La cupola

Pensate al peggio. Pensate all’intreccio tra malavita, politica e imprenditoria. Pensate all’avidità di colossi aziendali e consorzi di distretto, disposti a sversare rifiuti tossici in aree abitate e su terreni coltivati per risparmiare milioni di euro sui processi di bonifica e di smaltimento dei rifiuti. Pensate ad amministratori locali che, più o meno consapevolmente, calpestano le comunità che dovrebbero rappresentare per seguire gli interessi di chi può pilotare bacini di voti determinanti alla loro elezione. Ecco, adesso pensate che tutto questo succede nel cuore della Toscana, nella culla della buona amministrazione democratica e progressista – nipote ormai diseredata della tradizione del Pci e sempre più figlia diretta di un Pd a trazione nemmeno troppo velatamente renziana – in una delle aree più ricche e benestanti del Paese, lungo la filiera della moda che dalle concerie del comprensorio del Cuoio conduce alla piana fiorentina, dove hanno sede le grandi firme.

L’inchiesta «Keu», condotta dalla direzione distrettuale antimafia di Firenze e deflagrata proprio in questi giorni, ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di 19 persone tra imprenditori, amministratori, dirigenti pubblici e manager privati (sostanzialmente tutto il vertice dell’Associazione conciatori) per reati che vanno dall’associazione a delinquere aggravata all’agevolazione mafiosa, dal traffico illecito di rifiuti all’inquinamento ambientale. Il principale filone dell’inchiesta riguarda lo smaltimento di rifiuti tossici in diversi territori tra le province di Pisa e Firenze, con il caso eclatante di 8.000 tonnellate di materiali inquinanti utilizzati per realizzare i rilevati di un intero lotto della nuova strada regionale 429 che collega Empoli a Poggibonsi. Il meccanismo sarebbe questo: il consorzio conciatori di Santa Croce cedeva il Keu – l’inerte finale derivante dal trattamento dei fanghi prodotti dagli scarti della concia delle pelli, cioè il cancerogeno cromo esavalente sotto forma di cenere – prodotto dal depuratore Aquarno ad un impianto di produzione di materiali riciclati che illecitamente lo miscelava con altri inerti e classificava il composto come materia prima per l’edilizia. A quel punto una ditta di movimentazione terra, che grazie all’appoggio di ambienti di spicco della ‘ndrangheta aveva assunto il subappalto dei lavori, lo utilizzava per rilevare il manto stradale. La strada 429, peraltro, è solo la punta dell’iceberg. Il Keu sarebbe stato utilizzato anche per realizzare altre infrastrutture del territorio. Tutto questo è avvenuto, secondo l’inchiesta, non solo con il beneplacito di amministratori locali (come la sindaca di Santa Croce) e dirigenti pubblici regionali (il capo di Gabinetto del presidente della Regione Toscana e il capo regionale del Settore Ambiente, per dirne due), ma poggiando su una loro diretta azione di pressione e di indirizzo.

Ma il volto tetro di questa vicenda non è rappresentato solo dagli indagati, sulle cui responsabilità penali toccherà alla magistratura pensare. Ciò che rende drammatico il quadro, infatti, è soprattutto l’immagine che emerge dagli atti dell’inchiesta, quella di un sistema di interessi che accomuna politica, malavita e imprenditoria, con quest’ultima a guidare il carro. E la conferma di questo arriva anche dalle prime reazioni politiche che gli amministratori dei territori vittime dei rifiuti hanno avuto: tanto silenzio, un richiamo al garantismo che definire pilatesco sarebbe eufemistico e in alcuni casi addirittura una minimizzazione della vicenda. Una compattezza di approccio disarmante che fa il paio con quella di una foto, diventata ormai iconica: quella degli amministratori locali e dei vari senatori tirati su da questo territorio, uniti e sorridenti al taglio del nastro per l’inaugurazione della strada incriminata, la nuova 429. Tanto felici e loquaci al momento di inaugurare un’opera, quanto – appena una manciata di mesi dopo – evasivi, nervosi e incapaci di elaborare una risposta di fronte ad un danno da cui loro per primi dovrebbero sentirsi colpiti e di cui dovrebbero essere partecipi al fianco della popolazione. Chi si aspettava dure prese di posizione, la richiesta – almeno – di un chiarimento interno ed esterno alle forze di governo è rimasto deluso. La risposta, salvo sporadici casi di amministratori di piccoli comuni sempre più propaggini lontane di una frontiera abbandonata, è stata balbettante. Quando è andata meglio. Quando è andata peggio si è consigliato agli abitanti di farsi analizzare privatamente e singolarmente le acque o ci si è scatenati con post auto-incensanti perché si era appena svolta la raccolta Plastic Free.

