La battaglia della logistica e i dilemmi del sindacato

L’insediamento del governo Draghi ha coinciso con una riapertura in grande stile della conflittualità nel settore della logistica. Come sottolineato da vari osservatori la nascita del nuovo governo ha segnato un cambiamento di atteggiamento del fronte imprenditoriale che sembra intenzionato a chiudere rapidamente con la stagione del blocco dei licenziamenti, del decreto dignità e delle ipotesi di salario minimo – con le velleità di riforme progressiste più contingenti che politicamente consolidate del governo Conte 2. Il mandato a Mario Draghi e il ritorno al governo della Lega e la riscrittura di un già vago e contraddittorio Recovery Plan rappresentano la volontà di chiudere le possibilità di una gestione vagamente progressista della crisi.

La battaglia della logistica

Ma la politica istituzionale ha ripercussioni dirette sul mondo del lavoro e specialmente nel settore della logistica, dove si sta consumando una battaglia che può essere decisiva per le vicende complessive della lotta di classe e della lotta politica in Italia. Nella logistica le associazioni datoriali hanno lanciato una controffensiva che mira a ridimensionare le conquiste contrattuali ottenute dalle mobilitazioni dei facchini durante gli ultimi dieci anni (ripristino della legalità nella gestione di salari, contributi e imposte; clausole sociali e mantenimento dei posti di lavoro in caso di cambi d’appalto; scatti di anzianità e di livello indipendenti dalle qualifiche).

Nello specifico sono due i fronti aperti. Il primo e mediaticamente più seguito, è quello aperto dai sindacati confederali in Amazon, per la conquista della contrattazione aziendale unica che riunisca i driver con le lavoratrici e i lavoratori dei magazzini, cercando di migliorare le condizioni di lavoro in particolare dei driver in appalto di fronte alle chiusure di Amazon e delle aziende che eseguono le consegne clienti per conto di Amazon. Il secondo, meno mediatizzato ma altrettanto significativo e più conflittuale, è la vertenza FedEx-Tnt, il nuovo gigante della corrieristica nato dall’acquisizione dell’olandes Tnt da parte della statunitense FedEx, che da un anno progetta una ristrutturazione globale della sua rete, in Europa (con il ridimensionamento della base aeroportuale di Liegi a favore di Parigi e la generale soppressione di 6.300 posti di lavoro nei prossimi tre anni), e in Italia, dove ha appena annunciato la chiusura del suo hub piacentino (uno dei centri logistici da cui è partito nel 2011 il ciclo di lotte dei facchini guidato dai sindacati di base). I sindacati di base (SiCobas e AdlCobas) che sono presenti e radicati nella filiera Tnt denunciano una manovra finalizzata a colpire i lavoratori iscritti alle loro organizzazioni, che rischierebbero di essere esclusi dal piano di internalizzazioni proposto dall’azienda e che è stato benedetto da intese locali con la Filt-Cgil (FedEx-Tnt assumerà direttamente una parte dei facchini delle cooperative, mentre un’altra parte verrà precarizzata lasciandola alle agenzie interinali, sul modello Amazon).

Amazon è solo la punta dell’iceberg

Malgrado la portata politica e la combattività delle rispettive vertenze ciò che minaccia il buon esito di queste battaglie è il fatto che stanno procedendo in maniera parallela, isolate l’una dall’altra. Ciò a causa delle divergenze politiche e ideologiche fra i sindacati confederali, in particolare la Cgil, e il sindacalismo alternativo, in particolare AdlCobas e SiCobas. 

Si tratta di divergenze che rischiano di compromettere le conquiste ottenute finora e che risultano ancora meno giustificate dal fatto che le filiere di Amazon e di FedEx, così come quelle degli altri corrieri Ups, Brt e Sda, non sono isolate l’una dall’altra. Per una parte rilevante, infatti, la corrieristica è fornitore di Amazon, che ha scelto di internalizzare una parte delle consegne di ultimo miglio sulla base della considerazione che il costo del lavoro non era più comprimibile all’infinito verso il basso. Eppure al momento le due lotte non si stanno incontrando.

