La differenza di genere come prevenzione

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Il 29 ottobre 2022 è entrata in vigore anche in Italia la Convenzione n. 190 OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro, approvata il 21 giugno 2019 a Ginevra da 187 Paesi e ratificata in Italia attraverso la legge n. 4 del 15 gennaio 2021.
La Convenzione n. 190 affronta tutto lo spettro dei rischi riguardanti il mobbing, lo straining, il bullying, il bossing, lo stalking, le molestie morali, le molestie sessuali e le violenze psico-fisiche. Rappresenta una vera rivoluzione lessicale per comprendere, in particolare nella magistratura – obbligata ad una rigida interpretazione della legislazione interna (in particolare dell’art. 2087 c.c., del d.lgs. 81/2008 e della disciplina antidi-scriminatoria – in merito alla categoria della violenza e delle molestie lavorative, indipenden-temente dallo status contrattuale, e determina nuovi strumenti di denuncia anche per i tirocinanti, gli apprendisti, i volontari, i lavoratori licenziati e quelli alla ricerca di un impiego (art. 2); a qualunque luogo – anche esterno – in cui si svolga la prestazione lavorativa, compresi gli spostamenti per viaggi di lavoro, formazione, eventi, attività sociali, arrivando a ricomprendere anche le comunicazioni lavorative a distanza rese possibili dalle tecnologie telematiche (art. 3).

I settori in cui si registrano percentuali più alte risultano essere il commercio, i servizi, la sanità, il lavoro domestico e di cura.
Ambienti a prevalenza maschile, non tanto come maggioranza numerica, ma soprattutto dove il potere è gestito da uomini.

L’importanza di una valutazione dei rischi lavorativi considerando i rischi cui sono soggetti donne e uomini separatamente.

““Negli ultimi decenni del XX secolo, la “medicina di genere” ha sviluppato la crescente consapevolezza rispetto al fatto che la fisiologia della stessa malattia è significativamente differente per uomini e donne, tuttavia queste differenze non hanno sempre ricevuto la stessa attenzione nel campo della salute e della sicurezza, rispetto a materie come l’anatomia, la biochimica, la tossicologia.(….) Ad oggi sappiamo che le differenze biologiche tra i due sessi possono giocare un ruolo quantitativ-amente diverso sul rischio associabile all’esposizione a sostanze chimiche; elementi che sono apparsi irrilevanti, pur non essendolo affatto, possono essere l’antropometria del fisico, la genetica molecolare, la biochimica e gli ormoni, la massa muscolare, il tessuto adiposo ed anche l’ossatura.”

( Massimo Servadio – Psicoterapeuta e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni )

La stessa Direzione Centrale del coordinamento giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha chiesto di inserire nel Documento di Valutazione dei Rischi (DVR ), anche quelli legati alle differenze di genere, mentre ad oggi la normativa italiana prevede, per il datore di lavoro, un generico obbligo di garantire, oltre all’integrità fisica, anche il benessere psicologico di lavoratori e lavoratrici (art. 2087 codice civile).

Per questa ragione gli strumenti e le postazioni dovrebbero essere adattati alle lavoratrici di sesso femminile e tra gli strumenti che necessitano un adeguamento troviamo anche i DPI, dispositivi di protezione individuale, che, poiché pensati per il lavoratore medio, tendono ad essere inadeguati per le lavoratrici.

Per le ragioni sopra evidenziate dunque, nell’effettuare una valutazione dei rischi, tenendo in debita considerazione il genere, è essenziale non solo considerare le mansioni specifiche, ma anche chiedersi se e come le caratteristiche ambientali e le misure di protezione siano state definite tenendo conto delle differenze di genere.

A livello normativo, seguendo le finalità del D.L. 81/2008, art.1, si ricerca: “l’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e di lavoratori immigrati”, motivo per cui la Gender Equality è ricercata anche in tema di sicurezza sul lavoro, tenendo proprio conto delle differenze di genere.

Cosa si intende per rischio di genere nei luoghi di lavoro? Il Testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro[1] definisce ‘pericolo’ ciò che può danneggiare la salute e la sicurezza di chi lavora e alla lettera s) definisce ‘rischio’ la probabilità di essere esposti al pericolo e subirne danno. La discriminazione, quindi, è il pericolo a cui si può essere esposti per il fatto di essere uomini o donne in un determinato ambiente sociale. Di conseguenza, il rischio di genere esprime la probabilità di subire danni da questa specifica tipologia di discriminazione.
Il meccanismo che favorisce la discriminazione di genere è riconducibile all’atteggiamento sessista, con particolare riferimento all’oggettivazione sessuale, delle donne o degli uomini, e alla deumanizzazione per cui le persone sono trattate alla stregua di oggetti/strumenti e non come esseri umani.