Le responsabilità penali e individuali in sede processuale, certo. Ma esistono le responsabilità politiche e di quelle i sindaci dovrebbero dare conto alle realtà che amministrano e rappresentano. Quello che accade nell’Empolese Valdelsa non è un affaire, una faccenda brutta e sporca che si può risolvere con l’incriminazione di qualcuno. È l’espressione di processi strutturali che articolano meccanismi gestionali e decisionali complessi. Il tema centrale – che però i politici locali non hanno ancora messo a fuoco – non è la mafia, ma come le istituzioni pubbliche – attraverso dei modelli consolidati di governance – facilitino la presenza strutturale delle grandi corporazioni, siano esse legate alla criminalità organizzata o meno nella gestione dei servizi e delle infrastrutture. C’è una domanda politica, non legale, che viene elusa ed è: chi decide veramente lo sviluppo locale? Dove si decide? Nel modello dell’«arena pubblica», in cui il confine fra pubblico e privato è sempre più labile e deregolamentato, non sono certo gli organi istituzionali e democratici le sedi per prendere decisioni. Lì semmai si ratifica. Sono i consigli di amministrazione delle grandi aziende che investono nella città, sono quelli i luoghi dove vengono prese le decisioni. Al di fuori del controllo democratico, al di là del mandato ad agire che sta alla base della rappresentanza.

Gli illeciti avvengono all’interno di un sistema del tutto lecito, che per anni ci è stato venduto come «l’unico modello possibile», quello delle partecipate, dei servizi multiutility, degli appalti al ribasso, del privato con agibilità totale e incondizionata. È un sistema, questo, che piace ai sindaci che piacciono: accorcia i tempi della politica, permette grandi tagli di nastri, foto in prima pagina e carriere rampanti. E proprio coloro che sull’efficienza di questo sistema hanno costruito la propria carriera politica oggi si permettono di dirci: «Io non c’ero e se c’ero dormivo». Allora si tratta di scegliere: o questo sistema compatto di potere locale era all’oscuro – quindi totalmente inadatto politicamente – o complice. O un po’ e un po’, ovvero protagonisti in un’arena politica di cui non capiscono le dinamiche, ma che è facile da cavalcare. In ogni caso un disastro. La responsabilità politica è qui: nel cercare di capire dove si è e decidere quale posizionamento assumere. E invece si risolve tutto con promesse di stabilità per gli investitori e agli abitanti si rifila uno Street food Festival in più, la piantumazione di qualche alberello e un «ci penserà la magistratura». Certo, senza dimenticarsi di attivare qualche processo partecipativo per decidere di che colore debbano essere colorate le panchine. Così le decisioni che contano sono al sicuro, svincolate dalla necessità di qualsivoglia restituzione popolare.

Ma per fortuna i territori non sono solo questo. Alla legittima rabbia degli abitanti c’è chi ancora prova a rispondere con l’organizzazione collettiva e dal basso. È già nata un’assemblea permanente, composta da tanti soggetti collettivi che allo sgomento e alla noncuranza provano a rispondere drenando, incanalando e organizzando le forze. La «culla rossa» esiste, ma non è quella del centrosinistra istituzionale. È quella fatta dai circoli Arci, quelle Case del Popolo di cui il territorio in questione è disseminato e che – non senza contraddizioni – rimangono luoghi accesi, attivi, presenti. La culla è rossa nelle realtà sociali che più di tutti sono vicine ai bisogni delle comunità, vere e proprie fucine di solidarietà e di mutualismo. È anche quella di nuove realtà politiche che ancora forse non rappresentano niente e nessuno, ma che almeno si candidano a farlo applicando un paradigma rovesciato rispetto a quello utilizzato da chi oggi amministra e governa.

Carlotta Caciagli è dottoressa di ricerca in sociologia e scienza politica presso la Scuola Normale Superiore. Si occupa di movimenti urbani e resistenze al neoliberismo. Marco Pagni è giornalista e scrittore. Collabora con quotidiani e riviste sui temi del lavoro e dell’economia.

23/4/2021 https://jacobinitalia.it

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