Lo sciopero «di filiera» di Amazon promosso dai confederali è sicuramente un avanzamento, un salto di qualità necessario per poter pretendere un’interlocuzione con la multinazionale di Seattle. E finora i sindacati italiani, diversamente dai colleghi tedeschi o francesi, sono gli unici che sono riusciti non solo a teorizzare ma a mettere in pratica un approccio di filiera. Allo stesso tempo lo sciopero del 22 marzo ha scontato un limite importante. In primo luogo il perimetro della filiera Amazon individuato dai sindacati confederali è in realtà la punta dell’iceberg. Lo sciopero dei confederali  è stato dichiarato nella filiera diretta Amazon, composta da grandi hub – come quelli di Piacenza, Rieti e Torino –,  centri di smistamento – come quello di Piacenza – e delivery station (al momento sono almeno 25), cioè le stazioni dell’ultimo miglio da dove partono i drivers esternalizzati, da cui lo sciopero è partito. Parallelamente a questa, Amazon si è sempre appoggiata alle reti dei grandi corrieri (Ups, Bartolini, Sda e FedEx-Tnt) che svolgono un numero imprecisato ma comunque rilevante di consegne, e per finire alla rete stessa di Poste Italiane – che nel 2019 ha chiuso un accordo con i sindacati confederali per ristrutturare la propria rete e adattarla alle esigenze dell’e-commerce. Per una parte rilevante, dunque, la corrieristica è fornitore di Amazon, che ha scelto di internalizzare una parte delle consegne di ultimo miglio per la considerazione che i costi di acquisto per questo servizio dai grandi corrieri non erano comprimibili all’infinito attraverso il sistema di appalti (di qui la scelta di un altro modello, alternativo alle cooperative: quello delle agenzie interinali).

Come hanno scritto Marta e Simone Fana su Jacobin Italia, l’accordo prevede «intensificazione dei ritmi di lavoro e allungamento della giornata lavorativa. A questo si accompagna un’ulteriore compressione dell’organico: a fronte di 15 mila uscite volontarie o incentivate, si sbandiera un aumento di 6.000 assunzioni. Peccato, tuttavia, che come si legge nell’accordo con i sindacati queste unità non corrispondano a un aumento dell’occupazione: saranno in gran parte forme di stabilizzazione da tempo determinato a indeterminato o semplici trasformazioni orarie da tempo parziale a tempo pieno. Se i picchi di lavoro lo richiederanno, inoltre, Poste si rivolgerà alle agenzie di somministrazione utilizzando lavoratori in affitto». Nel gergo del settore questo ricorso da parte delle aziende di e-commerce viene chiamato «Postal Injection» ed è una strategia utilizzata da Amazon per ampliare la propria rete anche alle zone più remote, che sono servite solo dalla rete pubblica dei servizi nazionali di posta, non solo in Italia ma anche negli Stati uniti e in altri paesi europei. Ma dall’alto della sua posizione monopolistica/monopsonistica Amazon può imporre le sue condizioni. Questa posizione di vantaggio cresce dal momento in cui l’azienda di Seattle punta a completare la sua rete estendendola all’ultimo miglio. A questo punto Amazon è allo stesso tempo maggior cliente e concorrente dei gruppi di corrieristica. L’impatto sulle condizioni di lavoro è al ribasso, perché Amazon fa dumping: trascina in giù i costi (e quindi il valore del lavoro) dell’insieme del settore delle consegne, come nel caso di Poste Italiane. 

I limiti del sindacalismo confederale

In questo senso concentrare gli sforzi su Amazon per migliorare le condizioni di lavoro nella sua rete è corretto, ma viene vanificato se nel frattempo si firmano accordi che abbassano le condizioni di lavoro nel resto del settore. Inoltre, organizzare uno sciopero di filiera in Amazon (il 22 marzo) e una settimana dopo lo sciopero nazionale di settore (il 29 marzo!) è una scelta difficile da comprendere se l’obiettivo è la ricomposizione e non il micro-corporativismo. Separare di fatto le lotte dei driver e dei magazzinieri Amazon da quelle più generali per il rinnovo del contratto della logistica rende inoltre la vita più facile ad Amazon dal punto di vista organizzativo: è abbastanza evidente che con un preavviso di 12 giorni l’azienda abbia potuto dirottare gli ordini sui corrieri riducendo così l’impatto dello sciopero del 22 marzo sulle consegne. 

L’obiettivo dello sciopero del 22 marzo è stato quello di riaprire la trattativa con l’azienda e i sindacati hanno avuto soddisfazione: il tavolo, convocato dal ministro del lavoro Orlando, è stato riaperto, ma i tempi sembrano essere lunghi. Ciò non pare un problema per le direzioni sindacali, le quali mirano all’istituzione in Amazon di «relazioni industriali continuative, ordinate e proficue». Ma con quali contenuti? Uno dei nodi cruciali su cui è maturato lo stallo nelle trattative è stata la condizione dei driver, sui quali Amazon ha un potere di controllo diretto attraverso i software di gestione e il potere di mercato (è Amazon che stabilisce le rotte, gli standard e i ritmi), ma verso i quali rifiuta di assumersi qualsiasi responsabilità negoziale, trattandosi di lavoratori in appalto.

Il tavolo ministeriale si aggiornerà fra un mese e mezzo, e nel frattempo delegazioni sindacali e aziendali sono invitate a trovare un compromesso. Ma intanto Amazon prosegue nella sua espansione e soprattutto nella strategia di uberizzazione, cioè un cottimo di fatto: stop ai driver con contratto di lavoro dipendenti e via libera a quelli reclutati come lavoratori autonomi, ma sempre eterodiretti via algoritmo. Di fronte alla velocità con cui Amazon ristruttura permanentemente la propria filiera, le organizzazioni dei lavoratori possono permettersi di attendere ancora due mesi? Più in generale, la proposta dei sindacati confederali di una piattaforma contrattuale di secondo livello per tutta la filiera logistica targata Amazon (ma che non include i più di mille operatori del call center Amazon di Cagliari), lascia intravedere la volontà di negoziare con l’azienda parte del surplus da monopolio di Amazon, che andrebbe condivisa con i dipendenti Amazon, rischiando però di creare una sorta di aristocrazia operaia protetta dal monopolio e isolata rispetto al resto della classe.  

Le impasse del sindacalismo alternativo

Naturalmente i limiti della strategia della Cgil non possono nascondere quelli del sindacato di base che deve riuscire a estendere le sue alleanze e a ricomporre il fronte del sindacalismo alternativo e del movimento operaio in generale. Una strategia di allargamento che poteva essere già messa in atto il mese scorso, durante lo sciopero Amazon. Attenzione: non si tratta tanto di aderire allo sciopero nella rete Amazon, dove il sindacato di base non ha una presenza significativa. Durante lo sciopero del Black Friday del 2017 al magazzino Amazon di Castel San Giovanni (Piacenza) il SiCobas, che è il principale sindacato nei magazzini della provincia (da Tnt a Leroy-Merlin, da Gls a Geodis) ha portato una sua corposa delegazione allo sciopero, prontamente isolata dai sindacati confederali. Forse sarebbe stato più efficace portare in sciopero i lavoratori delle grandi aziende di corrieristica che consegnavano i pacchi per conto di Amazon, e in cui il sindacato di base ha una presenza maggioritaria.

A distanza di 5 anni il sindacato di base non è riuscito a espugnare il fortino Amazon, malgrado il suo fantasma si aggiri nei suoi magazzini, ma la sua presenza nel resto del settore si è consolidata. Così il 22 marzo scorso avrebbe comunque potuto aderire allo sciopero dei confederali mobilitando i lavoratori di aziende come FedEx-Tnt, Gls, Brt o Sda, che movimentano una parte importante dei volumi di Amazon. Aprire un fronte nella filiera allargata avrebbe avuto una portata politico strategica decisiva: il sindacato di base avrebbe potuto rendere più efficace lo sciopero in Amazon (che il 22 marzo ha con ogni probabilità dirottato parte dei volumi nella rete di queste aziende partner), mostrare la reale ampiezza della filiera Amazon allargata, contribuire alla sua ricomposizione e così posizionarsi all’avanguardia del movimento nella logistica. Questa occasione non è stata colta e il rischio ora è di scontare questo isolamento sul fronte della vertenza FedEx-Tnt.

FedEx non minaccia solo il sindacato di base

Dalla prospettiva di una ricomposizione larga e non corporativa appare ancora più insensato lo scontro che il sindacato confederale ha ingaggiato contro il sindacato di base in FedEx-Tnt, collaborando con l’azienda attraverso accordi sindacali di ristrutturazione, per espellere AdlCobas e SiCobas e i loro aderenti, maggioritari nei siti più importanti di Piacenza, Bologna e Padova. Tutto come se il sindacato di base e le sue pratiche di lotta, che si sono rivelate non solo efficaci ma anche in vari casi riconosciute come legittime dalla giurisprudenza (qui il caso più recente) e dalla dottrina giuridica (si veda il n. 3/2020 della Rivista giuridica del lavoro), sorgessero dalla cospirazione di qualche militante di base o dall’indisciplina dei facchini immigrati e non da un problema strutturale di rappresentanza del sindacato confederale nella periferia del mercato del lavoro. 

È banale ma forse necessario ricordarlo: se il sindacalismo alternativo si è imposto in un settore cruciale come quello della logistica è perché la politica concertativa dei sindacati confederali aveva lasciato uno spazio vuoto, in un assetto che ingabbia il conflitto e non riesce a contrastare precarietà e svalutazione salariale. Nella logistica questo assetto è saltato e non potrà essere ripristinato, se non al prezzo di licenziamenti di massa e repressione poliziesca. Il piano di FedEx è quello di liberarsi del sindacato di base e dei suoi lavoratori iscritti; inoltre, ça va sans dire, abrogare gli accordi migliorativi che il sindacato di base ha strappato in dieci anni di lotte; infine, superare il sistema di appalti alle cooperative e internalizzare circa metà della manodopera e abbandonare il resto alle agenzie interinali. 

Il modello all’orizzonte è quindi quello di Amazon (un nucleo di manodopera stabile e un esercito di riserva a chiamata, condannato a precarietà e subordinazione e disciplinato dalla possibilità di un lavoro stabile in un’azienda monopolistica) che, a dieci anni dal suo arrivo in Italia sembra poter indurre gli attori a ridisegnare a sua immagine l’intero comparto. Le altre aziende stanno alla finestra: se il piano dell’azienda di Memphis passa, non è detto che le altre non seguiranno. I costi sociali di questa battaglia saranno altissimi: migliaia di lavoratori verranno licenziati e i rimanenti dovranno accettare condizioni di lavoro peggiori delle attuali. Tutto questo con la benedizione di alcuni settori del sindacato confederale che hanno già stipulato accordi (Padova, Bologna) in nome della restaurazione di un modello concertativo. Il rischio di questa strategia è quello di avere non solo costi elevatissimi ma anche effetti paradossali: da un lato il sindacato confederale lotta in Amazon contro il suo modello, e dall’altro collabora alla sua estensione in FedEx e, in prospettiva, nel resto del settore. 

Le lotte nella logistica incarnano un movimento di resistenza e di critica a un mercato del lavoro ingiusto, e costituiscono un processo di emancipazione di una forza lavoro, in buona parte immigrata, discriminata ma combattiva. E anche vincente. In questo frangente sarebbe importante che le organizzazioni delle lavoratrici e dei lavoratori riuscissero a mettere in pratica delle strategie di ricomposizione allargata che rinsaldino la solidarietà e non lascino nessuno da solo. È difficile che questa possibilità si possa concretizzare se non si scommette da un lato su delle forme di sperimentazione e di ibridazione delle strategie e delle pratiche: superamento del modello di sindacalismo concertativo (che proprio nella logistica si è dimostrato inadeguato), capacità di ricucire la frammentazione, recupero della conflittualità e soprattutto di un programma di emancipazione collettiva, da sostenere con una mobilitazione ampia; dall’altro su una discussione sulla funzione del sindacato, se insomma si tratta di un’istituzione di regolazione e controllo sociale, che rappresenta e negozia interessi economici, o se invece può essere agente di una trasformazione sociale e politica.

Francesco Massimo è membro della redazione di Jacobin Italia. Attualmente fa ricerca e insegna a Sciences Po, Parigi. Recentemente ha collaborato alla redazione di un rapporto su conflitti e relazioni industriali in Amazon pubblicato dalla Rosa Luxemburg Stiftung ed è contributore del libro collettivo The Cost of Free Shipping. Amazon in the Global Economy (Pluto Press, 2020).

12/5/2021 https://jacobinitalia.it

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