( Gianfranco Cicotto – ingenre.it )

Anche le forme di sfruttamento delle donne nei luoghi di lavoro, sempre più viscide e silenziate dalla ristrutturazione iperliberista in atto dai primi anni 80, oggi anche facilitata dalla pandemia, rendono urgente, una vera emergenza di civiltà, la ripresa del movimento sindacale per il controllo sulle condizioni e le gerarchie di lavoro. Quelle gerarchie di sopraffazione con ricadute ritenute conseguenti nella mentalità maschilista, anche, di diretti approcci sessuali, sono state quasi “istituzionalizzate” con il mantra della meritocrazia, imposta negli ultimi due decenni, che ha funzionato come il principio di “Divide et impera” nelle unità operative, scatenando la corsa, in chiaroscuro, alla posizione più gratificante dal punto di vista della posizione di carriera e salariale.

Una campagna foraggiata dai media come un progresso di produttività e qualità nelle relazioni aziendali fino a farla diventare una materia di contrattazione sindacale molto ben sostenuta, in parallelo all’insegnamento del raffredda-mento dei conflitti (con appositi corsi fatti da alcuni sindacati confederali), nei fatti diventando un implicito invito anche alle lavoratrici molestate di dirigente (“mobbing verticale”) o un collega di pari livello (“mobbing orizzontale”) con i loro strumenti di pressione nei confronti della vittima designata. Diventa un vissuto fatto di mobbing con emarginazione imposta dal contesto ma anche, e spesso, di autoemarginazione come scelta di difesa “fai da te”.

Forse oggi a tanti potrà sembrare anacronistico parlare di questo tema dato che tutte e tutti sono sono costretti a lavorare con l’ignavia dei dirigenti e dei datori per avere anche le elementari nella pandemia. In questo stato di cose risulta anche offensiva la vagheggiata declinazione del compito di un datore di lavoro dettata dalla normativa di legge: “capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il benessere fisico, psicologico e sociale di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori che operano al suo interno”.

La costituzione anatomica stessa comporta che i rischi e le conseguenze per la salute siano differenti in base al genere con differenze sull’incidenza di alcuni danni al fisico, ad esempio nelle donne vengono riscontrati maggiormente disturbi degli arti superiori e questo accade sia a causa dell’elevata presenza di lavoratrici femminili all’interno di catene di montaggio e uffici, sia all’inadeguatezza dei dispositivi forniti che vengono generalmente progettati sulla base delle caratteristiche di un lavoratore medio di sesso maschile, senza tenere in considerazione la struttura fisica delle donne, mediamente inferiore in altezza rispetto agli uomini, generando una penalizzazione di natura ergonomica per le lavoratrici (…)”

( Massimo Servadio – Psicoterapeuta e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni )

Altra vittima predestinata di questo sistema produttivo che delega al datore di lavoro la podestà di ogni aspetto della vita lavoratova è l’altro strumento legislativo, di fatto archiviato nelle relazioni sindacali con le aziende, ci riferiamo al codice delle pari opportunità (art. 26 D.Lgs 11/4/2006, n. 198 ):
“ 1. Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

L’ISTAT nel 2019 ha dichiarato che seppure il 69,6% delle vittime di molestie sessuali sul lavoro abbia considerato “molto” o “abbastanza” grave il ricatto subito, nell’80,9% dei casi non ne hanno parlato con nessuno sul posto di lavoro e in pochissimi casi i fatti sono stati denunciati alle forze dell’ordine.

In Italia esiste l’obbligo di rilevare ed eliminare questo tipo di rischio sul luogo di lavoro: non farlo costituisce reato. Il testo unico menziona tra i “rischi particolari” su cui il datore di lavoro è obbligato a intervenire quelli connessi alle differenze di genere. Ciò che la norma richiede è verificare se tra uomini e donne che lavorano in aziende vi siano situazioni o eventi, ascrivibili al genere di appartenenza, che possano comportare un rischio per la salute e il benessere. Tuttavia si tratta di una norma disattesa, e uno dei motivi è la mancanza di uno strumento adeguato che possa rilevare la presenza del rischio di genere oltre al fatto che nessuno fa questo tipo di valutazione perché nessuno la richiede (e nessuno la paga), forse anche perché gli organi ispettivi non verificano e nessuno viene sanzionato. Nessuno, quindi, interviene per migliorare lo stato delle cose.
Per uscire da questa impasse la cattedra di Psicometria dell’Universitas Mercatorum (Roma) ha sviluppato uno strumento che misura il rischio percepito dal personale lavorativo in merito all’appartenenza di genere insieme alla misurazione da parte dell’ufficio del personale di specifici indicatori. È stato sviluppato tenendo conto degli indicatori che concorrono al calcolo del Gender equality index (Gei) dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), del Gender Equality dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e considera le argomentazioni di diversi studi e report scientifici che hanno affrontato il tema.”

