La consagracion tra scienza e politica

In un discorso tenuto a pochi giorni dalla fine della crisi di Ottobre del 1962, Fidel Castro disse che i proiettili più a lunga gittata di cui Cuba era in possesso non erano quelli nucleari, ma quelli morali. Sessant’anni dopo, l’arsenale politico-ideologico della rivoluzione cubana è piuttosto scarico. Il paese vive una crisi economica e culturale profonda. Eppure, è ancora in grado di dare schiaffi morali, specie ai paesi più ricchi.

Uno dei più forti è arrivato con la pandemia. Cuba è riuscita a sviluppare ben tre vaccini efficaci contro il Covid-19, anche se ha un Pil simile a quello della Campania ed è sottoposta da oltre sessant’anni al blocco commerciale e finanziario degli Stati uniti. Abdala, Soberana 02 e Soberana Plus, sono stati utilizzati per immunizzare il 90% della popolazione adulta e il 97% di quella infantile dell’isola, e hanno protetto decine di milioni di persone in paesi troppo poveri o troppo poco succubi per ricevere in tempo i vaccini occidentali.

Perché Cuba ha un sistema di innovazione sulle biotecnologie stimato in tutto il mondo? Quali sono le sue caratteristiche distintive, rispetto a quelle dei paesi capitalisti? Queste domande hanno ispirato la mia visita di ricerca presso la Facultad Latinoamericana de Ciencias Sociales (Flacso)(Flasco) dell’Università dell’Avana. Per due mesi, ho avuto la possibilità di condurre interviste in profondità con decine di scienziati delle principali biotech cubane. Ho potuto farlo in totale libertà, ponendo tutte le domande che volevo.

Di seguito, ho raccolto per punti quelli che secondo me sono gli elementi più significativi della via all’innovazione di un paese comunista (in transizione).

Proprietà pubblica e consagracion

Cuba è riuscita a sviluppare i vaccini contro il Covid-19 perché, da decenni, possiede un’industria biofarmaceutica avanzata. Il pilastro del sistema è una rete inter-organizzativa costituita da 32 imprese, che operano in diverse aree di specializzazione. La rete è coordinata da una struttura governativa, Biocubafarma (Bcf), che si occupa di fare da integratore e da cerniera con il governo.

Chiedo a Rolando Pèrez, direttore scientifico di Bcf, quali siano i confini della rete. «Le 32 imprese costituiscono lo schema interno, ma la nostra struttura è globale – mi spiega – Bisogna considerare anche le 16 società che abbiamo all’estero, in molti casi a capitale misto». Cuba vende farmaci in 40 Paesi, principalmente America Latina e Africa. «Non siamo ancora riusciti a entrare nei mercati dei paesi del nord industrializzato, ma abbiamo partenariati per lo sviluppo di farmaci innovativi – aggiunge – Uno di questi è anche negli Stati uniti». Si riferisce alla società costituita dal Centro di Immunologia Molecular (Cim) e dal Roswell Park Hospital, per introdurre negli Usa un vaccino terapeutico contro il cancro, CimaVax, sviluppato dal Cim e già in uso a Cuba da anni.

Sebbene siano tutte statali, le imprese godono di un’autonomia gestionale significativa rispetto al governo. «Su bilancio, investimenti e partnership, le imprese sono completamente libere, e hanno l’obiettivo di produrre farmaci per la popolazione, ma anche utili – precisa Pèrez – I progetti di ricerca e sviluppo devono seguire gli indirizzi dei programmi nazionali di salute pubblica». Quanto alla scelta dei quadri, l’azienda li seleziona autonomamente, tranne il vertice. «Il direttore generale è nominato dal governo – aggiunge – sulla base di requisiti tecnici, ma anche di traiettoria politica: deve aver avuto in passato responsabilità che lo hanno reso affidabile rispetto ai compiti della Rivoluzione». 

