La colonizzazione del tempo

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Dalle cosmovisioni indigene alla “linearità cristiana” della società industriale

La frenesia della società industriale e tecnologica

“Il nostro tempo è diventato un incubo meccanizzato. La mattina ci sveglia una macchina, ci entriamo in un’altra macchina che ci porta nel nostro luogo di lavoro. Vuoi scommettere che il nostro lavoro è mandare avanti tutto il giorno? (…) E al termine di una giornata di lavoro di questo tipo, ci rimettiamo in una macchina e torniamo a casa dove ci sono altre macchine che si incaricano di divertirci e nutrirci. Al termine di un mese di questa vita riceviamo in cambio del nostro tempo, che è sacro, una quantità di denaro che è l’ipnosi collettiva meglio riuscita su questo pianeta e con quella somma di denaro corriamo tutti contenti a comprare nuove macchine”. Questo è quello che diceva il filosofo Antonio Giacchetti, responsabile PAN Italia ed esperto di Cultura Maya, nel documentario “Un Altro Mondo” di Thomas Torelli.

Viviamo nella società industriale che trova il suo schema logico nello sviluppo della Società della Tecnica, nella tecnologia dove vige la condizione di surmodernità, ovvero quella che l’antropologo Marc Augè chiama la figura dell’eccesso nelle sue declinazioni di eccesso di tempo, eccesso di spazio ed eccesso dell’individuo o dell’ego. La dimensione che più si nota è quella del tempo: l’eccesso di tempo si risolve in una difficoltà di pensare il tempo a causa della sovrabbondanza di avvenimenti del mondo contemporaneo e della velocità con cui questi eventi vengono diffusi, resi noti e divulgati. La fretta, la velocità e la frenesia sono le condizioni della nostra epoca, vivendo consumisticamente il presente precario in balia degli eventi che ci permettono di sopravvivere, trovandoci orfani di un tempo che rincorre solo la dimensione economica e falsamente di realizzazione. Molti sociologi ed antropologi hanno definita questa condizione temporale contemporanea come “presentismo neoliberale”. Questa situazione è assolutamente ingigantita dal fatto che viviamo sempre più in un “mondo virtuale”, legato ai dispositivi tecnologici, legato ai suoi apparecchi, alle sue bacheche social e alle sue chat, vivendo un tempo irreale dove tutto scorre ad onde lineari verso un punto infinito quanto indefinito (infinite notizie, infinite informazioni, infinite opinioni, infiniti eventi e fatti che creano scandalo e notizia). È un modello di vita turbo-frenetico che ci condiziona e che ci impedisce di essere connessi con quello che succede intorno a noi, al mondo reale.

Se è vero che i luoghi generano comportamenti, noi abbiamo smesso di essere influenzati dal nostro luogo, ovvero la Terra, e siamo approdati in altri luoghi, spesso figurati o non-luoghi (la tecnologia i suoi mezzi e la società industriale) che ci influenzano e influenzano i nostri comportamenti non in linea con il nostro “esserci nel mondo”. Non siamo più soggetti agenti della nostra vita, ma soggetti passivi che si vedono piegati per poter cercare vagamente di realizzare la propria felicità, sempre più inarrivabile con standard impossibili, influenzati da pubblicità, media, canoni di bellezza artificiali e standard di vita opulenti e insostenibili. Da qui forse la dissonanza cognitiva che è l’origine della crisi ecologica, climatica e socio-economica.

Oggi o viviamo nel passato, quindi di nostalgia o di paura, o nel futuro, quindi di ansia per ciò che dovremmo/vorremmo fare o essere senza mai vivere a pieno il presente e di paura di non riuscire a realizzare, quindi di paranoia. Questa è forse la più grande disgrazia del nostro tempo perché ci impedisce di vivere il nostro luogo, la Natura, e di essere connessi con tutto ciò che esiste. Eppure c’è stato un mondo in cui il presente, nella sua completa realizzazione, era l’unica dimensione importante, con la consapevolezza che sia il passato sia il futuro erano parti inseparabili da esso.

Dalle cosmovisioni indigene al calendario gregoriano, dalla ciclicità alla linearità

Nella Grecia Antica era impensabile che l’uomo potesse esercitare un controllo sul cosmo, o di imporre su di esso i propri fini. La dimensione dell’uomo era inserita armonicamente all’interno dei cicli naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel ciclo infatti il fine (in greco telos) viene a coincidere con la fine e la forza propulsiva (in greco energheia) porta all’attuazione dell’ergon, l’opera, ciò che è compiuto. Ancora di più vale per le popolazioni indigene, per le quali il tempo era ciclico e l’uomo non aveva alcun potere su di esso.