( Gianfranco Cicotto – ingenre.it )

Dall’analisi ISTAT riferita agli ambiti lavorativi emerge che 1 milione 173mila donne (7,5%) hanno subito ricatti sessuali sul luogo di lavoro per ottenere l’assunzione e la sicurezza del posto, o per un promesso avanzamento di carriera a prescindere dalle competenze.

I ricatti sessuali sul lavoro rappresentano una delle poche tragiche certezze, oltre la precarietà e le brutali condizioni di lavoro, mettono in luce il legame tra violenza di genere e la riorganizzazione schiavista delle forme del lavoro negli ultimi tre decenni in termini di erosione di diritti e tutele contrattuali, smantellamento del welfare universale sostituito da quello aziendale che costringe all’ubbidienza verso il datore di lavoro e restare in silenzio. Le performance prodotte hanno beffato competenze e qualità del lavoro, però con il grande risultato di peggiorare la vita negli gli ambienti di lavoro alimentando deleteria concorrenza tra simili.

Per quanto concerne i rischi psicosociali, l’ILO evidenzia che le donne hanno a che fare con tutte le tipologie di violenza (insulti, molestie, minacce, aggressioni fisiche e verbali) nel 6,4% dei casi, mentre gli uomini nel 4,7%, soprattutto nei lavori a contatto con la clientela, quali settore sanitario e lavori sociali. Molestie e bullismo coinvolgono il 6,1% delle donne e il 4,3% degli uomini, con un maggior rischio per le donne sotto i 30 anni. La molestia sul posto di lavoro può configurarsi sotto diverse forme quali mobbing, bullismo, molestie morali che anche nelle loro forme più sottili hanno effetti negativi sul benessere psicofisico della persona (….)””

( Massimo Servadio – Psicoterapeuta e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni )

Bisogna ora riparare urgentemente a queste storture nelle relazioni con i datori di lavoro riprendendo il percorso di contrattazione sull’organizzazione del lavoro, iniziando dai settori in cui si registrano percentuali più alte di molestie e aggressioni verbali e fisiche come nel commercio, nei servizi, nella sanità, e anche nel lavoro domestico e di cura.

Il “mobbing” è violenza sessista perchè ha l’effetto di provocare nella vittima disturbi psicofisici anche gravi derivanti dalla convinzione che il luogo di lavoro è territorio del potere di un sesso contro l’altro.

Altra urgenza riguarda il ripristino, da parte dei sindacati confederali, delle/ dei RLS (Rappresentati dei Lavoratori per la Sicurezza) nell’applicazione del D.lgs. 81/2008 su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro che, per quanto riguarda le lavoratrici soggette a sopraffazione, all’art. 28 colloca fra i rischi quelli connessi alle differenze di genere. Una titolarità, da restituire urgentemente, che contempli una nuova composizione di genere, per facilitare l’uscita dal silenzio imposto dalle gerarchie, dando riferimenti più diretti alle donne nel mondo dei lavori sottoposti alla violenza del precariato.

La Direttiva “quadro” della Comunità Europea (391/89/CE) recepita dapprima dal D.Lgs. 626/94 e ora dal D.Lgs. 81/08 (“Testo Unico sulla sicurezza”), creando la figura del RLS, ha fissato un ruolo fondamentale (almeno in teoria) per la difesa dei diritti dei lavoratori alla loro salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Per la prima volta viene riconosciuto in maniera chiara il ruolo dei lavoratori tramite i loro rappresentanti) come parte “attiva” per la salute e la sicurezza e non sottoposti, come spesso succede, a procedimenti disciplinari messi in atto dall’azienda per nascondere il mancato adempimento della normativa per la loro tutela.

Il RLS avrebbe dovuto farsi portavoce delle esigenze espresse dai lavoratori per la tutela della propria salute e sicurezza, e in parte lo fanno, ma i tagli deliberati nel corso degli anni che hanno ridotto così tanto il personale addetto ai controlli sul rispetto delle norme di prevenzione e sicurezza da facilitare le imprese nel risparmio sui costi con la certezza dell’impunità.

Per questo è infinito il numero di morti sul lavoro, e senza colpevoli; per questo resta infinita la sequela di comportamenti illegali messi in atto da moltissime aziende per aumentare la produzione mettendo a rischio l’incolumità delle lavoratrici e dei lavoratori: mancanza di misure e dispositivi di protezione, mansioni svolte con organici inadeguati, aumento insostenibile dei ritmi. Se i governi degli ultimi 15 anni portano la responsabilità morale della tragedia quotidiana delle morti sul lavoro, è certo, a sentire l’intenzione della presidente del Consiglio di “lasciar fare” alle imprese, il governo Meloni, in continuità sodale con i precedenti, farà di peggio. Ma regala ai familiari delle vittime la consulenza psicologica come risarcimento di costi dovuti al profitto pro infortuni, malattie professionali e morti.

Redazione Lavoro e Salute

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