Anche se legati da un rapporto di fiducia con il governo, i direttori delle imprese cubane non sono uomini di partito messi a comandare dal nulla. Sono scienziati di spessore internazionale e non di rado hanno fondato loro stessi le aziende che dirigono. Il loro rapporto con lo Stato non è mediato dall’adesione al Partito comunista, quanto da un commitment affettivo che lega tra loro identità scientifica e politica. I cubani hanno coniato un termine per descrivere la natura quasi religiosa di questo legame: consagracion. Ho chiesto a Wilfredo Torres, l’uomo a cui Fidel Castro chiese di coordinare la nascita del sistema biotecnologico agli albori degli anni Ottanta, cosa significhi per lui essere consacrato. Ha novant’anni ed è malato, ma quando sente la domanda, risponde senza esitare un attimo, come se stesse pronunciando qualcosa che sta tra un comandamento e un ordine: «la massima dedizione al raggiungimento di un obiettivo».

Il ciclo chiuso 

L’obiettivo è tutelare la salute del popolo cubano, che con il blocco statunitense non può importare farmaci e materia prima per produrli. Ma anche qualcosa di più: emancipare Cuba dal suo passato coloniale e collocarla nel mondo come un cluster di innovazione scientifica.

Questa aspirazione, nutrita da Fidel Castro fin dai primi anni della Rivoluzione, ha plasmato la logica del ciclo chiuso. Tutta la catena del valore del farmaco, dalla generazione della molecola alla sua commercializzazione, deve essere conclusa all’interno dell’impresa. «Fidel si rese conto – ricorda Pèrez – Che sviluppare solo know how teorico senza base industriale non avrebbe avuto senso in un paese sotto blocco. Da qui, l’idea di creare istituzioni in grado di chiudere il ciclo, dove cioè i progetti di ricerca si avviano perché arrivino fino in fondo». Questo vuol dire che a Cuba non c’è una separazione tra generazione e produzione, come nei paesi capitalisti, e in particolare negli Usa, dove il design delle molecole è compiuto nelle Università (con fondi spesso statali) e le grandi imprese entrano in gioco solo dopo, comprando le invenzioni più promettenti, e portandole sul mercato.

Il ciclo chiuso consente anche di comprendere la genealogia del sistema di innovazione cubano, che è un originale mix di processi bottom up e top down. Le imprese cubane sono la forma istituzionalizzata di gruppi di ricerca che hanno avuto successo nello sviluppare innovazioni utili al sistema di salute pubblica, spesso a seguito di progetti di ricerca condivisi con team di scienziati stranieri. È andata così per l’interferone ricombinante, che ispirò l’istituzione del Centro di Ingegneria Genetica y Biotecnologica (Cigb); per il vaccino contro il meningococco B, che diede vita all’Istituto Finaly dei vaccini (Ifv); per gli anticorpi monoclonali contro il cancro, che contribuirono a dare vita al Cim. 

Non c’è però un solo scienziato con cui parli che, a questa lettura dei fatti, non senta il bisogno di aggiungere la mano di Fidel Castro. E in effetti Fidel ha ricoperto, almeno agli albori di questa storia, un ruolo simile a quello di un incubatore d’impresa. «Quando tornai in patria, da una visita di ricerca all’Università di Jena, allora nella Ddr – racconta Fernando Hiero – mostrai la foto di un feto a Fidel: aveva il sistema nervoso scoperto dal cranio alla schiena. Il comandante si impressionò molto e disse: be’, qualsiasi cosa». Hiero aveva da poco sviluppato un sistema per effettuare il test dell’alfafetoproteina economizzando sull’uso di reagente, dando vita alla tecnologia Suma. L’intervento di Castro risultò fondamentale per trovare le risorse e fondare il Centro Immunoensayo (Cie), che in pochi mesi insediò in tutte le province cubane un laboratorio di diagnosi per le donne in gravidanza. Anche grazie a questo investimento Cuba ha ridotto la sua mortalità infantile, al punto da avere indicatori migliori degli Usa, almeno fino al 2020.

Nel tempo, la logica del ciclo chiuso si è estesa oltre i confini della singola azienda: è l’intero sistema di innovazione che funziona in una logica di distretto. I vaccini contro il Covid-19 ne sono la dimostrazione: il Cigb e il Finlay sono gli sviluppatori principali dei tre vaccini, ma attorno a loro hanno lavorato differenti network di imprese, istituti di ricerca e anche singoli scienziati, come l’italiano Fabrizio Chiodo, in un contesto relazionale simile a quello che David Stark descrive con il concetto di eterarchia. Una logica molto lontana dalla «vaccine race» dei paesi capitalisti, dove enormi quantità di denaro pubblico hanno mobilitato network di aziende private in competizione tra loro, il cui obiettivo era quello di formulare un vaccino efficace, ma anche «blindabile» con biotecnologie proprietarie. 

La proprietà sociale della conoscenza 

Questa effervescenza collaborativa è garantita, oltre che dalla proprietà pubblica, da un modello di regolazione sulla proprietà intellettuale diverso da quello dei paesi capitalisti. «Aderiamo al Trips – mi chiarisce Rolando Pèrez – Ma da noi la proprietà di determinati mezzi di produzione è sociale». E tra questi c’è la conoscenza scientifica.

La titolarità giuridica delle invenzioni non può essere a capo dei singoli inventori ma è esclusiva delle imprese. Questo vuol dire che a decidere sull’uso e sull’eventuale concessione di licenze delle invenzioni cubane è, in definitiva, lo Stato. Tuttavia, non significa che gli inventori non possano figurare come autori, e che siano assenti gli incentivi materiali alla creatività individuale. Il meccanismo me lo chiarisce Luis Herrera, ex direttore generale del Cigb, che è anche autore di decine di brevetti. «Gli inventori percepiscono una percentuale minima sugli utili prodotti dalle loro creazioni. Tuttavia, le somme a cui si può arrivare non sono irrilevanti, specie se il farmaco vende all’estero, e gli utili sono realizzati in dollari».

Sul tema brevetti noto sfumature diverse tra gli scienziati cubani. «Il sistema dei brevetti blocca lo sviluppo scientifico – sostiene Gerardo Guillen, direttore della ricerca biomedica del Cigb – Non rende possibile lo scambio di idee e complica la generazione di prodotti efficaci. È un sistema inventato dal capitalismo contro l’umanità, e dimostra quanto sia inefficace il capitalismo stesso». Guillen ha in mente gli ostacoli che la sua impresa incontra per accedere a licenze fondamentali per concludere progetti di ricerca. «Però, a noi non resta altro rimedio che giocare con le stesse regole, non possiamo isolarci», conclude.

Durante la pandemia, Cuba ha realizzato trasferimento tecnologico e ha venduto i suoi vaccini a prezzi molto accessibili. Tuttavia, non ha una posizione esplicitamente favorevole all’abolizione dei brevetti. Non è un caso: quasi tutte le società miste di Bcf vedono la parte cubana conferire capitale sotto forma di intangibile. In un mercato che sposta la competizione (e il guadagno) sulla parte generativa della catena del valore, Cuba ha un vantaggio competitivo di cui intende approfittare. Sebbene rifornire il paese di medicamenti resti la missione principale delle imprese, è sempre più forte la tensione a sviluppare progetti che possano vendere all’estero e occupare nicchie lasciate libere dai competitor stranieri.

Un approccio che sembra piuttosto capitalista, per delle imprese socialiste. Herrera mi fa capire che non si tratta di voglia di surplus, ma di sopravvivenza. «Grazie al sistema nazionale, Cuba spende un terzo dei circa 2 miliardi di dollari di cui avrebbe bisogno per soddisfare la sua domanda interna – mi spiega – Noi siamo in grado di creare la maggior parte dei farmaci di cui abbiamo bisogno, ma dobbiamo importare i principi attivi dall’estero. Il bloqueo, l’aumento dei prezzi post-pandemia, e anche nostre oggettive mancanze, fanno sì che vi siano dei rilevanti problemi di approvvigionamento». Questo si traduce in carenze di medicamenti di base, di cui sono emblematici gli scaffali vuoti delle farmacie all’Avana. E si trasforma in dissenso verso il governo cubano. 

Herrera credo si riferisca a questo quando dice che l’obiettivo prioritario, oggi, per la biotecnologia cubana è entrare nei mercati del primo mondo, dove c’è il 90% del valore prodotto dall’industria farmaceutica globale. «Per entrarci dobbiamo essere in grado di dominare e incorporare nel nostro modello alcuni dispositivi dell’economia capitalista – conclude con lucidità – Tu puoi sentire una grande passione per il sistema socialista, ma il mondo non è socialista. Se non siamo capaci, in questo contesto, di creare infrastrutture in grado di generare opportunità economiche rilevanti, potremmo anche rimanere felici di essere indipendenti, ma vivremo male».

