La febbre liberista e la cura solidale

L’escalation del Coronavirus in Italia, e nel resto del mondo, sta prendendo tutti alla sprovvista, come è logico che sia nel caso di un virus inedito e micidiale come il CoViD19. In una situazione del genere sembra addirittura che debbano essere superate anche le distinzioni politiche, come se non ci fosse più una destra e una sinistra. Come se la vera distinzione dovesse essere quella tra persone responsabili, ossequiose delle disposizioni emergenziali, e gli irresponsabili, quelli che alla prima notizia di «zona rossa» fuggono alla rinfusa in cerca del primo treno disponibile.

La distinzione, è bene sottolinearlo, è corretta: di fronte a una situazione inedita in cui la massiccia diffusione del contagio è dimostrata anche dall’alto numero di personalità politiche e istituzionali coinvolte non esistono soluzioni adeguate se non quella di proteggersi e quindi proteggere gli altri, contribuire al contenimento del contagio, garantire comportamenti in linea con le prescrizioni scientifiche. E del resto, il fisico Giorgio Parisi nota che se non si attuassero misure di contenimento, come quelle applicate in Cina, il numero dei morti in Italia supererebbe quello cinese (e probabilmente lo supererà), ma soprattutto «tutti gli italiani sarebbero contagiati in cinque settimane». Uno dei modi con cui seguire l’evolversi della situazione è in effetti l’andamento matematico dei dati offerti ogni giorno dalla Protezione civile e in questa pagina Facebook c’è un utile servizio di confronto dei numeri e di comprensione del livello di espansione del fenomeno. Bisogna preoccuparsi, dunque, evitare comportamenti a rischio, stare tendenzialmente a casa, seguire le istruzioni. Bene.

Ma applicare correttamente le indicazioni pubbliche non è cosa semplice, non è un dato neutrale, e le politiche che si stanno scegliendo non sono asettiche. Soprattutto non è indifferente capire, per quanto il problema non possa essere affrontato nell’emergenza, il peso delle scelte politiche ed economiche di circa un quarantennio. Perché solo se si faranno tutti i conti, anche nel vivo dell’emergenza, si potranno assumere scelte adeguate, convincenti e quindi passibili della massima collaborazione.

E i conti ci dicono che il libero mercato mostra tutti i suoi danni proprio di fronte alle gravi emergenze, si rende un ostacolo quando c’è da proteggere la salute e la vita soprattutto dei più deboli a cui, invece, si appresta a far pagare i costi dell’emergenza. In questi giorni si esalta spesso la modalità con cui la Cina ha gestito la situazione rimarcando che, ovviamente, non si può seguire pedissequamente il comportamento di un paese autoritario. Ma si fa finta di non vedere quel che c’è di buono in Cina: una gestione coordinata, una responsabilità diretta dello Stato e un rapporto tra la politica e l’economia in cui questa, in tempi di crisi, deve cedere il passo alla prima. Per cui si ha la forza di fermare anche la produzione se serve a frenare il contagio. Lo si può fare solo in uno Stato autoritario? Tutto quello in cui crediamo e la battaglia politica che conduciamo in realtà ci dicono di no: si può fare in uno Stato democratico, anzi in uno Stato in cui la democrazia si spinge al punto da rendere protagonisti in suoi cittadini.

Questo rimanda a un altro aspetto. L’emergenza determina una paura inedita e la paura ci isola e ci costringe al silenzio. Non possiamo proporre, evidentemente, di scendere nelle strade o di fare assemblee o di riunirci a piccoli gruppi. Dobbiamo però trovare le forme di parlare tra di noi e di capire come affermare un punto di vista diverso e di come attivare iniziative di solidarietà e di contrasto alla paura. A maggior ragione visto che il nuovo numero di Jacobin è dedicato proprio alla Politica della paura.

Il peso del liberismo

Il primo dato che appare agli occhi è che c’è voluta un’emergenza con migliaia di morti a livello internazionale, che non faranno che aumentare, per capire la centralità di istituzioni come la sanità, la scuola, l’educazione civica, intesa come capacità di responsabilizzazione e di partecipazione, aspetto su cui torneremo dopo.

Ancora qualche giorno fa un «cervello» economico del renzismo, il deputato Luigi Marattin, ha ingaggiato una battaglia sui social (qui il suo profilo Twitter) per sostenere che «un paese serio, durante un’emergenza sanitaria del genere, non racconta che ‘ci sono stati 37 mld di tagli alla sanità’ solo perché fa figo dirlo. Ma affronta il tema con un approccio diverso. Meno ‘sexy’, forse. Ma più serio e utile». La tesi è che i fondi alla sanità non sono stati «tagliati» ma che in realtà si è verificato un «mancato aumento».

