LA FRANCIA IN PIAZZA…..

«Sto mestiere, la gente non ci va in pensione. Si muore prima, ne abbiamo diversi di colleghi che sono morti così», dice Mekfi, mezzo svaccato sul cofano di una macchina parcheggiata davanti al deposito della Pizzorno, una delle principali aziende di smaltimento dei rifiuti di Parigi. «Pensare che uno spazzino lavori fino a sessantaquattro anni… quelli sono fuori di testa!».

Mekfi, che è autista dei camion della spazzatura, ridacchia, circondato dai colleghi.
Alle sue spalle, si estende un grande parcheggio con decine di grossi camion bianchi, fermi.
I lavoratori del deposito di Vitry, nella banlieue sud-est di Parigi, sono in sciopero dal 7 marzo. Contro la riforma delle pensioni di Macron, «ma soprattutto per il salario», dice un collega del sindacalista. «Durante il Covid ci dicevano che eravamo eroi, ci applaudivano, ora ci trattano come schiavi», riassume Mekfi.

Bloccare il deposito non è stato facile, e ancora in questi giorni non è detto che il picchetto tenga. L’azienda ha fatto venire dei crumiri dal sud della Francia, per provare a far uscire almeno una manciata di camion, riuscendoci solo in parte, approfittando delle ore più mattiniere. Un piccolo gazebo con su scritto no pasaran! serve da punto di ristoro, con solidali, lavoratori e sindacalisti a servire succhi di frutta e caffè. Zucchero e calore, quanto basta per tenere il giorno e la notte.

Da una settimana, tutti gli impianti di smaltimento dei rifiuti intorno a Parigi e ad altre grandi città francesi sono fermi. Franck, uno spazzino (ripeur) tarchiato e con un sorriso cattivo, fa l’elenco dei siti bloccati: scandisce un nome dopo l’altro, Romanville, Ivry, Vincennes, formando una litania che compone la geografia della banlieue immediatamente attaccata alla capitale, una specie di assedio del pattume che pian piano avvolge la città.

Nel frattempo, le strade si riempiono di cassonetti pieni e mucchi di spazzatura si accumulano sui marciapiedi dei bei quartieri. I turisti, increduli, sgambettano tra i rivoli marroncini fuoriusciti dai sacchi neri, misti alla pioggia, mentre altri fanno foto col telefono.

È un movimento strano, questa grande mobilitazione contro la riforma delle pensioni. Ovunque uno punti lo sguardo, c’è un blocco, uno sciopero, un’assemblea. Nelle scuole e nelle aziende private, nelle stazioni e negli aeroporti, nelle centrali elettriche e nelle raffinerie, lavoratori e lavoratrici alzano le braccia, sabotano, staccano la luce ai ricchi o ai partiti di destra riallacciandola ai morosi, si organizzano per tenere i bambini per chi va a manifestare, picchettano, si riuniscono. Eppure, c’è come un’aria di qualcosa che sta finendo. Il movimento è iniziato tardi, a iter legislativo già cominciato, e ancora non ha raggiunto il proprio picco di radicalità che già il governo si appresta a votare una riforma che raramente è stata tanto detestata dalla popolazione francese.
In teoria, il parlamento dovrebbe approvare la riforma, grazie un voto di fiducia particolarmente autoritario.

Questo non vuol dire che la battaglia sia già persa. Anche a voto concluso, se si riesce a “mettere l’economia in ginocchio”, come hanno promesso i sindacati, è possibile ottenere una vittoria – non sarebbe la prima volta. Nel 2006 Jacques Chirac fu costretto a fare marcia indietro sul Cpe (Contrat premier embauche, una sorta di apprendistato), a legge già approvata. Ma ora come ora, è difficile capire dove i vari attori stanno andando a parare.

C’è un décalage tra l’imponenza della mobilitazione, i fatti nuovi e inediti che la caratterizzano, e l’atmosfera grigiastra che aleggia sui cortei.
Da un lato, i numeri sono senza precedenti. Milioni e milioni di persone in tutto il paese, in particolare nei centri di provincia – in questo senso, «si sente che i gilets jaunes sono passati di là», dice il portavoce di un piccolo partito trotzkista durante un corteo, e ha ragione. Quando in posti come Orléans e Chateauroux ci sono migliaia di persone in piazza, si è costretti a riconoscere di essere di fronte a qualcosa di nuovo, o quantomeno di inusuale. Dall’altro, più di due francesi su tre sarebbero d’accordo a bloccare tutto, a paralizzare l’economia, fino a costringere il governo a fare marcia indietro, secondo i sondaggi che increduli editorialisti non cessano di commentare in tivù, chiedendosi, ancora più smarriti, come mai la quasi totalità dei cittadini sia così radicalmente contraria al progetto di Macron di alzare l’età pensionabile di due anni.

