Jobs act, obiettivi dichiarati e prospettive reali. La nuova riforma del mercato del lavoro viene presentata come una misura a favore dei giovani e delle donne, ma analizzando le misure proposte emergono non poche perplessità. Sia sul piano della parità che su quello dell’equità.

Foto Flickr/Bill McIntyre

Una delle ragioni che spiega il consenso elevato apparentemente conquistato dalla proposta di abrogazione dell’art. 18 contenuta nelJobs act dipende dalla veste di equità sociale che ammanta la riforma. L’abrogazione della tutela in caso di licenziamento illegittimo conquistata con l’art.18 dello Statuto dei lavoratori sarebbe compensata dalla riduzione dei contratti di lavoro precari e dall’attenzione alla tutela della lavoratrice madre. Questi obiettivi, indubbiamente rilevanti sul piano sociale, non paiono in realtà effettivamente ricercati e attuati. Se si approfondisce l’analisi, emerge anzitutto che la tutela dell’art.18, ovvero il diritto ad essere reintegrati nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo – fermo restando che ogni licenziamento deve essere comunque giustificato per effetto della normativa europea – corrisponde ad una scelta che tende non solo a garantire la tutela della dignità della persona ingiustamente licenziata, ma è un pilastro che permette di rivendicare anche gli altri diritti fondamentali sul lavoro senza timore di ritorsioni. Inoltre, la norma dispiega un’efficacia deterrente che sebbene sia difficile da misurare, sicuramente va ben al di là dei casi in cui in concreto il licenziamento è oggetto di impugnazione. Infine, ma non ultimo, l’esperienza dimostra che l’abbassamento delle tutele garantite dallo Stato nei confronti dei poteri privati o pubblici induce spesso le persone a ricercare altrove chi possa fornire protezione, in modo rischioso per la stessa vita democratica della società.

Già queste considerazioni depongono a sfavore dell’abrogazione della norma, e della sua non applicazione al nuovo contratto “a tutele crescenti” da introdurre con la riforma, che tra l’altro verrebbe privato proprio della forma di tutela più importante. Se poi si prendono in esame le implicazioni dell’abrogazione dell’art. 18 verso le lavoratrici madri, si può immediatamente constatare che le protezioni disposte dalla legge – e in particolare il divieto di licenziamento, o l’esercizio dei diritti ai congedi – subirebbero un drastico ridimensionamento se venisse meno il diritto ad essere reintegrate in caso di licenziamento illegittimo. Ma se pure la tutela “reale”, ovvero quella consistente nel diritto a riprendere effettivamente il proprio posto di lavoro, fosse mantenuta almeno per le ipotesi di licenziamento discriminatorio, come quello connesso alla gravidanza, maternità e paternità, si produrrebbe comunque, anche se indirettamente, un effetto ben poco vantaggioso. Infatti, come è dimostrato dalla persistenza delle maggiori difficoltà che le donne incontrano nel mercato del lavoro in Italia, preservare uno statuto giuridico speciale di protezione nei confronti delle lavoratrici le connota di quella “rigidità” che induce i datori di lavoro nelle assunzioni a privilegiare il genere maschile. Pertanto neppure da questo punto di vista si può accettare l’impostazione governativa.

Sotto il profilo dell’equità, è assolutamente necessario considerare la vasta area di precarietà indotta dalla espansione dei contratti “atipici”, di cui solo una parte viene poi stabilizzata. Va ricordato che l’aumento dei lavoratori precari nell’ultimo decennio, particolarmente marcato tra le donne, è dovuto alla riforma del mercato del lavoro del 2003 (d.lgs 276), che fu difesa con le stesse entusiastiche considerazioni di “modernizzazione del mercato del lavoro” e di aumento dell’occupazione che si sentono riproporre ora in merito al Jobs act.

In realtà, la precarietà ha profondamente intaccato l’applicazione delle tutele verso le lavoratrici, come quelle della maternità, concepite storicamente all’interno di un ordinamento in cui prevaleva il lavoro a tempo indeterminato. La scadenza del contratto provoca infatti il venir meno sia del divieto di licenziamento sia del diritto ai congedi. In aggiunta, il consolidamento dei percorsi di precarietà ha reso più frequenti le discriminazioni al momento dei rinnovi del contratto, per non parlare della riduzione della tutela nei casi di contratti come quello di lavoro intermittente in cui solo durante i periodi lavorati vi è una piena copertura mentre nei periodi di attesa non si ha diritto che ad una indennità di disponibilità. Sarebbe quindi estremamente importante non solo ridurre la tipologia dei contratti di lavoro atipico, ma anche predisporre una normativa adeguata, che per esempio introducesse il diritto alla proroga per tutto il periodo del congedo obbligatorio di maternità, come già avviene nel caso del contratto a progetto, o percorsi più incisivi di stabilizzazione.

Rispetto a questi fenomeni la legge delega non dà alcuna chiarezza sui possibili cambiamenti, né in campo di riduzione della tipologia del lavoro precario, né per l’estensione delle tutele nei confronti dei rapporti che comunque precari rimarranno. Semmai, in senso contrario alla riduzione della precarietà, la recente legge n.78/2014 ha introdotto una riforma del contratto a tempo determinato che lo rende libero da causali ancorate ad esigenze oggettive e temporanee, e per una durata di tre anni con ben 5 possibilità di rinnovi, con l’unico limite del contingentamento da parte dei contratti collettivi. Tale contratto si aggiunge a quelli già in vigore rendendo così ancora più ampia, anziché riducendo, la gamma dei contratti precari ed estende anche il periodo di tempo in cui si prolunga lo stato di instabilità occupazionale. Da questo punto di vista appare del tutto insufficiente anche la disposizione che, per evitare le discriminazioni nei confronti delle lavoratrici che potrebbero essere escluse dai successivi rinnovi, come purtroppo è già accaduto in caso di maternità, si limita a stabilire il diritto di precedenza delle lavoratrici se il datore di lavoro procede al rinnovo dei contratti nei 12 mesi dalla scadenza del precedente contratto a termine. Non si vede la ragione di questo limite temporale. Sarebbe stato molto più corretto affermare che qualunque mancato rinnovo, salvo casi di provata incapacità della lavoratrice, costituisce una discriminazione di genere da cui deriva il diritto ad essere riassunta. Ma questa è solo una delle perplessità suscitate dalla nuova disciplina.

Più in generale, non mancano dubbi di compatibilità con il diritto dell’Ue, che afferma la priorità del contratto a tempo indeterminato, rispetto all’introduzione di una fattispecie ulteriore di contratto a termine priva di causali e che si somma alla variegata tipologia dei lavoratori e lavoratrici “atipiche”, e a cui si aggiungerebbe anche il “contratto a tutele crescenti”, andando in senso diametralmente opposto all’obiettivo della sua riduzione e semplificazione dichiarato dal governo.

Stefania Scarponi

27/11/2014 www.ingenere.it/

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