La doppia crisi delle migranti

Le analisi dell’ultima edizione del Dossier statistico immigrazione presentato lo scorso 28 ottobre fanno il punto sugli effetti della crisi pandemica sull’immigrazione in Italia, delineando i contorni di un quadro profondamente mutato, non solo in termini di flussi in ingresso (eccezionalmente ridotti) e di presenze complessive (segnate da un calo generalizzato), ma anche, e per certi versi soprattutto, in relazione alle condizioni di vita e di lavoro delle persone di origine straniera nel paese.

In un contesto in cui la sindemia[1] ha colpito più duramente le fasce più svantaggiate della popolazione, infatti, proprio le persone migranti sono tra quelle che hanno pagato il prezzo più alto. Una considerazione, questa, che si carica di una maggiore criticità nel caso delle donne, tra tutti le più penalizzate, perché pagano lo scotto di un inserimento lavorativo ancora schiacciato su posizioni professionali precarie, poco tutelate e particolarmente colpite dalle misure di contenimento del contagio (oltre che dal contagio stesso). 

È noto come proprio le donne già dagli anni ’70 siano state tra le principali protagoniste dei flussi di migrazione verso l’Italia, flussi poi sempre rinnovati e diversificati, che si riflettono in una presenza forte e poliedrica, che pur nella molteplicità dei modelli migratori di riferimento trova nel “protagonismo” uno dei suoi punti di forza, soprattutto come spinta all’inserimento lavorativo.

Alla fine del 2020, le donne erano poco più della metà (51,9%) di tutti i cittadini stranieri residenti in Italia – oltre 650mila le romene, circa 200mila le albanesi e le marocchine, oltre 175mila le ucraine, quasi 150mila le cinesi e, nell’insieme, si contano 198 provenienze geoculturali diverse. Alla stessa data, le donne rappresentano il 42% degli occupati stranieri, un dato del tutto in linea con quello della popolazione italiana.

Ma se nel caso delle donne italiane bisogna contare 20 diverse professioni per arrivare a coprire la metà di tutte le occupate (10 nel caso degli uomini stranieri), per le donne straniere ne bastano soltanto 3: collaboratrici domestiche, addette al lavoro di cura, addette alla pulizia di uffici ed esercizi commerciali. Con le prime due che, da sole, arrivano a raccogliere ben il 39,7% del totale.

Doppia rispetto alle italiane e superiore rispetto ai connazionali maschi resta anche la percentuale delle sovraistruite. Il 42,3% delle lavoratrici straniere vanta infatti un livello di competenze superiori alle mansioni svolte, a fronte del 24,8% delle donne italiane e del 27,7% degli uomini immigrati.

Ne consegue anche un gap retributivo importante (e persistente), quantificabile in una riduzione media del 29% rispetto alle donne italiane e del 27% rispetto agli uomini stranieri e che attesta medie retributive (897 mensili) che restano basse non solo rispetto al resto degli occupati, ma ancor prima rispetto al costo della vita.

Pochi dati, ma sufficienti a osservare come, nonostante l’ormai lunghissimo processo di inserimento nel mondo del lavoro italiano e un livello di qualifiche e competenze diversificato – e non raramente di alto profilo – i percorsi occupazionali delle donne straniere restino largamente convogliati verso poche, specifiche mansioni, tra le più precarie, le meno tutelate e le più penalizzanti tanto da un punto di vista economico che sociale. Una situazione che, oltre a rimarcare la questione di una mai superata dinamica di “segregazione occupazionale”, le ha rese particolarmente esposte agli effetti destabilizzanti della sindemia.

L’eccezionale calo dell’occupazione che ha segnato il mondo del lavoro italiano nel 2020 (-456mila, -2,0%), infatti, ha riguardato per quasi un quarto del totale le donne straniere (24%), tra cui le occupate sono diminuite di ben il 10,0% (-109mila), tre volte in più rispetto agli uomini stranieri (-3,5%) e oltre sei volte in più rispetto alle donne italiane (-1,6%).

Di riflesso il loro tasso di occupazione è diminuito di 4,9 punti percentuali, ancora un valore più che doppio rispetto agli uomini stranieri (-2,2) e pari a otto volte quello relativo alle donne italiane (-0,6), le quali spesso, proprio grazie al sostegno delle lavoratrici straniere più che per una condivisione paritaria dei ruoli di genere in famiglia, riescono a risolvere le carenze del sistema di welfare e a conciliare le esigenze familiari con quelle professionali.

In forte aumento anche la quota delle sottoccupate, ossia le donne che lavorano meno di quanto vorrebbero: nel 2020 sono il 14,0% tra le straniere (erano l’8,1% nel 2019) e il 9,1% tra le italiane.

In analogia con i lavoratori maschi, ma anche in questo caso in misura accentuata, il forte calo dell’occupazione si è tradotto soprattutto in un incremento di inattività: una dinamica da legare anche alle contingenze specifiche dell’anno pandemico, che ha reso particolarmente difficile cercare, e ancor di più trovare, una nuova occupazione per chi non può svolgere un impiego a distanza, e di cui solo i dati dei prossimi anni sapranno misurare la persistenza. Il tasso di inattività delle donne straniere, in ogni caso, nel 2020 è cresciuto di 6,5 punti percentuali, raggiungendo il 47,2% e superando quello delle italiane (45,1%). 

In un quadro così definito, l’accentuata concentrazione nella collaborazione domestica e familiare non solo ha fortemente limitato la possibilità delle lavoratrici straniere di contare sul blocco dei licenziamenti, ma ne ha anche ridotto l’accesso alla cassa integrazione. Secondo i dati Inps, le donne sono appena il 10,5% dei non comunitari percettori nel 2020 della cassa integrazione ordinaria e il 24,3% di quella straordinaria. La loro quota sale solo nel caso dell’assegno ordinario dei fondi di solidarietà (37,6%) e della cassa integrazione in deroga (41,1%).

Uno specifico approfondimento raccolto nel dossier, inoltre, ha evidenziato come proprio le collaboratrici familiari (insieme alle tante lavoratrici del sistema socio-sanitario) siano state tra le più colpite anche sul piano sanitario e di esposizione al contagio da Covid-19.

Da un lato, infatti, la sindemia ha amplificato il rischio connesso al caregiver’s burden, ossia l’impatto del lavoro di cura sul benessere psico-fisico e sulla qualità della vita delle addette all’ambito dell’assistenza, in quanto al notevole livello di stress già insito in tale attività si è aggiunto quello da rischio di contagio (legato sia alla cura degli assistiti sia alla tutela della propria salute), trasposto anche in termini di preoccupazione per la perdita o la sospensione dell’occupazione; tanto più che solo diversi mesi dopo l’inizio della pandemia il contagio sul posto di lavoro è stato riconosciuto come infortunio dall’Inail e solo nel piano vaccinale di marzo 2021 l’accesso alla vaccinazione prioritaria è stato esteso agli assistenti familiari – peraltro considerando solo gli addetti alla cura di persone con gravi disabilità, escludendo tutti gli altri, addetti alla cura di soggetti comunque “fragili”.

Dall’altro le ha concretamente esposte in misura accentuata alla possibilità di contrarre la malattia. Tra le principali collettività estere in Italia, i tassi di contagio sono stati più alti in quelle maggiormente impegnate nei lavori di cura (come la romena, la peruviana, l’albanese e l’ecuadoriana) e tra i casi di contagio denunciati all’Inail dai lavoratori stranieri (il 14,3% del totale nel 2020), 8 su 10 hanno riguardato le donne.

La sindemia ha dunque amplificato e reso particolarmente evidenti gli effetti marginalizzanti di un modello di canalizzazione occupazionale che continua a schiacciare e le donne di origine migrante su poche e specifiche posizioni occupazionali.

In un contesto generale in cui spesso sono tornati ad aumentare i divari tra italiani e immigrati, essere donna e straniera si è confermata fonte di accresciuta vulnerabilità: un “doppio svantaggio” con chiari riflessi in termini di fragilità socio-economica e di esposizione al rischio di perdita dell’occupazione in un quadro di scarsa tutela. Un rischio su cui la sindemia ha giocato un effetto deflagrante.

Note

[1] Vale a dire gli effetti provocati sulla popolazione dall’interazione tra epidemia sanitaria e disuguaglianze sociali. 

Riferimenti

Centro Studi e Ricerche IDOS in collaborazione con Confronti e Istituto di Studi Politici San Pio V, Dossier Statistico Immigrazione 2021, Ed. Idos, Roma, 2021.

Maria Paola Nanni

9/11/2021 https://www.ingenere.it

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