La capacità di sentire l’armonia dei “ritmi ecologici”, della “lentezza” e del “qui e ora”, in cui c’è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per essere assolutamente felici e tutto è perfetto così come è, era l’unico modo per vivere e misurare il tempo: c’è un tempo per tutto di pari

passo con la nostra vita. Per i bambini, infatti, è inconcepibile capire cosa sia mezz’ora, cosa significa mezz’ora, un’ora o un quarto d’ora perché per loro esiste sono un continuum spazio-temporale senza separazioni o divisioni. Sarà la gioia, l’ingenuità o l’innocenza dei bambini, ma questa percezione del tempo era la stessa concezione presente nelle culture indigene degli Hopi, dei Navajo, dei Maya così come nel buddhismo e nell’induismo. Per gli Hopi, il tempo inteso come “qui e ora” era il focus su cui si basavano le relazioni con la vita, con gli altri, con gli animali, con la Madre Terra e ad ogni cosa veniva dato una certa importanza in quanto vivente (acqua, terra, aria, minerali, pietre) senza mai darla per scontato. Non vi è mai stata la separazione spirito-materia quindi minerali e pietre erano considerate viventi, a differenza del dualismo cartesiano che divideva in viventi (l’essere umano) e materia morta (tutto il resto).

Per i Navajo, il tempo era definibile con l’espressione Saa nagai bik oso, ovvero “camminare nella bellezza”, vivere la vita sapendo che è dolorosa e che fa parte del cerchio della vita, apprezzare la luce della mattina, del Sole, della Luna e delle Stelle, la grandiosità degli alberi, la freschezza dell’acqua, del buon cibo e dell’amore. Questa concezione ecologica del tempo vissuto come un eterno presente, momento dopo momento in cui tutto ciò che esisteva era considerato sacro e inviolabile, era fortemente inconcepibile dagli europei colonizzatori e dal missionaresimo cristiano.

L’Occidente ha utilizzato fondamentalmente quattro strumenti per realizzare le colonizzazioni: la spada, la croce della religione, la “scienza maschia” e il calendario. Il calendario gregoriano, introdotto il 4 ottobre 1582 da Papa Gregorio XIII con la bolla papale Inter gravissimas, non fece altro che, sulla base del precedente calendario giuliano, distruggere sistematicamente la sincronizzazione/connessione dell’essere umano con la Natura, con i cicli ecologici e con il movimento del cielo, imponendo un calendario basato sulla vita di Gesù a tutto il mondo. Pochi anni dopo, nel 1597, Francois Bacon scrisse nei suoi Essays la frase “Il tempo è denaro”, che si sente ancora ripetere ai giorni nostri e che è divenuto il motto della società industriale. Infatti, con la necessità di far pagare le tasse, con l’obbligo delle persone di pagare attraverso il denaro e il lavoro svolto, il calendario gregoriano istituì ufficialmente che il “tempo della vita” può essere quantificato, suddiviso, comprato e venduto. L’idea era quella di cancellare culturalmente la concezione indigena del tempo per impedire che lo si pensasse ancora come l’unica ricchezza esistente, con il fine di trasformarlo in merce. Questo contribuì a cambiare la concezione dell’essere umano nel tempo, soprattutto in quelle popolazioni che non hanno mai avuto la necessità di calcolare e calendarizzare il tempo come la società cristiana occidentale.

La radice dello sfruttamento e del colonialismo sta in questa radice: se si sposta la concezione del tempo funzionale a renderlo vendibile, si sta dicendo che siamo destinati ad appaltare la nostra vita ad altri, che è giusto che l’unica nostra vita debba essere spesa in funzione di altri. È forse il caso più emblematico come questa concezione cristiana del tempo abbia gettato le basi per la società industriale di massa, prima per i ritmi frenetici e alienanti del modello taylorista-fordista e poi della società turbo-tecnologica.

La calendarizzazione gregoriana ha sostituito la visione ciclica del tempo, con una visione lineare dove c’è un “prima-durante-dopo”, un “passato-presente-futuro”. Il filosofo Umberto Galimberti riconosce la cristianità come il carattere di una scansione temporale che identifica il passato come spazio del peccato, il presente dell’espiazione, il futuro della redenzione e salvezza: questa è la base della concezione occidentale del tempo. La linearità cristiana ha imposto una suddivisione triadica del tempo che ha una ricorrenza ossessiva in tutto ciò che è stato creato in Occidente: la medicina (malattia, diagnosi, cura), la psicanalisi (disturbo, terapia, guarigione), la scienza (ignoranza, sperimentazione, scoperta). Il modello triadico della concezione cristiana del tempo ha dato una forte carica emotiva ed ottimistica nel futuro, profilando per la prima volta l’idea infinita e indefinita di “progresso” che si avvera in un futuro che per definizione è sempre una promessa “migliore”. la società industriale di massa