E tuttavia, si ha l’impressione di un’impasse generale.
Tra il 2016 e il 2020, la Francia è stata attraversata da grandi conflitti che hanno imposto pratiche politiche, di piazza e di comunicazione innovative e radicali, spesso difficili da controllare e connotare, che davano l’impressione di aver spezzato la consuetudine.
Nella mobilitazione contro la Loi travail di François Hollande, nei gilet gialli e nello sciopero generale del 2019-20 contro il primo tentativo di riforma delle pensioni, si era assistito a una dialettica conflittuale tra basi e vertici, tra centrali sindacali e lavoratori mobilitati, tra movimenti e organizzazioni.
C’era stato molto caos, molti feriti, molta violenza – ma anche qualche risultato: Macron non era riuscito a portare a casa la prima riforma delle pensioni, bloccato dal Covid e da un paese paralizzato dagli scioperi; ed era stato costretto a fuggire in elicottero di fronte agli Champs-Elysées messi a ferro e fuoco dai gilet gialli, prima di concedere svariati miliardi di aiuti e primes.

Per ora, tutto ciò cova sotto le braci.
Le manifestazioni sono tornate a essere quelle di prima: tanta gente, tanta noia, percorsi innocui e lontani dai palazzi del potere e dai suoi simboli. L’unità sindacale è un fatto nuovo e importante – tutti i sindacati, nessuno escluso, sono mobilitati contro la riforma – ma sembra aver precluso una nuova radicalità, incapace di far paura a un governo così autoritario come quello di Macron.
La capacità dei movimenti di far saltare il tavolo nelle assemblee e nelle piazze sembra essere svanita, almeno momentaneamente, stretta tra i servizi d’ordine sindacali e le cariche della polizia.

Mentre sfilo stancamente in uno di questi enormi cortei, l’occhio e l’orecchio prestano attenzione a un camion della Cgt. Sul tetto, un sindacalista col gilet rosso del sindacato lancia il coro storico dei gilet gialli: “On est là / même si Macron ne veut pas nous on est là / pour lhonneur des travailleurs / et pour un monde meilleur / même si Macron ne veut pas nous on est là” [siamo qua / anche se Macron non vuole, siamo qua / per l’onore dei lavoratori / e per un mondo migliore / anche se Macron non vuole siamo qua]. Non riesce a finire le prime sillabe, tanto la piazza intona il canto all’unisono, coprendo completamente qualunque altro suono.

Non è scontato che la gente canti con così tanto trasporto. Cioè, ora lo è. Ma anni fa, non lo era per niente, che questo coro divenisse lo slogan di oggi. Il refrain dei gilet gialli, a differenza di altri, è per forza di cose legato al periodo presente: alla presidenza di Emmanuel Macron, l’uomo di destra più contraddittorio dato in dote al nostro tempo. Il più giovane di sempre, eppure con delle idee così antiquate.
L’uomo che voleva riaffermare la fiducia dei francesi nei confronti delle istituzioni distruggendo il sistema dei partiti, per poi relegare all’insignificanza i corpi intermedi e il dialogo sociale, rivelandosi il presidente più autoritario dai tempi di De Gaulle.
Il politico nuovo, che prometteva una presidenza esemplare, salvo poi essere uno dei governi più colpiti da scandali di corruzione (per dire, l’attuale ministro degli interni Gérald Darmanin è accusato di aver estorto dei favori sessuali a una donna in cambio di una casa popolare, quando era sindaco di una piccola città).
Soprattutto, Macron era quello che avrebbe dovuto sconfiggere una volta per tutte l’estrema destra. E invece, la famiglia Le Pen non è mai sembrata così forte, il suo consenso mai così largo, la sua avanzata mai così inesorabile.

Macron era stato eletto sull’ondata di un sentimento non dissimile dal renzismo, con l’idea di essere un disrupteur, che poi si potrebbe benissimo tradurre con “rottamatore”. In questo senso, Macron è un Renzi che ce l’ha fatta. Per farcela, ha portato il paese a un punto di rottura, con i gilets jaunes che assaltano l’Eliseo, l’estrema destra a un passo dal potere, l’intero fronte  sindacale a fare le barricate e una polizia scatenata, razzista e violenta, armata fino ai denti a tenere botta per strada, accecando e mutilando la popolazione civile.

Il 15 marzo c’è stata un’altra “grande” giornata: sciopero generale, in vista del voto del parlamento sulla riforma delle pensioni. Chissà, forse sarà l’inizio di una fase nuova del movimento, di un inasprimento della mobilitazione, che costringerà i sindacati a esercitare una maggiore attenzione alle battaglie per i salari che muove quasi ogni picchetto, e che spesso mobilitano ben più del blocco della riforma.
Chissà, magari saranno proprio Mekfi e i suoi compagni, che hanno annunciato il blocco dei rifiuti fino al 20 marzo, a inaugurare il necessario superamento della moderazione delle organizzazioni sindacali. O forse, sarà l’inizio della più grande sconfitta di sempre, prodromo al successo dell’estrema destra, che aspetta, paziente, il suo momento.

Filippo Ortona

15/3/2023 https://napolimonitor.it

Immagine in Home page: disegno di renaud eymony

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *