La criminalizzazione del dissenso

La notizia è di pochi giorni fa: a due attiviste palermitane è stato notificato un decreto penale di condanna per il reato di accensioni pericolose, previsto dall’art. 703 del codice penale. Nelle parole del pubblico ministero, la condanna è stata loro irrogata «per avere, in concorso tra loro, durante una manifestazione […] per protestare contro la violenza di genere, incendiato una bandiera bianca raffigurante il simbolo e la scritta del partito politico ‘Lega’». Sembra il frutto di una distopia autoritaria. In realtà, provvedimenti di questo tipo sono una prassi consolidata, che chi fa politica al di fuori dei circuiti istituzionali conosce bene. Ma andiamo con ordine.

Quando ci si approccia all’attività di repressione dello Stato nei confronti del dissenso e delle lotte sociali, è utile tener presenti diversi piani di lettura. Spesso ci si sofferma su una sola fase del sistema complessivo, ovvero quella dell’uso della forza da parte delle agenzie di controllo, nel contesto della piazza o degli spazi occupati: cariche, lacrimogeni, sgomberi. Una fase – per così dire – intermedia: se allarghiamo l’inquadratura, invece, possiamo cogliere tutto quello che viene prima e dopo. In criminologia, si parla di una criminalizzazione in astratto (o primaria)e di una criminalizzazione in concreto (o secondaria): la criminalizzazione primaria riguarda le scelte fatte dal legislatore in merito a quali comportamenti costituiscono un illecito e in che modo devono essere perseguiti, mentre la criminalizzazione secondaria deriva dalle decisioni assunte da altri attori, come le forze di polizia, i pubblici ministeri e i giudici. Questa stessa bipartizione ci aiuta a decifrare qualche caso che esemplifica bene le tendenze in atto nella criminalizzazione del dissenso politico e delle azioni di protesta. 

Nel caso delle attiviste di Palermo da cui abbiamo cominciato, vengono in rilievo due norme del codice penale che hanno sul tema molto da raccontare. Anzitutto, il reato viene contestato a titolo di concorso, ai sensi dell’art. 110 c.p. Nella lingua giuridica, si definisce l’art. 110 una clausola estensiva della tipicità. Ciò significa che, se più persone collaborano nel commettere il reato, non importa (salvo alcune lievi attenuazioni) quale sia il contributo di ciascuno; tutti sono considerati allo stesso modo autori del fatto. Così, chi tiene un comportamento che, di per sé, non è illecito, è chiamato a rispondere del reato che risulta dalla somma di tutte le condotte individuali, e risponde del risultato in quanto il suo comportamento è stato causalmente necessario alla realizzazione del fatto. Il tema è estremamente problematico ed è stato a lungo discusso dagli studiosi del diritto penale, che nell’ultimo cinquantennio hanno criticato la disciplina in questione fino a metterne in dubbio la coerenza rispetto alle norme costituzionali. Nei lavori preparatori, gli estensori del codice penale del 1930 sottolinearono principalmente le motivazioni tecniche alla base della scelta normativa. Tra le righe delle relazioni delle Commissioni ministeriali, però, si possono leggere le esigenze repressive che portarono Alfredo Rocco, ministro del governo fascista, a sostenere con forza l’attuale formulazione dell’art. 110. E come ci si può attendere, le ragioni hanno molto a che fare con il contesto politico (vale a dire: un regime totalitario) nel quale il codice è stato approvato: le distinzioni sancite tra autori e coautori nella previgente disciplina, infatti, «non hanno, nella concreta applicazione, corrisposto a quelle esigenze di difesa sociale, che richiedevano una ben più efficace tutela». Su questa locuzione, difesa sociale, torneremo più avanti.