L’intemerata è stata lanciata contro l’analisi divulgata opportunamente, nel momento di massima attenzione sanitaria, dalla fondazione Gimbe: «Nel periodo 2010-2019 – si legge nell’ultimo rapporto – sono stati sottratti al Servizio sanitario poco più di € 37 miliardi, di cui circa € 25 miliardi nel 2010-2015 per la sommatoria di varie manovre finanziarie e € 12,11 miliardi nel 2015-2019 per la continua rideterminazione al ribasso dei livelli programmati di finanziamento». Dati inoppugnabili che vengono ribaditi subito dopo: «Il rapporto spesa sanitaria/Pil si riduce infatti dal 6,6% nel 2019-2020 al 6,5% nel 2021 e al 6,4% nel 2022. A seguito di questo imponente e progressivo definanziamento, la spesa sanitaria in Italia è ormai vicina a quella dei paesi dell’Europa Orientale: la percentuale del Pil destinato alla spesa sanitaria totale nel 2017 è di poco superiore alla media Ocse (8,9% vs 8,8%) e vede l’Italia fanalino di coda insieme a Spagna e Irlanda tra i paesi dell’Europa occidentale».

Se prendiamo di petto un deputato come Marattin non è perché abbiamo particolare stima del suo partito, Italia Viva, o perché pensiamo sia particolarmente pericoloso, ma perché da voce a un approccio su cui in questi giorni sarà posta la sordina. Ma è un approccio che riemergerà e soprattutto è stato dominante negli ultimi quarant’anni, da quando il neoliberismo ha conquistato l’egemonia politica e culturale.

È in tempi come questi che servirebbe redigere una lista di tutti coloro che hanno decantato e applicato le privatizzazioni dei servizi pubblici fondamentali, esaltando il libero mercato, il primato della competitività come valvola cruciale nell’erogare servizi essenziali. In un gioco di memoria si potrebbe risalire agli anni Ottanta quando la gestione craxiana affermava un inedito «arrangiatevi» rivolto ai giovani in cerca di lavoro e lo Stato un po’ alla volta veniva sacrificato a una gestione criminale del debito pubblico; si potrebbero ricordare i fasti di Maastricht e l’agnello sacrificale del parametro deficit/Pil a cui si sono consacrati i gangli vitali dello Stato, la sanità, le pensioni, la scuola; si potrebbero ripercorrere tutti i cantori delle privatizzazioni, spesso anche collusi con le «merchant bank» che da quelle procedure hanno fatturato miliardi di profitti, gli esagitati della «eccellente sanità lombarda» a base di convenzioni delle cliniche private con le Regioni da cui sono stati dispensati miliardi in cambio del taglio dei pronto soccorso e dell’aumento indiscriminato dei ticket sanitari.

Oggi ci accorgiamo che invece la sanità pubblica costituisce la spina dorsale di uno Stato. Come ricorda Ken Loach nel bel film The spirit of ’45 la vera protezione, l’unica sicurezza a cui i lavoratori, le lavoratrici, i e le più deboli possono aspirare è lo Stato sociale, perno vitale di una comunità progressiva. Esattamente quello che è stato preso di mira dal neoliberismo armato dal capitalismo finanziario internazionale con il quale tanta parte della sinistra ex socialdemocratica ha deciso di colludere. Questo è il punto centrale della critica al «blairismo» e, si parva licet, al «renzismo» in Italia che una parte della sinistra ancora in piedi conduce derisa e costretta a scansare l’accusa di populismo. Come succede a Bernie Sanders negli Usa o è successo a Jeremy Corbyn in Gran Bretagna.

Ma ci sono momenti in cui la realtà si impone, sia pure drammaticamente, e il governo è costretto in fretta e furia ad assumere, sia pure a tempo determinato, 5.000 medici e 10.000 infermieri. Nonostante negli ultimi anni si sia dovuto assistere alla follia, anch’essa liberista, del numero chiuso nelle facoltà di medicina. Misura difesa e propagandata dai corifei di un sistema che, ricordiamolo, ancora non ha pagato pegno per la grande crisi del 2007-2008.

E in questi giorni si prende atto di quanto sarebbe utile una scuola dotata di mezzi tecnici all’altezza delle potenzialità tecnologiche e con insegnanti davvero motivati e capaci di gestire situazioni di emergenza, di infondere passione civile e impegno sociale verso studenti costretti a non frequentare. La grande ipocrisia, contenuta nel decreto emanato dal governo l’8 marzo che parla della «facoltà di predisporre lezioni a distanza» nella pratica concreta si sta traducendo nell’invio via sms o mail dei compiti da fare a casa. Nessuna lezione davvero a distanza viene tenuta, se non in un numero sporadico di casi, e soprattutto una parte significativa del territorio non è nemmeno servita da connessioni in grado di garantire una tale eventualità. Anche qui, tagli continui alla scuola, in ossequio ai parametri europei e a scelte politiche che storicamente hanno privilegiato la riduzione delle tasse e i vantaggi per i redditi più alti.

Si potrebbe continuare con la formazione del personale pubblico, ridotto anche in numeri assoluti per via del blocco del turnover sancito nel 2010 e mai disattivato, l’anzianità dei funzionari, l’assenza di formazione e di gestione coordinata per far fronte davvero a situazioni di emergenza. Ma la scuola è stata progressivamente sguarnita con una spesa che dal 4,6% del Pil nel 2009 è passata nel 2017 al 3,8 (dati Istat).  Riduzione costante, scientifica e predeterminata.

Eppure è evidente che solo una sanità davvero potente, con posti letto in abbondanza, risorse serie, ospedali capienti, puliti e capaci di stare al passo con la domanda crescente di una società sempre più anziana può proteggerci dall’emergenza. Solo una scuola con professori non precari, seriamente ed economicamente motivati, con strutture moderne, aule informatizzate, può garantire davvero un servizio educativo. E così via. La soppressione dello Stato, la riduzione degli apparati e delle sue funzioni si traduce nell’assenza di appigli quando la marea monta e i ripari non sono più tanto sicuri. Solo la gestione pubblica può garantire l’approvvigionamento rapido ed efficiente dei macchinari sanitari per le terapie intensive solo una produzione pubblica può garantire che nel momento del bisogno compaiano dove servono le mascherine necessarie fornite direttamente alla popolazione (ne sa qualcosa Emmanuel Macron che ha fatto fare subito incetta di mascherine dal governo francese). Solo una gestione efficiente della tassazione con imposte raccolte progressivamente e prelevate da chi ha molto, può garantire l’allocazione ottimale delle risorse.

Questo è il tempo in cui tornano a galla i fondamentali e tra questi c’è la necessità di una tassazione efficiente che punti anche alla messa al bando degli evasori, la centralità di uno Stato sociale che copra davvero i contraenti del patto sociale, la messa al bando di teorie e narrazioni politiche fallimentari come quelle dello Stato «arbitro» della competizione capitalistica, anche la più selvaggia.

Chi paga l’emergenza

È il tempo delle questioni fondamentali anche per quanto riguarda la gestione immediata della crisi e le sue ricadute economiche. Finora nessuno si è posto il problema fondamentale di come gestire la produzione. Possibile che si possano chiudere le scuole, sospendere le messe, chiudere i ristoranti e bar dopo le 18 e lasciare aperti i luoghi di lavoro, pubblici e privati? L’esperienza sul campo e i modelli matematici di progressione del virus cui accennavamo all’inizio dicono chiaramente che occorre sospendere le attività, fermare l’economia per proteggere la salute. E invece nel momento in cui occorreva mettere al servizio delle persone il massimo di competenze e abilità per prevenire e contenere la diffusione del virus abbiamo assistito a una sfacciata dimostrazione di forza da parte delle imprese e dei loro compari – tra cui anche sindaci e dirigenti dell’attuale partito di sinistra – che all’insegna delle «Milano non si ferma» e dell’economia non si può bloccare – con in testa il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia – hanno difeso la libertà di produrre e commerciare in barba alla situazione vigente. Il virus ha spiattellato in forma emergenziale e inconsueta il tema che già è presente nello scontro in atto tra la «vita» del pianeta e le priorità dell’economia capitalistica che non accetta alcuna costrizione ecologica. «La nostra vita contro i loro profitti» dice uno felice slogan della sinistra alternativa. Ma se la vita è messa a rischio in modo così virulento allora il discorso può essere ribaltato. La produzione dovrebbe essere bloccata, se le persone devono restare a casa, devono poterlo fare sul serio. Altrimenti è una farsa.

Ma chi paga il blocco? Il decreto 8 marzo su questo non si pronuncia se non per un dettaglio che sembra ideato direttamente dal diavolo. Il «lavoro agile» previsto dalla legge 22 maggio 2017 «può» essere adottato dai datori di lavoro a cui poi «si raccomanda di favorire la fruizione di periodo di congedo ordinario o di ferie». Il lavoro «agile» che consente di lavorare a distanza, è subordinato all’esistenza di specifici accordi contrattuali in assenza dei quali non può esistere. Uno studio del Politecnico di Milano dello scorso anno stimava in 480 mila i lavoratori già attivati che però sono il 12% di coloro che possiedono i requisiti per fruirne. Quindi siamo lontani anni-luce da una effettiva adozione.