Tutte le categorie del “progresso” (lo sviluppo, la crescita economica, il far carriera, l’efficientismo, il produttivismo, l’utilitarismo, il diventare qualcuno, la competizione, la concorrenza, la performance e tutto ciò che ha una meta) sono totalmente assenti ed impensabili nelle epistemologie indigene: il problema era come essere te stesso in ogni momento della tua vita. L’Occidente, non solo ha distrutto delle grandissime civiltà, ma ha imposto una colonizzazione dell’immaginario senza precedenti che ha cancellato la concezione indigena del “qui e ora”, del presente come unico tempo reale per noi ed ereditando una concezione del tempo “artificiale”.

Il tempo è della mente, dalla sincronia alla diacronia

Le culture indigene si basavano su quello che vivevano e provavano realmente nella loro vita osservando la Natura, ovvero l’armonia e l’equilibrio tra viventi che stride totalmente con l’idea colonialista dell’uomo occidentale di ampliare tutti i suoi spazi ed imporre una sola regola del tempo a tutti. Gli indigeni avevano ben chiaro che ogni singolo ente vivente non è soggetto allo stesso tempo sulla Terra. I vecchi sciamani dicevano che anche le pietre respirano, ma che della loro inspirazione non abbiamo percezione poiché dura quanto l’intero arco di una vita umana: ciò presuppone che il nostro tempo, la nostra percezione della vita è direttamente proporzio-nale a ciò che siamo, ovvero esseri umani e per come la nostra vita è stata pensata.

Parlando di relatività del tempo, Albert Einstein disse: “Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora”. Un modo molto efficace e semplice per spiegare che di fatto anche il Tempo è relativo, non soltanto perché quello misurato dagli orologi è ben diverso dal tempo che percepiamo e viviamo, ma anche perché il nostro, quello terrestre, è un Tempo ‘locale’, che vale solo sul nostro pianeta. Basta uscire dalla nostra atmosfera perché le cose cambino radicalmente: così come il concetto di alto e di basso non esiste più nello spazio, allo stesso modo, il concetto di Tempo come entità assoluta e indipendente da ciò che succede, viene meno, come lo stesso Einstein dimostrò con le sue teorie.

La società occidentale ha creduto, epistemologicamente, di calcolare il tempo nello stesso modo in cui misura lo spazio. Questa è un’operazione di “contrabbando logico e di pirateria mentale”, come l’ha definita Antonio Giacchetti nel documentario di Torelli. Lo spazio è la dimensione dei sensi, mentre il tempo è una dimensione della mente: se la misurazione matematica dello spazio va bene per tutti, la misurazione del tempo si contrae e si espande in base alla qualità dell’esperienza che viviamo soggettivamente in quel tempo. Non per tutti vale lo stesso tempo per apprendere, per capire, per conoscere e per vivere. L’idea occidentale di programmare, pianificare e scandire ritmi precisi è una violazione della vita perché impedisce la realizzazione dell’umano, lo obbliga ad abbandonare se stesso per ridurlo a funzionario d’apparato. Un qualcosa di totalmente diverso rispetto a quello predicavano le popolazioni indigene, i buddhisti e gli induisti con il “qui e ora”: la realizzazione completa di noi stessi in ogni momento della vita. L’idea di programmare qualcosa (un viaggio, un lavoro, la vita) significa elevarsi ad un livello superiore rispetto a quello che esiste decidendo, pur non conoscendo, cosa è bene sapere/conoscere ed esplorare. “Il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta; il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare” – scriveva Tiziano Terzani nel suo libro In Asia.

Noi abbiamo vissuto per secoli in un “tempo artificiale” diviso a tavolino di 24 ore, di 60 minuti, di 60 secondi, ovvero cicli che non appartengono al tempo naturale, ma ad una condizione strumentale finalizzata a scopi ben precisi (attività commerciali, mercato, industria, lavoro) in cui ci siamo convinti che il tempo è lineare e scandito precisamente. In realtà il tempo è ciclico e diacronico (scandito nel divenire), il tempo non è “denaro”, ma “vita”: la mente meccanicistica occidentale ha sovrapposto le sue creazioni artificiali alla perfezione innata della Natura.