Non è difficile intravedere il potenziale repressivo dello strumento: se non si applicano con estrema cautela i principi secondo i quali le condotte devono essere considerate legate l’una all’altra, i risultati possono essere esiziali. In alcuni casi, la disciplina del concorso di persone nel reato è stata applicata in modo notevolmente perverso: sono casi che hanno per epicentro la procura di Torino. Nel febbraio 2018, ci furono scontri a margine di un comizio elettorale di Casa Pound. I media avrebbero poi parlato di bombe carta contenenti schegge di ferro, chiodi e bulloni: circostanza smentita in esito al processo che ne è seguito. In quel processo, il pubblico ministero ha richiesto severissime misure cautelari e il rinvio a giudizio (la vicenda è riportata nel dettaglio dall’avvocato Claudio Novaro in questo articolo): il panico morale creato dai media, dai sindacati di polizia e dagli esponenti politici si era saldato con le prassi discorsive giudiziarie. La pubblica accusa indicava infatti come responsabili in concorso rispetto al lancio dei petardi manifestanti che avevano acceso un fumogeno nelle vicinanze o tenuto lo striscione: un concorso morale, in questo caso, ovvero il contributo di colui che determina o rafforza il proposito criminoso di altri.

Banco di prova fondamentale di questa rilettura estremamente estensiva del concorso di persone è stato l’accanimento giudiziario nei confronti del movimento No Tav. Xenia Chiaramonte, sociologa del diritto, ricercatrice all’Institute for Cultural Inquiry di Berlino, ne ha descritto approfonditamente le dinamiche: a questo tema sono dedicati il suo libro  Governare il conflitto: la criminalizzazione del movimento No Tav (Meltemi 2019), e questo articolo. L’esempio lampante è quello del cosiddetto maxiprocesso ai No Tav, dove la pubblica accusa ha sostenuto che «tutti gli imputati che hanno agito nel contesto spazio-temporale dove si sono feriti gli appartenenti alle forze dell’ordine devono rispondere delle lesioni che hanno riportato». Basta la presenza sul luogo del fatto, dunque. L’agire nel medesimo contesto: ultimo, estremo, assottigliamento del rapporto causale tra l’azione del singolo e il fatto di reato. L’applicazione integrale del concorso di persone come strumento di difesa sociale. La vicenda giudiziaria si è conclusa, di recente, con la riaffermazione da parte della Corte d’Appello in sede di rinvio di principi che più si addicono a uno Stato di diritto: «la sola presenza degli imputati sui luoghi, in differenti momenti e fasi degli scontri, non può di per sé, pertanto, fondare una responsabilità collettiva per tutto quanto avvenne nella medesima giornata, mancando del tutto il necessario accertamento di uno specifico contributo di causalità efficiente». La sentenza è commentata, nel suo complesso, da Claudio Novaro in questo articolo.

Il caso palermitano fornisce un ulteriore spunto di riflessione sulle prassi giudiziarie in tema di dissenso politico e azioni di protesta. Anche qui, partiamo dalla norma. L’art. 703 c.p., «accensioni ed esplosioni pericolose», recita: «chiunque, senza la licenza dell’autorità, in un luogo abitato o nelle sue adiacenze, o lungo una pubblica via o in direzione di essa spara armi da fuoco, accende fuochi d’artificio, o lancia razzi, o innalza aerostati con fiamme, o, in genere, fa accensioni o esplosioni pericolose, è punito con l’ammenda fino a euro 103». Nel secondo comma è poi previsto che «se il fatto è commesso in un luogo ove sia adunanza o concorso di persone, la pena è dell’arresto fino a un mese». La disposizione, in un’evidente processo di eterogenesi dei fini, è spesso applicata, grazie alla clausola di chiusura (o, in genere, fa accensioni o esplosioni pericolose), a situazioni di fatto molto diverse da quelle immaginate dal legislatore. La contravvenzione appartiene infatti a quegli illeciti che, sanzionando la detenzione o l’uso improprio di armi, sono volti a prevenire i delitti contro la vita e l’incolumità individuale: oggi è il reato che tipicamente viene contestato a chi accende fumogeni nelle manifestazioni. Così, ad esempio, in un recentissimo caso che ha visto protagonisti gli attivisti di Extincion Rebellion a Torino (qui la vicenda completa). Anche qui la prassi repressiva sfrutta un’ambiguità già impressa dal legislatore nella norma generale e astratta: il reato di accensioni pericolose è un reato di pericolo, cioè sanziona un comportamento idoneo a causare un danno, senza che questo si sia ancora verificato. Il problema è quanto si fa arretrare la soglia della rilevanza penale del comportamento in questione, punendo comportamenti sideralmente lontani dalla possibile lesione del bene tutelato (in questo caso, appunto, la vita e l’incolumità fisica dei consociati).