La crisi del progetto cubano

Vivremo male, ma già oggi non si può dire che la maggior parte dei cubani viva bene.Negli ultimi due anni, le condizioni di vita della popolazione sono peggiorate. Fuori dalle botteghe, ci sono lunghe file per comprare alimenti di base. L’inflazione è fuori controllo. La piramide delle retribuzioni è più rovesciata che mai: un tassista può guadagnare in un giorno quanto un insegnante in un mese. 

Il dato più impressionante è Il flusso migratorio. Nel 2022, secondo le autorità di frontiera statunitensi, sarebbero arrivati al confine circa 220.000 cubani. Un esodo che non ha precedenti neanche durante il periodo especial, e che è il frutto di tanti fattori: bloqueo, crisi economica dovuta alla pandemia, meccanismi pull come il Cuban Adjustment Act statunitense e l’accordo sui visti tra Cuba e Nicaragua, ma anche una crescente deprivazione relativa, che è diffusa soprattutto tra i giovani.

Ho parlato con diverse persone che stanno progettando la partenza. Si tratta spesso di neolaureati e professionisti. Quando gli chiedo il motivo del loro piano, dicono tutti la stessa cosa: qui l’alternativa è tra fare un lavoro sottopagato o guadagnare facendo lavori umili con i turisti. Cambiare le cose è impossibile, perché il dissenso viene represso. Vogliamo la vita che hanno i nostri coetanei negli altri paesi: una casa, uno stipendio decente, il diritto a fare le vacanze ogni tanto. Non solo lo vogliamo, ma lo meritiamo. Chi ci toglie questo diritto è il governo. L’unica cosa che resta da fare è andare via.

Mi impressiona un fatto: quasi nessuna delle persone con cui mi confronto cita il bloqueo come concausa dei suoi problemi. Quando glielo faccio notare, mi rispondono che il vero bloqueo è interno e anche senza quello esterno le cose andrebbero male lo stesso. Gli chiedo allora se Cuba, con i suoi risultati su scuola, sanità e sicurezza, gli sembri messa peggio degli altri paesi limitrofi. Mi rispondono che sono vecchi ricordi, e almeno a Santo Domingo o in Messico un avvocato o un medico possono aspirare a una vita agiata.

Il 29 Gennaio di ogni anno a Cuba si festeggia la nascita di Jose Martì. Migliaia di ragazzi scendono per la scalinata dell’Università dell’Avana e marciano per calle San Lazaro fino al Malecon brandendo torce di fuoco e bandiere cubane. Cantano con orgoglio gli inni della Rivoluzione, che hanno appreso fin da bambini a scuola. Quest’anno però, a quanto dicono alcuni abitanti del quartiere, i «viva Fidel» sono più tiepidi, e la folla è minore degli anni scorsi.

La de-costruzione della mitologia rivoluzionaria è uno degli obiettivi dell’apparato di blogger e youtuber della propaganda antigovernativa. Da anni, fioccano su questi canali digitali documentari sul patrimonio segreto di Fidel Castro, sui suoi figli e nipoti che fanno una vita da nababbi, sul presunto assassinio di Camilo Cienfuegos, dietro cui ci sarebbe proprio Fidel. Persino Che Guevara non è risparmiato, e viene presentato come un sadico torturatore. Diverse inchieste hanno riscontrato collegamenti tra tale apparato e il governo statunitense. Era così anche in passato. La differenza è che oggi questi messaggi arrivano direttamente sui cellulari della maggior parte dei cubani. Internet a Cuba non ha restrizioni, e i dati sono molto più accessibili che in passato.

Per decenni il governo cubano ha controllato il flusso informativo interno e ha integrato la società attraverso i suoi corpi intermedi: federazione delle donne cubane e degli studenti universitari, comitati di difesa della rivoluzione. In un mondo in cui la costruzione sociale della realtà è prevalentemente riprodotta sui media digitali, e dove l’individualizzazione si è globalizzata, queste vecchie forme di controllo sociale hanno sempre meno senso. Si arriva quindi a un paradosso: in un paese dove il governo controlla la stampa, la versione dei fatti che passa è quella dell’opposizione. 

