Jobs Act. Una storia di inganni, furbizie e apparenze falsificanti

Jobs act

Quella del Jobs Act è una storia d’inganni, furbizia malandrina e apparenze falsificanti. Ce n’è per tutti i gusti. Si va dall’uso (senza precedenti) di anglicismi con un forte impatto mediatico, ma d’incerto significato nella stessa lingua-madre, all’uso spericolato di parole che reclamizzano la figura di un contratto di lavoro spacciato per innovativo mentre alle spalle ha un’esperienza secolare. Si va dal rispetto soltanto formale delle procedure parlamentari – perché la legge-delega non contiene né i principi né i criteri direttivi che la costituzione esige allo scopo di limitare la discrezionalità della decretazione delegata, ne lascia intenzionalmente nel vago l’oggetto che la costituzione vuole predefinito ed è stata approvata ricorrendo al voto di fiducia per impedire l’esame di emendamenti e imbavagliare i dissenzienti interni alla stessa maggioranza governativa – alla rottura della consolidata regola non scritta che fa precedere l’intervento legislativo da confronti nel merito coi sindacati. Si va dalla valorizzazione del potere aziendale attraverso il sostanziale ripristino della libertà di licenziare all’emarginazione della tutela giurisdizionale dei diritti in attuazione di un progetto politico che ipotizza uno scambio tra maggiore flessibilità a vantaggio dell’impresa oggie maggiore sicurezza nel mercato domani a vantaggio del lavoratore. Uno scambio che, sebbene sia caldeggiato dalla governance europea, in un paese come il nostro ove le politiche attive del lavoro sono ancora all’abc è più virtuale che virtuoso.

In sintesi, la delega non solo era sostanzialmente in bianco in modo da permettere al governo di allungare le mani sull’intero diritto del lavoro, ma  ha finito per assumere le caratteristiche di un’auto-celebrazione della corrente di pensiero che riduce la politica a mera comunicazione.

Candido come una colomba e astuto come un serpente, il legislatore delegato ha qualificato “a tutele crescenti” un contratto di lavoro a tempo indeterminato dove la sola forma di tutela che può crescere (a ritmo annuale di 2, ma fino ad un massimo di 24 mensilità) è l’indennità corrisposta in caso di licenziamento ingiustificato. Così, con un colpo solo si sono raggiunti parecchi risultati di cui non si tarderà a scoprire la contraddittorietà. Questo contratto infatti, se da un lato sembra promettere un futuro socialmente desiderabile in ragione dell’indeterminatezza della sua durata che di per sé apre uno spiraglio alla speranza di de-precarizzare il mercato del lavoro, dall’altro è nemico di ogni aspettativa di stabilità in ragione del riformarsi delle condizioni del potere di comando che per tradizione era simboleggiato dalla licenza di licenziare. Anzi, è un contratto socialmente pericoloso perché è associato ad una tutela contro il licenziamento illegittimo dominata non tanto dalla preoccupazione di rimuovere l’illecito e le sue conseguenze quanto piuttosto di garantire all’imprenditore l’irreversibilità delle sue decisioni, per illegali che possano risultare in giudizio. E ciò perché nemmeno la perdita di un posto di lavoro senza alcun giustificato motivo non è percepita dal governo come un dramma per chi la subisce; facendo sua l’ottica dell’impresa, il governo valuta il licenziamento illegittimo a stregua di un costo di cui è bene conoscere in anticipo l’importo e predeterminarlo nella misura più contenuta possibile. Flebile e blanda, stante l’importo mediamente modesto  dell’indennità dovuta, è una tutela che rende questo contratto competitivo in termini di costi diretti e indiretti col contratto a tempo determinato, ormai completamente liberalizzato, proprio facilitando la cessazione del rapporto di lavoro ad iniziativa dell’imprenditore. Alla fin dei conti, la tutela è qualitativamente identica a quella prevista in epoca anteriore allo statuto dei lavoratori. La reintegrazione nel posto di lavoro, infatti, sarà per i neo-assunti una sanzione del tutto residuale: una remota eventualità. Come dire: se non si è in presenza di un decesso prematuro del diritto del lavoro, è innegabile che lo si è fatto tornare all’età dell’adolescenza.

Candido come una colomba e astuto come un serpente, il legislatore delegato ha previsto l’eutanasia dell’art. 18  che la legge Fornero aveva reso lontano cugino di quello preesistente. Esso, infatti, è destinato ad estinguersi via via che i (milioni di) lavoratori assunti a tempo indeterminato in servizio prima dell’entrata in vigore della riforma se ne andranno dall’azienda di appartenenza. Come dire che si dissolverà pian piano e senza necessità di abrogarlo. A quel punto, però, la decenza vorrebbe che l’accattivante ammiccamento alle “tutele crescenti” venisse soppresso per rispetto, se non degli italiani, della lingua italiana. Per quanto scaltro, è uno spot pubblicitario la cui funzione promozionale si sta esaurendo. Pertanto, una volta che si sia finalmente compreso che il successo del contratto “a tutele crescenti” nel mercato delle regole del lavoro dipendeva da un robusto, ma temporaneo  abbassamento del costo del lavoro a carico della fiscalità generale, è auspicabile che la menzognera etichetta cada da sola, come una foglia secca che si stacca dal ramo. Questo, ad ogni modo, è il male minore. Il fatto è che nel frattempo il diritto del lavoro ha subito un durissimo attacco al principio-base dell’eguaglianza che la costituzione vorrebbe vedere messo in opera nei luoghi di lavoro sia in direzione verticale che in senso orizzontale. Viceversa, è clamorosamente trasgredito in direzione verticale, perché lo svuotamento della tutela contro il licenziamento ingiustificato rilegittima la storica asimmetria dei rapporti di dipendenza personale a struttura gerarchica. Neanche all’eguaglianza in senso orizzontale sono risparmiati violenti strappi. E ciò perché la data dell’entrata in vigore del provvedimento legislativo funziona da pretesto per disapplicare la regola in assenza della quale la solidarietà sociale rischia di frantumarsi e sparire: quella per cui a lavoro eguale corrisponde un eguale trattamento. In effetti, la differenziazione di regimi del licenziamento tra vecchi e nuovi assunti non trova alcuna giustificazione nella diversità della loro condizione lavorativa. Certo, soltanto la Corte costituzionale potrà pronunciare in proposito l’ultima parola; il che prima o poi succederà.  Intanto, però, è plausibile presumere che la logica adottata per stabilire che qualunque assunzione successiva al fatidico giorno dà origine a trattamenti differenziati di un istituto avente un’importanza strategica come il licenziamento ubbidisce soltanto ad un calcolo di opportunità che ha molto da spartire con quello che ha portato il medesimo governo a concedere un aumento salariale di “80 euro” ai percettori di reddito da lavoro sotto una certa soglia o, più di recente, il bonus dei 500 euro ai diciottenni della Repubblica. In tutti questi casi, è sempre una questione di consenso: catturarne il più possibile o perderne il meno possibile.

Candido come una colomba e astuto come un serpente, il legislatore delegato ha sposato l’idea, in circolazione da tempo, che lo statuto dei lavoratori sarebbe invecchiato precocemente. Un’idea che è figlia della convinzione per cui, qualora il diritto del lavoro stabilisse con la costituzione la stessa connessione che la lingua ha con la grammatica, non sarebbe più una risorsa. Per questo l’attuale governo ritiene che quello rifondato dallo statuto dei lavoratori nel solco tracciato dalla costituzione fosse un diritto con un grande futuro alle spalle. Infatti, portando dentro il contratto la tutela dei diritti fondamentali di libertà e dignità dei lavoratori nel loro contenuto essenziale, il legislatore dello statuto aveva affrontato il problema del contemperamento con la libertà dell’iniziativa economica circondando la gestione del personale con regole che testimoniavano come il contratto di lavoro differisse da altri contratti per la qualità dello scambio. Ora l’assetto dell’impianto regolativo è modificato radicalmente. Non che il problema del contemperamento sia stato accantonato. Tutt’al contrario. Semplicemente, se ne capovolge la soluzione. Non è più la logica mercantile del contratto a dover farsi carico del rispetto dei diritti fondamentali. Sono i diritti fondamentali che devono farsi carico della logica del contratto ed esserne sacrificati. Francamente, era difficile immaginarsi una fuori-uscita più clamorosa dai binari tracciati da una costituzione che segna nella maniera più solenne possibile l’inizio dell’età della de-mercificazione del lavoro, facendone il formante dello Stato: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Umberto Romagnoli

9/4/2016 www.inchiestaonline.it

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