Ma questo cos’ha a che fare con una bandiera? In apparenza, ben poco. L’unica bandiera la cui integrità è tutelata dalla legge è quella italiana, oggetto del reato di vilipendio o danneggiamento alla bandiera o ad altro emblema dello Stato (art. 292 c.p.): chiaramente, un residuo della concezione fascista dei rapporti tra lo Stato e il cittadino. Eppure, non è la prima volta che si cerca una strada per sanzionare il vilipendio dell’effige leghista: ancora una volta a Torino, un manifestante era stato condannato per il reato di danneggiamento per aver bruciato una bandiera della Lega, salvo poi essere assolto in Cassazione (perché il reato di danneggiamento semplice era stato nel frattempo depenalizzato). La scelta delle accensioni pericolose è forse ancora più fantasiosa: l’incendio della bandiera accostato ad armi, razzi, aerostati con fiamme. Ma non stupisce, se si coglie la continuità con il discorso, tanto giornalistico quanto giudiziario, che mira a portare le azioni del dissenso politico nel campo semantico della guerra. Anche su questa operazione di framing, il caso No Tav è paradigmatico.

Quindi: cosa si punisce, punendo l’incendio della bandiera leghista? Di certo, non si può punire il vilipendio del simbolo di un partito. Che si tuteli l’incolumità di qualcuno da un concreto pericolo, è lecito dubitare. La sensazione è che, in questo caso come in altri, la criminalizzazione del dissenso non voglia punire la condotta ma l’autore. Con buona pace dei principi del diritto penale moderno, il diritto penale del fatto. D’altronde, come sintetizzava efficacemente Mario Sbriccoli, uno dei più eminenti studiosi della storia del diritto in Italia, lo spostamento della rilevanza penale di un atto dal piano del danno al piano della mera disobbedienza è la forma paradigmatica del reato politico. Non c’è alcun danno che richieda una riparazione: il processo di criminalizzazione mira a sanzionare un tipo di autore, a difendere la società da quest’ultimo, un corpo estraneo che, in qualche modo, la minaccia. L’uso dello strumento penale a questo fine è lo specchio di una concezione della società come un sistema armonico e ideologicamente compatto che va tutelato, in quanto tale, nel suo interesse generale: una visione monolitica che non corrisponde alla pluralità di posizioni e interessi in conflitto che costituisce, in effetti, la società.

Un’ultima riflessione, dall’astratto al concreto. Anche strumenti della procedura penale, in apparenza neutri, possono avere un ruolo significativo quando funzionano come un ingranaggio dell’apparato repressivo. Il reato di accensioni pericolose, così come molti reati a tutela dell’ordine pubblico (ad esempio quelli contenuti nel Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, anch’esso eredità del ventennio), in quanto presidiato da una sanzione piuttosto lieve rientra nel campo di applicazione del procedimento per decreto, regolato dagli artt. 459 e seguenti del codice di procedura. In estrema sintesi, la sanzione viene irrogata inaudita et altera parte, cioè senza che la difesa possa controbattere alla richiesta di condanna del pm, salva la possibilità di opporsi al provvedimento, instaurando un processo vero e proprio dove, invece, viene ricostituito il normale contraddittorio. Accettare il decreto penale di condanna, però, comporta una serie di benefici: tra gli altri, la sanzione è notevolmente ridotta e la condanna non è menzionata nel certificato penale. L’imputato baratta il proprio diritto alla difesa con una risoluzione rapida e una sanzione calmierata. Una scelta comprensibile dal punto di vista del singolo, ma che rappresenta l’estremo tentativo della macchina della criminalizzazione di separare la sua vicenda personale dalla comunità, e di sottrarla alla pubblicità del giudizio penale. Per questo, spesso, l’opposizione al decreto è una scelta politica: l’imputato cessa di essere il soggetto che subisce il provvedimento torna soggetto attivo, prende la parola, difende la parte. Cerca di sabotare il processo di etichettamento del singolo, restituendo alla sfera collettiva il senso politico della vicenda: perché in piazza c’eravamo tutti, c’eravamo tutte.

Anna Cortimiglia è giurista, attivista e praticante avvocata. È tra i soci fondatori di Liberi Tutti Pavia, associazione che fornisce sostegno legale a persone migranti e con fragilità. 

20/5/2021 https://jacobinitalia.it

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