Intervista al collettivo politico dell’ex OPG “Je so pazzo” di Napoli

Intervista al collettivo politico dell’ex OPG “Je so pazzo” di Napoli

La Città futura ringrazia il collettivo politico dell’ex OPG “Je so pazzo” per lo sforzo fatto nel rispondere ai nostri quesiti in un momento in cui al tradizionale lavoro politico e alle decine di attività sociali che quotidianamente portano avanti si aggiunge il lavoro specificamente legato alla campagna elettorale. L’impegno dimostrato e la qualità delle risposte, sono, a nostro avviso, di fondamentale importanza e ci auguriamo che servano da esempio, stimolo e insegnamento.

1) Potere al popolo è la lista che proverà a “trasformare il teatrino elettorale in una dichiarazione di esistenza di tutti gli esclusi”. Ma per voi potere al popolo significa anche “restituire alle classi popolari il controllo sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza; significa realizzare la democrazia nel suo senso vero e originario”. Se al tempo di Rousseau, Babeuf e Buonarroti, il concetto di popolo aveva una sua indiscutibile forza analitica, potendo indicare i gruppi sociali opposti all’aristocrazia, col definitivo superamento dell’ancien régime, si impongono le categorie di borghesia e proletariato. Perché, dunque, se il bersaglio non è la casta, riprendere oggi, in Italia, la parola “popolo” col suo interclassismo, rinunciando ad ogni rinvio, anche solo grafico o terminologico, al comunismo, all’anticapitalismo o anche alla parola “sinistra”?

Chiariamoci innanzitutto su un punto: borghesia e proletariato non sono “categorie” bensì corpi sociali che esistono a prescindere dall’analisi teorica, nonché a prescindere dall’analisi marxista nello specifico. Lo stesso Marx scrive (Lettera a Weydemeyer, 1852) che non è sua né la scoperta delle classi né tantomeno la scoperta del conflitto tra esse. La scelta della parola “popolo”, ad ogni modo, non risponde solamente ad esigenze comunicative, ma alla necessità di rappresentare, effettivamente, qualcos’altro rispetto al solo proletariato, vale a dire un’alleanza di classi all’interno di una situazione di conflitto e di accelerazione dei processi di ristrutturazione che comporta un rapido scivolamento verso il basso di ampi pezzi della piccola borghesia. Quest’alleanza non compone un quadro statico, e quindi interclassista, quale può essere una definizione ed un uso “nazionale” del termine, bensì un quadro estremamente dinamico, all’interno del quale è forte un sentimento di opposizione alle classi e al sistema dominante, comunque “nominato”. La parola, del resto, è stata utilizzata da altre formazioni o leader non tacciabili di interclassismo, come le organizzazioni rivoluzionarie dell’America Latina, il Black Panther Party, il compagno Mao. Sempre Marx – ne ha parlato di recente anche Isabelle Garo in un interessante contributo – non contrappone il proletariato al popolo, bensì lo pone in un rapporto dialettico, nel quale il “popolo” è comunque un’alleanza tra classi all’interno di una situazione di conflitto.

Del resto per noi il “proletariato” resta una fondamentale categoria di analisi, ma le scelte comunicative devono necessariamente rispondere ad esigenze diverse, ed infatti nella storia i comunisti sono stati sempre estremamente flessibili nella scelta del lessico e dei simboli: popolo, operai, lavoratori, oppressi, esclusi, falce e martello, stella, stelle, ruota dentata e machete… Un motto attribuito a Catone il vecchio invitava a “possedere l’argomento: la parola verrà da sé”. Nella nostra scelta di accantonare certe rigidità comunicative che spesso nascondono solo una grande debolezza teorica e pratica, abbiamo, in un certo senso, operato una rottura col post-moderno, con quel nomina nuda tenemus reso celebre da Eco, per riappropriarci della concretezza, e della durezza della realtà. Riteniamo che alcune parole e alcuni simboli che appartengono alla nostra storia siano, oggi, senza alcun significato per il nostro soggetto di riferimento, se non addirittura risemantizzati in modo negativo: dal momento che il compito dei comunisti è quello di mettersi al servizio della classe, e non a guardia delle parole, abbiamo ritenuto necessario operare una rottura. Se sia giusta o sbagliata sarà la realtà a dircelo: per il momento è efficace.

2) Dal 14 novembre, giorno del lancio del video-messaggio con l’idea di fare una lista “per chi ogni giorno subisce decisioni scellerate, che produce la ricchezza di cui pochi beneficiano”, sono successe tantissime cose: due assemblee nazionali, centinaia di assemblee territoriali, adesioni da parte di decine di migliaia di persone, partiti comunisti e organizzazioni della sinistra antagonista e radicale, creazione del simbolo, redazione di un manifesto, del programma, ecc. Le difficoltà non saranno state poche. Quali sono state le maggiori? Ve le aspettavate?

Diciamo che, ad oggi, le difficoltà sono state minori di quanto ci aspettassimo. Quando abbiamo deciso di lanciare la nostra candidatura temevamo di non reggere il livello di impegno che ci avrebbe richiesto e di sottrarre energie al nostro lavoro politico quotidiano e alle decine di attività sociali che portiamo avanti. Queste erano le nostre principali paure. Al momento, l’ottimismo della volontà ha avuto la meglio sul pessimismo della ragione: l’abitudine a lavorare insieme, a confrontarci e soprattutto a fidarci l’uno dell’altro ha permesso una rapida riallocazione di forze che finora non ci ha fatto venire meno rispetto ai nostri piani d’intervento “tradizionali”. Il nome lo usavamo già da tempo, il manifesto e la prima bozza di programma sono venuti fuori quasi “naturalmente” dal nostro pregresso, e girare l’Italia per le assemblee, al di là del dispendio economico, è stato uno straordinario bagno di realtà che abbiamo fatto con estremo piacere.

La difficoltà maggiore che abbiamo trovato finora è, probabilmente, politica e non tecnica. Noi veniamo dal cosiddetto “movimento” e continuiamo a farne parte: alcuni dei nostri storici compagni di strada non hanno compreso la nostra scelta, oppure l’hanno compresa ma non condivisa, anteponendo valutazioni relative all’opportunità della scelta elettorale, o ai nostri “compagni di strada”, rispetto a considerazioni sul senso del nostro percorso e sulla sua coerenza con l’obiettivo dichiarato. Alcuni, insomma, non si sono fidati, e da questo punto di vista speravamo di ottenere di più, ma contiamo di convincere gli scettici nei prossimi mesi

3) Tra le tante cose fatte c’è il programma. La Città futura ha apprezzato la scelta di redigere un “programma minimo” in quanto tutte le rivendicazioni, anche le più radicali, devono partire dal presupposto che in questa fasenon è possibile mettere all’ordine del giorno la questione della presa del potere, vale a dire “del controllo sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza” e quindi “della democrazia nel suo senso vero e originario”. Tuttavia, trattandosi di un programma di coalizione e non di partito e vista la composizione sociale delle forze che l’hanno costruito, il programma è di fatto democratico (interclassista) più che della classe lavoratrice. Un risultato comunque ottimo ed il massimo che era possibile ottenere in questa fase ma che lascia aperti alcuni interrogativi, in particolare quello sul rapporto tra la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro e quella per il reddito minimo garantito, dietro cui si celano, rispettivamente, il socialismo scientifico e il socialismo utopista. Qual’è la vostra posizione al riguardo?

Il programma, come giustamente dite voi, è un programma democratico ed è il risultato di un compromesso con le altre forze che partecipano al progetto. Non riteniamo che sia “interclassista” perché crediamo che sia chiaramente collocato in una prospettiva che è quella della classe lavoratrice. Non è un caso che ci hanno rimproverato, ad esempio, di aver trascurato le difficoltà delle PMI, o di essere stati meno sensibili, relativamente ad altri punti, rispetto a tematiche “etiche” o che riguardano diritti individuali. Crediamo di poter dire che si tratta di un programma democratico, radicale, di classe, non rivoluzionario. Abbiamo cercato soprattutto di fare attenzione al metodo di elaborazione del programma stesso, che davvero, e non per retorica, è stato condiviso da centinaia di persone. In questi due mesi abbiamo avuto scambi pressocché quotidiani con persone che ci sottoponevano contributi, emendamenti, integrazioni, critiche, dalle più sensate, approfondite, concrete, testimonianza di quel sapere di classe che è diffuso ma non organizzato, ad altre più “eterodosse”, alcune divertenti, mai comunque totalmente folli o reazionarie, segno che avevamo intercettato correttamente il nostro soggetto di riferimento.

Veniamo quindi alla seconda parte della vostra domanda, quella della contraddizione tra la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro e quella del reddito. In questa intervista noi rispondiamo come collettivo politico dell’Ex OPG, quindi esponiamo le nostre opinioni e non quelle della coalizione. Noi siamo, per usare l’espressione con cui ci criticano i nostri detrattori, rigorosamente “lavoristi”: riteniamo che nello sfruttamento capitalistico risiedano, contemporaneamente e in forma contraddittoria, la chiave della permanenza e quella della rovina dell’attuale sistema economico. Crediamo che la liberazione della classe lavoratrice passi per la rottura delle catene dello sfruttamento, rottura di esse, appunto, e non “fuga” da esse. Finché esisterà, il capitalismo avrà sempre bisogno di operai – non c’è automazione che tenga – e finché sarà così non esiste “reddito” che possa liberare la classe. A uguali condizioni produttive, ogni forma di reddito è, nella migliore delle ipotesi, una forma redistributiva del salario che non tocca i profitti; la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, invece, resta il solo strumento per portare quote di capitale dal conto del profitto al conto del salario. Ovviamente abbiamo semplificato moltissimo, e ci perdoneranno i “redditisti” per una banalizzazione che fa torto a noi e a loro, ma la sostanza è questa.

La forma di compromesso trovata per il programma crediamo sia soddisfacente: il reddito è inserito quale forma di welfare – avremmo qualcosa da dire anche su questo, ma ci asteniamo – mentre l’asse del programma è tutto incentrato sul lavoro. Non è un caso, infatti, che avveduti “redditisti” che scrivono sulla stampa nazionale si siano accorti di questa “riduzione” e ci abbiano criticati per questo. Del resto la battaglia pro o contro la rivendicazione del reddito è storica, loro non scoprono oggi la nostra posizione, noi non ci stupiamo per la loro avversione.

4) Con la vostra iniziativa avete messo attorno a un tavolo alcune delle maggiori soggettività che si rifanno ancora, in qualche modo, al comunismo: il Partito della Rifondazione Comunista, il Partito Comunista Italiano, Sinistra Anticapitalista, la Rete dei Comunisti, solo per citarne alcune. Organizzazioni e dirigenti che in questi ultimi 25 anni, tra difficoltà oggettive, errori e contraddizioni hanno dilapidato un patrimonio di conoscenze e di lotte fino quasi a sparire, se non altro in termini di consenso, ma che rimangono ancora molto più grandi, conosciute e articolate dell’ex OPG di Napoli. Come fare a conservare, rafforzare ed utilizzare le tante cose buone che queste organizzazioni ed i militanti che le compongono ancora conservano e riescono a produrre senza generare negli elettori, ed in particolare nei lavoratori, diffidenza e rigetto?

Questa domanda si ricollega, in un certo senso, alla prima. Il nostro passato recente lega certe parole e certi simboli a sconfitte brucianti, nel migliore dei casi, a tradimenti nel peggiore. Chi tra i lavoratori ha l’età e la memoria per ricordarsene elenca come un rosario i provvedimenti antioperai votati anche da Rifondazione o dai Comunisti Italiani, dal pacchetto Treu al protocollo sul Welfare, dalla Turco-Napolitano agli interventi militari in Kosovo, Afghanistan, etc. Questi due partiti, in particolare, hanno pagato tatticismi ed errori con la scomparsa dal Parlamento, il crollo degli iscritti e dei militanti, la riduzione ad un lavoro quasi esclusivamente di testimonianza.

Il “vuoto” lasciato da questi due soggetti politici non ha trovato però altri soggetti in grado di riempirlo. La galassia dei movimenti ha continuato ad agire “come se” continuassero ad esistere Rifondazione e PdCI: alcuni, venuta meno questa sponda, non si sono fatti scrupoli nella costruzione di dialettiche con soggetti che sono più a destra, altri invece si sono chiusi a difesa dei propri spazi, visti come fortini, senza rendersi conto che intanto, fuori, veniva meno il terreno politico che di quegli spazi era stato l’humus. A salvarsi sono state le lotte territoriali – i NO TAV davanti a tutti – e quelle compagne e quei compagni che hanno compreso che, per tornare a far vivere il nostro discorso politico nella società, occorreva rimboccarsi le maniche, abbandonando ogni presunta posizione acquisita e ripartendo da zero. Assolutamente da zero. Anche le BSA, per noi, sono state in tal senso un modello.

Ecco che, quindi, nel deserto che abbiamo attraversato, sono sopravvissuti, hanno lottato e hanno vinto coloro che, dentro o fuori Rifondazione, l’ex PdCI, i centri sociali, i collettivi studenteschi, hanno deciso di ripartire domandando, ritornando tra i nostri, intercettandone i problemi, ragionando insieme sulle soluzioni, mettendosi al servizio e non su un piedistallo ad indicare la via. Sono queste e questi che, oggi, a prescindere dalle sigle di appartenenza, si ritrovano in Potere al Popolo: del resto chi oggi è con noi non può di certo farlo per ambire ad un posto in Parlamento che, ottimisticamente parlando, è un obiettivo difficile da raggiungere. Chi oggi è con noi, che sia del PRC, del PCI, della Rete dei Comunisti o di Sinistra Anticapitalista, vuole mettersi a disposizione per riportare il nostro discorso politico ad avere casa nel nostro soggetto di riferimento. Se a parlare sono queste istanze, e non i simboli o le bandierine, il problema posto dalla domanda è superato in partenza.

5) Voi che siete stati cacciati dal Brancaccio avete voluto accogliere tutti. Qualcuno, tuttavia, ha preferito starvi alla larga. Ora, se è facile capire le differenze sia di natura strategica che tattica che vi differenziano da MDP, SI, Possibile, ci potreste spiegare quali e di che portata sono le differenze con la ‘mossa del cavallo’ di Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa e perché non si è creata alcuna convergenza con questi che pure sono personaggi del variegato mondo della sinistra, il cui programma per molti aspetti è sovrapponibile a quello di Potere al popolo? Pensate sia auspicabile un avvicinamento a quell’esperienza dopo le elezioni?

Quando parliamo di Ingroia parliamo di uno che noi non riteniamo parte del nostro “album di famiglia”. Antonio Ingroia, recentemente, preso dalla foga di attaccarci sull’abolizione del 41 bis, accusandoci di voler fare un regalo ai mafiosi che si sarebbe aspettato, invece, da Berlusconi, ha dimenticato che è stato proprio Berlusconi a renderlo legge ordinaria e a rafforzarlo. Insomma, nel metodo e nel merito non ci sembra che siamo nell’ottica del “marciare separati, colpire uniti”. Ad ogni modo riteniamo che su alcune tematiche centrali – il discorso della sovranità nazionale, certi discorsi un po’ ambigui sulla questione dell’immigrazione – ci sia una distanza ben più ampia di quanto possa trasparire.

6) Tra chi ha preferito starvi esplicitamente alla larga ci sono le formazioni comuniste di più stretta osservanza: da un lato gli stalinisti del Partito Comunista e dall’altro i trotzkisti del Partito Comunista dei Lavoratori e quelli di Sinistra Classe e Rivoluzione. Eppure, ancor più che nel caso della lista Ingroia-Chiesa, le differenze col programma di Potere al popolo non sembrano insuperabili. Quali e di che portata sono le differenze tra voi e queste formazioni e perché non si è creata alcuna convergenza? Pensate sia auspicabile un avvicinamento a quei mondi dopo le elezioni?

A questa domanda potrebbero rispondere loro! Il Partito Comunista, per quanto ne sappiamo, ha criticato l’assenza della Falce e Martello nel simbolo… noi a loro critichiamo, ancora una volta, una posizione non condivisibile sul tema immigrazione, e dichiarazioni mediatiche di Rizzo che, benché ammantate di un marxismo scolastico, sono pericolosamente contigue a quelle della destra. Per quanto riguarda quelli che definite “trotzkisti” hanno scritto almeno un paio di testi che argomentano la loro distanza da noi; in quei testi potete trovare la loro risposta alle vostre domande. Noi riteniamo che le loro argomentazioni non siano nuove e che, nel loro essere in buona parte prevedibili, denotino una concezione immobile dei processi storici e politici, in una sorta di “eterno ritorno dell’uguale” dove tutto è uguale a tutto. Da un lato ci si critica, ad esempio, la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro senza dichiarare che vorremmo la rivoluzione e il governo dei lavoratori, dall’altro si deplora l’assenza di riferimenti al comunismo nel programma, da un altro lato ancora siamo accusati di parlamentarismo, oppure di aver resuscitato Rifondazione… francamente, nulla di così interessante. Ci tacciano di riformismo ma non possiamo fare altro che ribadire quanto già ci contestano, la differenza tra riformisti e rivoluzionari la si vede nelle lotte, tra chi c’è e chi non c’è. Noi ci siamo.

7) Piccolo grande assente a queste elezioni è l’ex magistrato e attuale sindaco di Napoli, Luigi De Magistris che annuncia una lista nazionale per le europee del 2019. Sappiamo che, pur tra mille difficoltà, errori, limiti e contraddizioni, la giunta arancione che governa la città partenopea consente un’agibilità a realtà come le vostre che altrove è inimmaginabile e gode di un vasto consenso tra le masse popolari. Avete provato a coinvolgere De Magistris nel vostro progetto? Il vostro rapporto con lui ed il suo movimento è cambiato dopo il 14 Novembre?

Noi abbiamo avuto sempre un rapporto molto schietto con De Magistris e col suo movimento. Abbiamo scelto di dare una chiara indicazione di voto nel 2016, pur non candidandoci, e di presidiare i seggi praticando ciò che chiamiamo “controllo popolare”. La giunta arancione, come scrivete voi, consente a realtà come la nostra un’agibilità che altrove è inimmaginabile: è vero, ma ciò non è solo l’effetto di una visione lungimirante del sindaco e del suo movimento ma anche il risultato della nostra consistenza politica, presenza sui territori, radicalità. Quando diciamo nostra non pensiamo soltanto all’Ex OPG, ma a tutti gli spazi occupati che rendono la nostra città, oggi, un laboratorio di avanguardia a sinistra, sia per il mutualismo e per le attività sociali, sia per l’elaborazione teorica. Con tante compagne e compagni che appartengono ad altre realtà politiche cittadine non condividiamo alcune visioni, ma abbiamo profondo rispetto per quanto tutti sono riusciti e riescono a mettere in campo. Il rapporto con la giunta è, quindi, per noi tutti, dialettico: non potrebbe esistere un’agibilità se non ci fosse realmente un “soggetto” che agisce.

La dialettica risiede anche nel fatto che qualunque amministrazione comunale, anche la più avanzata, oggi fa fronte a contraddizioni che possono essere risolte solo con atti di disobbedienza formale e materiale: la maggiore o minore propensione a praticare la disobbedienza, a seconda delle vicende e dei contesti, è oggetto di discussione e dibattito franco, in città, nella consapevolezza che, nel rispetto delle differenze, l’uno rafforza l’altro, i movimenti rafforzano le azioni di rottura della Giunta, e viceversa. Per quanto riguarda Potere al Popolo, ci ha fatto piacere il saluto di De Magistris portato da Giuseppe Aragno alle nostre assemblee nazionali, e ci farebbe piacere, naturalmente, un sostegno di DeMa, ma ci rendiamo conto di dinamiche ed equilibri che non possono essere superati con accelerazioni in avanti quindi proseguiamo tranquilli per la nostra strada, certi anche in questo caso che un nostro successo, e un nostro buon risultato a Napoli, non potrà che rafforzare le istanze più progressiste interne alla giunta.

8) Da pochi giorni abbiamo ufficialmente appreso che si voterà il 4 marzo. A differenza degli altri partiti di cui tutti parlano, Potere al popolo, sebbene abbia suscitato grande entusiasmo non ha ancora ‘bucato lo schermo’ e potrebbe soffrire di quella censura che colpisce chi si candida a rappresentare in maniera genuina e unitaria gli interessi delle classi oppresse. Per di più, la piccolezza e numerosità delle organizzazioni aderenti rende particolarmente onerosa anche la scelta dei candidati e la raccolta delle firme. Correggeteci se sbagliamo, ma tutto ciò sembra imporre la necessità di un grande e ampio coinvolgimento in primis delle compagne e dei compagni senza tessera e poi di tutte e tutti coloro che si sono detti disponibili a dare una mano per far vivere la lista. Questo, però, sembrerebbe esporvi a due tipi di problemi: il primo è quello della qualità e affidabilità dei compagni che troverete in queste settimane, il secondo è quello della dialettica tra direzione consapevole e spontaneismo. Come state affrontando queste questioni coi partiti e le organizzazioni che hanno aderito a Potere al popolo?

Quando quest’intervista sarà pubblicata, la risposta a questa domanda sarà, probabilmente, superata dagli eventi. Dagli inizi ad oggi c’è già stato, ad esempio, un forte cambiamento nell’atteggiamento dei media nei nostri confronti, passato dalla rimozione alla manifestazione di interesse, vuoi per l’oggettiva novità che rappresentiamo, vuoi per la nota di colore in un dibattito stantio, vuoi perché effettivamente gli osservatori più attenti si rendono conto che il nostro progetto ha delle potenzialità enormi. La scelta dei candidati, ad oggi, è stata conclusa, e si è trattato di un processo contemporaneamente difficile ed entusiasmante. Ci troviamo con liste piene di lavoratrici e lavoratori, precarie e precari, militanti sindacali, attiviste/i politici, attiviste/i delle reti sociali e di solidarietà, compagne e compagni di base, tantissime donne… siamo davvero contenti di poter affermare che nessuna lista rappresenta oggi, nell’elenco delle candidature, un quadro così completo delle lotte reali di questo paese.

Potremmo citare tanti nomi importanti e riconosciuti a sinistra e nei movimenti, ma preferiamo farne uno solo: si tratta di Lina Petrone, candidata a Napoli, motore della Rete di Solidarietà Popolare, cuoca impareggiabile nelle cene organizzate in strada per i senza fissa dimora, contro il decreto Minniti. Lina, alla conferenza stampa di presentazione della lista che si è tenuta alla Camera dei Deputati, alzandosi in piedi ha indossato il grembiule da cucina che indossa tutti i giorni nella sua attività di volontaria: parlando di simboli, il grembiule di Lina e la sua orgogliosa esibizione ai giornalisti non è, in fondo, la stessa cosa dell’orgogliosa esibizione, sulle bandiere, della falce e del martello, scelte proprio perché rappresentavano gli strumenti quotidiani della classe lavoratrice?

Questi motivi sono alla base del fatto che quello che voi chiamate spontaneismo non ci spaventa; troppo spesso abbiamo avuto a che fare con autonominate avanguardie della classe che riuscivano ad unire un altissimo livello di approssimazione e di supponenza, mentre nelle persone che da anni incontriamo, nelle lotte, nelle vertenze sindacali, nelle attività sociali e mutualistiche, troviamo spesso, sempre ad altissimo grado, tanta preparazione, competenza e umiltà. Non dimentichiamo, inoltre, che centinaia di persone senza tessera sono state artefici della grande battaglia referendaria sull’acqua, della vittoria del NO al referendum costituzionale, del controllo e dell’autogestione di presidi ospedalieri come il San Gennaro. È gente senza tessera che ha messo in piedi e porta avanti gli ambulatori popolari, le mense sociali, i doposcuola, gli asili… c’è una capacità organizzativa, nel nostro popolo, incredibile, verso la quale noi, i militanti, coloro che avevano la soluzione per tutto, abbiamo tenuto troppo spesso gli occhi chiusi… ecco, se lo spontaneismo è quello che la nostra gente riesce a mettere in campo, crediamo non ci sia davvero nulla da temere!

9) Tra gli scenari auspicati c’è quello che la lista riesca a superare il 3% dei consensi necessari ad ottenere una rappresentanza parlamentare e dare così ‘sponda politica’ alle mille lotte e vertenze in corso. La storia, tuttavia, ci insegna che il parlamentarismo è storicamente superato e le grandi masse popolari dei paesi imperialisti utilizzano sempre meno il diritto di voto. In Italia, tuttavia, questa sfiducia nelle istituzioni borghesi, nella divisione dei poteri, nei partiti politici e nei corpi intermedi, si traduce vieppiù nel qualunquismo, nel diritto all’ignoranza, nel populismo, nel ritorno del peggior nazionalismo e del fascismo. Dietro la cortina fumogena alimentata dai grandi media, però, molte esperienze di lotta, autoconvocazione e autorganizzazione ci indicano che una democrazia di tipo diverso, consiliare, è l’unica alternativa in grado di rispondere alle esigenze di rappresentanza degli strati popolari. Qual’è la vostra esperienza in tal senso e quale, secondo voi, il ruolo che in questa questione dovranno assumere gli eventuali candidati eletti in parlamento?

Dividiamo la risposta in due punti. Non è il parlamentarismo ad essere superato, bensì la fiducia delle masse nel voto come strumento per cambiare lo stato di cose presente. Le alte percentuali di astensione in pressocché tutti i paesi a capitalismo avanzato mostrano che questa non è solo una realtà italiana. La gente non vota perché ritiene il voto inutile; quando lo ritiene utile, pensiamo nuovamente ai referendum sull’acqua e a quello costituzionale, la gente torna a votare. Se il voto non è considerato utile, è perché il Parlamento non è considerato in grado di determinare le scelte governative, che risultano espressione diretta della volontà delle classi dominanti e come tali non sindacabili. Se questa è stata sempre la realtà, negli ultimi anni è stata addirittura formalizzata, con leggi e sistemi elettorali che hanno cancellato ogni residuo di potere “democratico” dalle nostre istituzioni.

La disaffezione delle masse verso il voto, però, non ha nessuno degli effetti che solitamente le vengono attribuiti a sinistra: non svuota di senso gli organi istituzionali, che restano quelli dove gran parte delle decisioni viene formalmente presa, e non genera, per converso, nessuna spinta costituente tra coloro che si rifiutano di partecipare al voto. Nonostante gli entusiasmi di tanta parte del movimento nei confronti del crescente astensionismo, visto giustamente come rottura del patto di fiducia tra cittadini e rappresentanze, questa rottura non è stata levatrice di nessun nuovo embrione di potere. La stessa crescita dell’impegno associativo, sociale, “concreto”, non è in contraddizione col disimpegno politico, ma ne è la diretta conseguenza: chi oggi fa, ad esempio, attività di volontariato con gli immigrati, esprime in quell’attività una coscienza estremamente avanzata e progressista, che però non invade il campo della politica. Noi abbiamo, invece, il dovere di riconnettere i mondi, e di ricostruire, quindi, un immaginario di fiducia verso un progetto politico complessivo; abbiamo l’ambizione di tradurre quell’impegno diffuso in un’idea di società e in una pratica condivisa di cambiamento. Questo è uno dei motivi principali che ci hanno spinto a tentare di utilizzare il momento elettorale, come acceleratore, nonostante i limiti che riconosciamo al sistema elettorale e al sistema istituzionale nel suo complesso.

Sempre per gli stessi motivi non crediamo di poter cambiare qualcosa portando in Parlamento un numero X di rappresentanti, ma nemmeno se avessimo la maggioranza assoluta potremmo davvero cambiare il paese, senza aver innescato un movimento di persone che dal basso agisce e promuove il cambiamento. Qui il discorso si riconnette alle nuove pratiche di autorganizzazione e consiliarismo di cui parlate nella domanda. Queste pratiche – diffuse oltre ogni nostra percezione, ed oltre ogni percezione dei “praticanti” stessi – sono ciò che noi chiamiamo esercizio del potere popolare. Per noi, l’abbiamo scritto nel programma, potere popolare è dimostrare a se stessi e agli altri che la rottura con le compatibilità è possibile e quotidiana, che è possibile lottare e vincere; potere popolare è una palestra nella quale la classe che governerà il mondo, annullando le altre classi, si allena all’esercizio del potere che avrà. Per questo riteniamo centrali tutte le esperienze di controllo e potere popolare che attraversano il paese, da nord a sud; con Potere al Popolo vogliamo estenderle e moltiplicarle, favorendo quello che nei corsi di organizzazione aziendale – ma anche ormai nei corsi di aggiornamento scolastici – chiamano “scambio di buone pratiche”. Se qualcuno di noi dovesse essere eletto, il rapporto con questa forza esterna dovrebbe essere ben più radicale della vecchia “sponda istituzionale”: i nostri eletti si metteranno, come già si mettono, al servizio di quel potere nuovo che sta nascendo, ma lo faranno con più forza e con più mezzi.

10) Un’ultima domanda sugli scenari post-voto. La Città futura lavora affinché Potere al popolo possa riuscire finalmente a riportare in parlamento qualche rappresentante dei lavoratori. Dunque al lavoro e alla lotta, ma in molti già ci chiedono che c’è oltre la battaglia elettoralistica, oltre il 3%: fronte, partito, intergruppi… In altre parole, visto l’entusiasmo suscitato in tutt’Italia, avete già ragionato sul che fare e sul che dire a quella gente, ai militanti e alle organizzazioni che vi hanno seguito, in caso di sconfitta e in caso di vittoria?

Questa domanda contiene in sé un errore, vale a dire la contemplazione dello scenario di sconfitta. Noi non possiamo essere sconfitti perché abbiamo già vinto. Potevamo essere sconfitti se il nostro primo appello fosse caduto nel vuoto, se il secondo appuntamento nazionale non fosse stato all’altezza del primo, se non avessimo raccolto in tutto il paese il consenso che abbiamo raccolto, se non fossimo riusciti a determinare le candidature, se ci fossimo spaccati prima di presentare le liste… nulla di tutto questo è successo, per cui non si profila nessuna sconfitta all’orizzonte. Gli scenari che ci si parano davanti, dunque, sono ininfluenti al fine del nostro percorso.

Superiamo il 3 %: un “piccolo gruppo compatto” varca la soglia del Parlamento e inizia un’avventura inedita per noi, un elemento di assoluta novità per il Paese, rispetto almeno agli ultimi anni.

Non superiamo il 3 %: non ci fermiamo più. Chi può fermare compagne e compagni che si ritrovano, si riconoscono uguali nelle pratiche, nell’agire quotidiano, nelle istanze di cambiamento? Chi può fermare la forza di 200 assemblee, da Roma ad Alessano, da Campobasso a Milano? Chi può fermare la Storia?

27/01/2018 www.lacittafutura.it

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