Alla riscoperta del tempo con il Calendario Maya

Una civiltà che ha avuto fin da subito una visione radicalmente diversa del tempo sono stati i Maya. Questa popolazione precolombiana, il cui orizzonte tecnologico non andò mai al di là del livello dell’età della pietra, era però capace di manifestazioni artistiche, scientifiche ed intellettuali di altissimo livello. La loro profonda conoscenza cosmologica ed astronomica ha portato alla formulazione del famoso Sincronario Maya o Calendario Tzolk’in, una matrice matematica formata da 260 unità (che si avvicina molto al periodo di 9 mesi della gestazione umana) che nasce da 20 segni e 13 toni che si intrecciano fra di loro e che considerava i cicli siderali della Terra, della Luna e di Venere nelle loro orbite attorno al Sole. Secondo Tzolk’in ognuno di noi ha una propria identità di nascita, che viene definita da uno dei 20 segni più uno dei 13 toni della creazione. Calcolata questa identità, si può comprendere meglio qual è il percorso che la nostra anima ha scelto di portare a compimento in questa vita. Il Calendario Maya era la chiave di lettura per le profezie e le divinazioni ed era già in uso nel VI secolo a.C. tra la popolazione precolombiana degli Zapotechi di Oaxaca. Venne decifrato dal Prof. José Argüelles e da sua moglie Lloydine, che hanno studiato e individuato le frequenze del tempo artificiale (12:60) e naturale (13:20), dando vita ad un corpus di conoscenza interamente nuovo: la Legge del Tempo, che si articola nella matematica della Quarta Dimensione e nello studio dell’Ordine Sincronico.

La società Maya era basata sull’agricoltura e la coltivazione del mais, ma disponeva di sistemi matematici molto elaborati a base vigesimale (sistema di numerazione avente come base il numero 20 non sul 10 come il nostro) e di 17 sistemi calendrici che, secondo Argüelles, erano superiori quanto ad accuratezza a quelli di tutte le altre civiltà, compresa la nostra. Le basi della cultura Maya sono sopravvissute oggi tra gli anziani, tra i quali esistono ancora i “custodi del Giorno”, che tengono lo Tzolkinil, il “conto sacro”, ciò che rimane del sistema calendrico dei tempi antichi. Secondo molti antropologi, il calendario Maya era solo uno strumento per determinare i tempi della semina, ma secondo studi più approfonditi si tratta di un sistema per la regolazione dei tempi della vita su un piano cosmico in cui si possono identificare altri cicli, più grandi e più piccoli. “Un sistema del tempo ciclico e una visione dell’universo quadridimensionale a matrice radiale, in cui il punto zero è il sempre-presente-qui-ed-ora. In questa concezione crono-centrica il tempo è la quarta dimensione. La nostra è invece spazio-centrica, considera il tempo lineare e l’universo tridimensionale” – affermava Argüelles.

Per i Maya l’essenza del tempo non è nella durata, computata in ore, minuti e secondi meccanici, ma piuttosto nella sincronizzazione, il cui strumento supremo è l’essere umano.

I Maya concepivano il tempo come “arte” e come “coscienza”, qualcosa di totalmente diverso che sancì uno scontro radicale di civiltà tra la cosmovisione dei Maya e la visione dei conquistadores e dei missionari, cercando di imporre, con la linearità cristiana, che la nostra vita non è più nostra, ma è la vita di chi ci paga per il nostro tempo. Forse è proprio su questo che avvenne l’impatto più violento tra conquistadores e la Civiltà Maya. Come sosteneva Argüelles: “La Legge del Tempo trova un riscontro pragmatico immediato nel bisogno urgente di sostituire l’attuale standard temporale mondiale dei dodici mesi del calendario gregoriano con la frequenza biologicamente corretta 13:20, ovvero con il calendario di 13 lune di 28 giorni. La frequenza temporale attualmente in uso, quella 12:60, è contro natura ed è strettamente connessa al corso imboccato dall’Occidente verso una civiltà completamente tecnologica, basata sullo sfruttamento totale delle risorse naturali della Terra, con il conseguente inquinamento dell’ambiente naturale, la biosfera. L’ottimismo tecnologico si rivela miope nel credere che si possa seguire questa direzione indefinitamente. L’eredità Maya ci offre un’alternativa a questa folle corsa tecnologica. Laddove il Vecchio Ordine Mondiale Babilonese ha creato l’incubo tecnologico della civiltà moderna, forse il Nuovo Ordine Mondiale Maya può creare una che ci riporti a una dimensione più naturale”.

Se si esce dalla visione occidentale ed ottimistica del futuro, come qualcosa che arriverà da solo e sarà sempre positivo in balia degli eventi, e si entra in una dimensione reale del tempo, si capisce che se il futuro è figlio del presente e che il presente è il luogo temporale in cui creare le cause per un futuro migliore.

Lorenzo Poli

Collaboratore redazione di Lavoro e Salute

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