Se si chiudono le fabbriche e i posti di lavoro e si mettono i lavoratori in ferie vuol dire, allora, che il costo delle emergenze sarà scaricato su di loro. Ferie obbligate durante l’emergenza sanitaria (per quanto tempo?) da recuperare in seguito. È chiaro che le aziende interessate non vogliano assumere i costi della drammatica decisione, ma non dovrebbe essere scontato che a pagare siano i loro dipendenti.

Anche qui, insomma, si sconta il problema di come si gestiscono le risorse, chi paga, come si distribuiscono i costi. Se appare inevitabile che le risorse, ingenti, che serviranno a coprire un buco produttivo dalla portata ancora non calcolabile (ma una grandezza di misura dell’ordine del 2-3% del Pil dovrebbe ormai essere assodata, quindi intorno ai 50-60 miliardi) sarà un ampliamento del deficit, le modalità di spesa di quel disavanzo sono decisive. Se si deciderà di privilegiare l’annosa e fallimentare strada della riduzione delle tasse non si farà altro che proseguire per le vie che hanno preparato il disastro. Ma allora servirebbe una discussione su un prelievo una tantum degli enormi profitti accumulati negli anni scorsi grazie anche a un boom di Borsa prolungato. Nel 2019 Banca Intesa, per fare un esempio, ha generato profitti per 4,182 miliardi e l’anno precedente per 4,05 miliardi.

E servirebbe porsi obiettivi straordinari per quanto attiene alle misure. Senza tanti giri di parole, serve l’ampliamento del reddito di cittadinanza per le categorie che si vedranno private del reddito, occorre un monte ore straordinario di ferie, congedi e permessi per affrontare le assenze necessarie, il blocco degli affitti e non solo dei mutui, come ha proposto Matteo Renzi, o delle bollette, un contestuale piano di lavori pubblici per recuperare la crisi.

Quarantene solidali

L’esigenza di dover contenere i danni, proteggere e garantire comportamenti di vita responsabili e solidali non può automaticamente comportare la scelta di un modello autoritario alla cinese. L’alternativa non è tra regime autoritario e stato liberista che, al fondo, può essere più autoritario di qualsiasi regime. Anche qui, in realtà, si sconta la catastrofe culturale di quarant’anni di liberismo sfrenato che ha esaltato la priorità e la bontà dei comportamenti individuali legate al primato della proprietà privata e dell’assolutizzazione delle libertà – «Nella Casa delle libertà facciamo un po’ come c… ci pare» recitava un fortunato sketch comico di Corrado Guzzanti degli anni 2000 a suggello dello spirito del tempo.

Come stupirsi dei comportamenti irresponsabili in un paese che ha esaltato negli ultimi trent’anni l’evasione fiscale, le soluzioni personali a scapito del bene comune, la priorità del profitto sbeffeggiando la solidarietà, l’esaltazione dell’individualismo contro qualsiasi idea di socialità. La scomparsa della sinistra nel nostro Paese è direttamente proporzionale a questa catastrofe politica e culturale (anche per colpa della stessa sinistra) e oggi se ne paga lo scotto.

Una risposta efficace, collettiva, solidale, in cui non ci siano autorità pubbliche che, parternalisticamente, si rivolgano dall’alto ai cittadini per convincerli dei comportamenti etici, può poggiare solo su cittadini organizzati nella gestione del «comune».

Oltre dieci anni fa, al tempo del terremoto in Abruzzo, centri sociali e persone della sinistra abruzzese colsero subito la gestione autoritaria che la nuova Protezione civile di Guido Bertolaso si apprestava ad attuare. Nacquero esperienze come Epicentro solidale per proporre un intervento democratico e partecipato sull’emergenza. Un’esperienza esemplare, limitata, ma che coglieva un punto: non si può solo fermarsi ad aspettare le decisioni, ma occorre partecipare alla messa in atto delle scelte più giuste, contribuire alla gestione della propria emergenza, proteggere le fasce più deboli, garantirsi dai possibili, e prevedibili, soprusi. Serve una «quarantena solidale» fatta di incontri e discussioni a distanza, ma reali, di iniziative di mutuo sostegno e della giusta critica alle decisioni che verranno prese.

Un punto che riguarda noi, variamente collocati a sinistra, che dovremmo smettere di fare da spettatori dell’emergenza e mettere in campo le nostre intelligenze, abilità e capacità di tenuta connettiva per evitare che un’emergenza sanitaria si trasformi in un’emergenza sociale.

Salvatore Cannavò

Vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Da Rousseau alla piattaforma Rousseau (PaperFirst). 

9/3/2020 jacobinitalia.it

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