Chi va, e chi resta

La crisi del progetto cubano si vede anche nei corridoi sistemati e puliti delle imprese biotecnologiche. Tra quelli che vanno, ci sono anche giovani scienziati e studenti promettenti. 

Per contenere il flusso, negli ultimi anni, si sono rafforzati i regimi incentivanti. Le imprese possono destinare fino al 25% degli utili ai lavoratori, e possono rivedere il divario retributivo tra dirigenti e lavoratori base, che la legge cubana stabilisce non poter essere superiore di 4 volte (nei paesi capitalisti non ha limite). A questo si aggiungono vari tipi di benefit, di cui però godono solo alcuni tra i top scientist. Ad esempio, la casa vicino al posto di lavoro. Negli anni Ottanta, questa scelta «olivettiana» ha dato vita a veri e propri quartieri, come alla Lisa e a Bejugal. Bisogna considerare, tuttavia, lo spessore motivazionale di questi incentivi materiali verso categorie di lavoratori che all’estero sarebbero retribuiti anche 1.000 volte di più, e che posseggono competenze molto richieste. 

Affronto questo tema con il direttore dell’Istituto Finlay, Vicente Verez. Mi racconta un aneddoto. «Ero fuori alla sede dell’Istituto, avevamo da poco iniziato la campagna vaccinale  – ricorda – Stavo montando un cartello dove c’era scritto che i vaccini cubani garantivano sovranità al paese. Una coppia di anziani che passava da lì mi ha riconosciuto e, togliendosi il cappello, ha iniziato ad applaudire. E sono rimasti ad applaudire per cinque minuti. Non c’era chi potesse farli smettere». Mentre mi racconta questo episodio, si commuove. «L’apprezzamento di questa gente vale più di qualsiasi somma di denaro».

Maria del Carmen è una scienziata del Cigb. Ha creato un farmaco, Jusvinza, contro l’artrite reumatoide, che ha dato ottimi risultati nel curare il Covid severo. «Ho formato tanti giovani nel mio laboratorio che sono andati via – mi racconta – mi dicevano che la loro aspirazione era pubblicare per le grandi riviste scientifiche. E chi non lo desidera? Ma questa non può essere la motivazione di una vita scientifica. Quando sono andata nelle terapie intensive a istruire i medici su come usare Jusvinza, e ho visto coi miei occhi la salute dei pazienti migliorare, ho avuto la mia più grande ricompensa». 

Messi così, questi stralci di intervista potrebbero sembrare biasimanti nei confronti di chi va. Non è così: c’è comprensione per chi decide di andare via dal paese per inseguire un sogno di auto-realizzazione. Ciò non toglie che per gli scienziati che restano la consagracion non sia qualcosa di contrattabile. Hanno fatto una scelta, e non si tratta solo di anziani legati a Fidel: le scienziate del Finlay che hanno materialmente costruito Soberana 02 e Plus hanno meno di quarant’anni e parlano del loro lavoro con un entusiasmo travolgente. Quando gli chiedo se le abbia motivate l’idea di poter brevettare le loro innovazioni o pubblicare su riviste importanti, si mettono a ridere. 

Prima di salutarlo, chiedo a Rolando Pèrez cosa pensa di tutto questo. Noto sul suo sguardo una leggera malinconia. Mi dice: chi siamo noi per giudicare chi va? Tante famiglie cubane sono divise. Io ho due figli, sono entrambi all’estero. Hanno deciso di condurre la loro vita altrove. Io li rispetto, hanno fatto la loro scelta. Anche io però ho fatto la mia.

Claudio Marciano è assegnista di ricerca in sociologia dell’innovazione presso l’Università di Torino. È autore, assieme al giornalista Report Rai Manuele Bonaccorsi, del libro I Padroni del vaccino. Chi vince e chi perde nella lotta contro il Covid-19 (Piemme, 2022).

15/2/2023 https://jacobinitalia.it

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