella realizzazione pratica di questa prospettiva alternativa, si sono registrate differenti gradazioni: ad un estremo si situano iniziative di collaborazione tecnico-scientifiche che puntano ancora ad istanze produttive, come il cosiddetto trasferimento tecnologico (ad esempio le agenzie partecipate per lo più da governi locali, associazioni di produttori e mondo accademico e della ricerca). Come esempio opposto, possiamo citare la fondazione francese Science Citoyennes (sciencescitoyennes.org/), una realtà considerata radicale di partecipazione democratica alla produzione scientifica, che mette al centro della propria azione la lotta alle lobbies economiche, l’esplicitazione della deontologia professionale del ricercatore, la denuncia dei conflitti di interesse e dei conseguenti effetti sulla produzione di ricerca scientifica. Uno degli strumenti di lavoro della fondazione è la difesa di quei soggetti ai quali viene dato il nome di lanceurs d’alert (whistle-blowers in inglese); espressione originariamente coniata per indicare coloro che denunciano una frode, o una corruzione (privata o pubblica), è stata anche associata ai soggetti che hanno la possibilità di rendere di pubblico dominio informazioni (anche dati e risultati di ricerche scientifiche) sulle quali interessi particolari pongono (legalmente o meno) un veto di comunicazione, in quanto suscettibili di sollevare preoccupazione  diffusa, per esempio su eventuali rischi per la salute o per gli interessi anche economici della popolazione generale. Anche la UCS si è dimostrata attiva nella difesa degli Scientist Whistleblowers (CSD-UCS, 2015).

Accanto a reti più o meno strutturate, esistono poi altre esperienze di ricerca partecipata a livello territoriale che vedono nella definizione di domande di ricerca e/o nella progettazione di studi scientifici, il coinvolgimento diretto di gruppi o comitati di cittadini, sempre più capaci di valutare lo stato del proprio ambiente e della propria salute, grazie anche alla facilità di accesso alle tecnologie informatiche per il recupero di informazioni scientifiche.

In Italia, questo approccio di non delega della ricerca sanitaria e ambientale da parte delle comunità e di apertura di alcuni ricercatori a rivedere i propri metodi è documentato dalla rivista Epidemiologia e Prevenzione, che ha dedicato a ciò la sua nuova sezione EpiChange (in tema di ambiente e salute si veda per esempio Vigotti et al., 2015; Biggeri et al., 2015).

Considerazioni finali

La società si trova a vivere rapide trasformazioni, da un punto di vista pratico e simbolico, a valle di innovazioni scientifiche e tecnologiche, sempre più repentine e pervasive, contrassegnate da ambivalenze e contraddizioni. La più grande contraddizione è quella di uno sviluppo diseguale, guidato da interessi economici e finanziari, che se, talvolta, produce un netto miglioramento degli stili di vita di talune categorie di persone in alcune parti del mondo, al tempo stesso, e in maniera non immediatamente palese, determina l’arretramento delle condizioni di vita di altre fasce di popolazione, e spesso di interi sistemi naturali, in altre parti del mondo. O ancora: può migliorare le condizioni di vita attuali ma a danno delle generazioni future.

La fondamentale incertezza prodotta dalle limitate conoscenze dei processi ecologici ed umani, l’indeterminismo dei sistemi dinamici complessi, le scelte umane che impattano sulla biosfera aumentano il livello di incertezza e imprevedibilità.

Tutto ciò impone una riflessione più ampia sul rapporto tra scienza, tecnologia e società; sul ruolo della comunità scientifica all’interno di un processo di innovazione dato e definito in termini di produttività e di profitto; sull’adozione una prospettiva di genere.

La globalità dei problemi, dalle disuguaglianze in termini di salute e accesso alle risorse, ai cambiamenti climatici, rende necessari nuovi punti di vista e nuove visioni che superino la cultura scientifica dominante costruitasi su un’ideologia di neutralità e oggettivazione cui basta l’evidenza dei risultati per eludere il problema della giustificazione dei fini.

Siamo sempre più convinti “che il ricercatore e lo scienziato devono avere ben chiara non solo la loro passione per la ricerca ma anche i loro obblighi verso la società e verso il loro prossimo”, consapevoli che “ci vuole altrettanto coraggio, determinazione e spirito di sacrificio per resistere all’attrazione di un finanziamento abbondante e sicuro, di quanto ce ne voleva per intraprendere e mantenere una ricerca con mezzi scarsi e inadeguati. Che vi siano tuttora ricercatori con tale coraggio e determinazione è uno dei pochi segnali incoraggianti” (Tomatis, 1999, pag. 406).

Riflessioni Sistemiche – N° 13 dicembre 2015 99

D’altro canto siamo consapevoli che, come dice Elisabetta Donini, per come si è andata sviluppando, la scienza non può cambiare solo dal proprio interno. E’ necessario che cambino le domande che le si pongono e le attese sociali nei suoi confronti, le soggettività di coloro che fanno scienza e di coloro che si misurano con l’impatto che essa ha sulla società (Donini, 1990).

Bibliografia

Armiero M., 2014. Il movimento per la giustizia ambientale. La Sinistra Rivista, n.3 gennaio 2014. pag.7-21.

Barca S., 2015. Labour and climate change: towards an emancipatory ecological class consciousness. EJOLT Report 23. 73-78. http://www.ejolt.org/2015/09/refocusingresistance-climate-justice-coping-coping-beyond-paris/.

Benessia A., Funtowicz S., 2015. “Ottimizzare, sostituire e sconfiggere. I proiettili d’argento dell’innovazione”. L’innovazione tra utopia e storia. Codice Ed. Torino.

Bero L., 2013. “Tobacco industry manipulation of research”. In “Late lessons from early warnings: science, precaution, innovation.” 151-178. European Environmental Agency, Report n.1/2013. Lussemburgo.

Biggeri, A., Vigotti, M. A., Mangia, C., Cervino, M., Bruni, A., De Marchi, B., Riccardi,

A,. 2014. EpiChange. Studio epidemiologico sullo stato di salute dei residenti nel

Comune di Manfredonia. Fase 2. Scenari e implicazioni. Epidemiologia & Prevenzione, 39(4), 220-223.

Cini M., 2006. Il supermarket di Prometeo. Codice Ed., Torino.

CSD-UCS (Centre for Science and Democracy at the Union of Concerned Scientists, 2015. Grading Government Transparency. Scientists’ Freedom to Speak (and Tweet) at

Federal Agencies. Marzo 2015, Union of Concerned Scientists report. Accessibile a http://www.ucsusa.org/center-science-and-democracy/promoting-public-accessscience/grading-government-transparency-2015#.VmhaXr-uoiI

Donini E., 1990. La nube e il limite. Donne, scienza, percorsi nel tempo. Rosenberg & Selliers Ed., Torino.

EEA- European Environment Agency, 2013. Late lessons from early warnings: science, precaution, innovation. European Environment Agency, Report n.1/2013. Lussemburgo.

Foucart S., 2013. Épidémiologie: des liaisons dangereuses. Le Monde, 18 Décembre 2013.

Foucart S., 2014. Polémique autour d’une nomination au sommet de l’épidémiologiefrançaise. Le Monde, 17 Janvier 2014.

Fox Keller E., 1987. Sul genere e la scienza. Garzanti, Milano. (Boston 1985).

Gallino L., 2007. Tecnologia e democrazia. Einaudi Ed. Torino.

Gee D. e Greenberg M., 2001. “Asbestos: from ‘magic’ to malevolent mineral.” In Late lessons from early warnings: the precautionary principle 1896–2000. European Environment Agency, Lussemburgo.

Riflessioni Sistemiche – N° 13 dicembre 2015 100

Gee D., 2012. Late Lessons from Early Warnings about Environment & Health Hazards: what can we Learn? ESRC Festival of Social Science, Leeds, 6 Nov 2012.

Gennaro V., Tomatis L., 2005. Business bias: how epidemiologic studies may

underestimate or fail to detect increased risks of cancer and other diseases. International Journal of Occupational and Environmental health, 11(4), 356-359.

Hamilton A. 1943. Exploring the Dangerous Trades –The Autobiography of Alice Hamilton. Atlantic Monthly Press Book, Boston.

Maccacaro G.A, 1977. Multinazionale scientifica e impresa multinazionale. Sapere, numero 798, Marzo 1977.

Porta M., 2014. A dictionary of epidemiology. Oxford University Press, New York.

Saracci R., 2011. Epidemiology. A Very Short Introduction. Oxford University Press, Oxford.

Saracci R., 2014. Epidemiologia, «liaisons dangereuses» e sanità pubblica.

Epidemiologia & Prevenzione. 2014 Mar-Apr;38(2):133-7.

Tomatis L., 1999. Impegno e ambigua complessità nella ricerca scientifica.

Epidemiologia & Prevenzione, anno 23, 402-407.

Tomatis L., 2004. Riflessioni su Giulio Maccacaro e i rischi attribuibili ad agenti chimici. Epidemiologia & Prevenzione, anno 28, n.(4-5), 201-206.

Vigotti, M. A., Mangia, C., Cervino, M., Bruni, A., Biggeri, A., De Marchi, B., &

Gianicolo, E. A., 2014. Studio epidemiologico sullo stato di salute dei residenti nel Comune di Manfredonia. L’avvio dello studio raccontato dai ricercatori. Epidemiologia& Prevenzione, 39(2), 81-83.

Vineis P., Saracci R., 2015. Conflicts of interest matter and awareness is needed. JEpidemiol Community Health. 69(10):1018-20.

http://www.aiems.eu/files/13_numero_-_mangia.pdf

DA Maurizio Portaluri MD, Head Radiotherapy Dept. General Hospital “Perrino” Brindisi (Italy)

28/12/2015

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *