La guerra ai giovani

In un ennesimo, alienante pomeriggio di tarda pandemia ho ascoltato su YouTube una recente conferenza di Umberto Galimberti dal titolo La marginalizzazione dell’uomo nell’età della tecnica. Galimberti è un noto filosofo, psicoanalista, accademico e giornalista de La Repubblica. Ovviamente, per uomo Galimberti intende gli esseri umani, e d’altronde tra le numerosissime citazioni della sua dissertazione vi sono solamente autori di sesso maschile. Al minuto 32 del video dice: 

Il livello culturale italiano è così basso che non si leggono più libri un pochino più seri di quanto non siano le cinquanta sfumature di grigio. E allora questo è un grosso problema. Non dimentichiamo che l’Ocse l’anno scorso ha detto che il 70% degli italiani non capisce quello che legge. Settanta eh. Cioè sa leggere ma non capisce cosa sta leggendo. E quest’anno, la statistica che è stata fatta sui promossi di terza media: uno su tre non capisce la connessione fra una proposizione principale e una secondaria. Promossi tutti naturalmente, se no si ricorre al Tar. I genitori, che dovrebbero essere espulsi dalla scuola, ricorrono al Tar. Perché a loro non interessa la formazione dei loro figli, interessa unicamente la promozione. E così la meritocrazia va a farsi benedire. 

Tra i filosofi uomini che Galimberti cita nella sua conferenza non c’è però Franco Berardi Bifo, il quale da circa un decennio pone la questione in tutt’altri termini. Secondo Bifo, la nostra epoca è caratterizzata da un ispessimento dell’infosfera, ovvero da un aumento esponenziale delle informazioni presenti nello spazio semantico a nostra disposizione e della loro rapidità. Al tempo stesso, l’essere umano e il suo cervello non riescono a stare al passo con la velocità e l’intensità dell’info-stimolazione contemporanea e soffrono dell’incapacità biologica di elaborazione delle informazioni frenetiche e vorticose a cui sono sottoposti. La conseguenza è per Bifo un’involuzione della capacità critica: «la tempesta di info-stimolazione confonde la nostra intelligenza e ci chiudiamo in reti di auto-conferma di quel che crediamo di sapere». La regressione culturale su cui polemizza Galimberti non sarebbe quindi da imputare a genitori irresponsabili che ostacolano il normale funzionamento di un sistema meritocratico, né all’aumento della circolazione di fake-news come i ritornelli mainstream ci indurrebbero a pensare, e neppure alla generazione pigra e negligente che troppo spesso ci viene venduta ma è, piuttosto, «un effetto dell’incapacità di elaborare distinzioni critiche da parte della mente sociale».

In aggiunta alle condizioni di saturazione info-nervosa date dall’espansione dell’infosfera, citando sempre Bifo, anche la qualità dell’educazione che viene offerta alle nuove generazioni ha subito un crollo verticale. Il susseguirsi di riforme neoliberali della fine del secolo scorso ha avuto il suo culmine in campo accademico con la firma della Carta di Bologna nel 1999, atto che ha sancito l’intenzione dei paesi europei di correggere i percorsi scolastici in funzione dell’inserimento nel mercato economico, di produzione e di occupazione. Si è così sancito il principio secondo il quale l’apprendimento scolastico e accademico pregevole e conforme alla norma è esclusivamente quello che fornisce strumenti pratici implementabili in campi disciplinari redditizi, ovvero l’economia e le cosiddette Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Accanto alla svalutazione progressiva delle materie umanistiche sia in termini retorici che di allocazione di risorse, il nuovo sistema sancito dalla Carta di Bologna si pone all’insegna dell’efficienza dei rendimenti: sempre meno risorse alla scuola pubblica, tagli e precarizzazione dell’insegnamento, privatizzazione. Come lo stesso Galimberti sostiene, la storia, la letteratura e la filosofia non fanno fatturare, e nel pieno dei processi di privatizzazione e di definanziamento vengono deprezzate perché non producono denaro nel senso in cui lo fanno le Stem. Nel 1999 il profitto è entrato a gamba tesa nell’idea di istruzione diventandone il criterio primario. Le risorse educative e cognitive sono state sventrate da chi ha individuato nella preparazione delle nuove generazioni delle opportunità di generare direttamente profitto, e non cultura. Tornando sulla terminologia proposta da Bifo, la standardizzazione delle procedure di insegnamento si è tradotta in una formattazione del sistema cognitivo. 

La macchiettistica interpretazione fatta di figli svogliati che non riescono a comprendere un testo e genitori pronti ad azioni legali in caso di bocciatura ha invece il sapore di victim blaming, la stessa logica secondo cui in un caso di stupro è importante soffermarsi sull’abbigliamento della vittima per rintracciarvi un nesso causale con l’abuso sessuale. La colpevolizzazione sistematica delle nuove generazioni non è certo una novità in un paese in cui la spiegazione più immediata della disoccupazione giovanile è che i ragazzi di oggi non hanno voglia di fare sacrifici. Sono passati quasi dieci anni da quando l’ex ministra del lavoro Elsa Fornero, di fronte alle drammatiche conseguenze di una crisi economica originata interamente da speculazioni finanziarie, parlava di «ragazzi choosy». Tale narrazione colpevolizzante verso i giovani è diventata di senso comune e l’ultimo anno di pandemia ha indubbiamente esasperato questa tendenza. Tutti gli attacchi alla cosiddetta movida, a livello istituzionale come a livello mediatico, si riferiscono con tono rimproverante ad attività di svago considerate irresponsabili, mentre solo le attività lavorative si salvano dalla demonizzazione.

Immersi in quest’etica protestante 4.0, mentre decine di migliaia di giovani rider seguono le indicazioni di un algoritmo per portarci la cena a casa (arricchendo qualche miliardario a capo delle aziende-app intermediarie), i fantomatici giovani con lo spritz in mano sono il perfetto capro espiatorio, il prototipo della sconsideratezza egoista di una generazione che raramente rischia le conseguenze più gravi del Covid ma mette in pericolo i più fragili. 

La descrizione dei giovani come a malapena in grado di comprendere ciò che leggono e l’eloquenza dei dati riportati da Garimberti inducono perfino a interrogarsi su cosa significhi comprendere un testo, entrando così nel campo della semiotica. Già più di quarant’anni fa, Stuart Hall sottolineava che il rapporto tra comunicazione testuale e interpretazione è il risultato di una complessa attività di negoziazione che interviene tra testo e lettore e che risente delle variabili sociali, politiche, economiche e culturali proprie del contesto in cui avviene questa negoziazione. Dunque, chi sancisce la corretta comprensione di un testo? 

Molti ricorderanno l’imbarazzante scena dell’allora ministro dell’economia Pier Carlo Padoan che, nel 2016, durante una nota trasmissione tv, ammise in evidente difficoltà di non sapere quanto costassero un litro di latte, un litro di benzina o una retta di asilo nido. È curioso che a incalzarlo fosse Matteo Salvini, segno desolante di una destra travestita da popolare a cui è stato lasciato interamente, almeno a livello parlamentare, il campo della critica anche solo retorica (in chiave nazionalista, ça va sans dire) verso le svolte più neoliberiste delle istituzioni europee. Ma ciò che è rilevante sottolineare è che l’ex ministro Padoan, il quale vanta peraltro una lunga carriera in campo accademico, sarebbe certamente valutato capace di comprendere correttamente un qualsiasi testo di economia: eppure, come potrebbe capirne le implicazioni profonde senza avere idea del costo di beni e servizi di prima necessità? 

Nella settimana tra il 20 e il 27 Settembre 2019, poco prima dello scoppio della pandemia, più di un milione e mezzo di giovani sono scesi in piazza in Italia prendendo parte alla protesta internazionale Global Climate Strike. Tutti loro, o quasi, incapaci di comprendere un testo? Stando alle statistiche riportate da Galimberti sembrerebbe così. Eppure sono ben in grado di cogliere le implicazioni più profonde del sistema socioeconomico in cui viviamo, che produce la distruzione sistematica degli ecosistemi. Ecco allora una plausibile ipotesi alla lettura dei dati di analfabetismo funzionale riportata da Galimberti: la corretta comprensione di un testo si ha quando si aderisce al paradigma, al sistema ideologico e di valori dell’emittente. I milioni di giovani che scendono in piazza con Fridays for future mostrano semplicemente un pensiero non allineato, nonostante le pesanti lacune e mancanze di un sistema che spesso li valuta senza ispirarli. Si potrebbe ipotizzare che Umberto Eco li avrebbe definiti «interpretanti energetici», gli unici in grado di dare concretezza al fenomeno della semiosi illimitata, ossia il processo di continua riformulabilità dei significati dei segni. Fu Eco a distinguere infatti tra «interpretante emotivo», le cui interpretazioni hanno conseguenze che restano nel campo della modifica delle rappresentazioni, e «interpretante energetico», che è invece quello che «produce un cambiamento d’abitudine». L’interpretante energetico è quindi per Eco l’interpretante finale, che pone fine allo spogliarello continuo del significato producendo un risultato pratico. Mentre la dilagante retorica dello sviluppo sostenibile e della green growth ci intrappola nel realismo capitalista affinché nulla cambi sostanzialmente, scendere in piazza per cercare di fermare la devastazione del pianeta è una modalità di comprensione che probabilmente sfugge all’analisi di coloro che cercano capri espiatori tra le nuove generazioni. 

Il paradigma che guida le affermazioni di Galimberti, come lui stesso dichiara, è quello della meritocrazia: «e, così, la meritocrazia va a farsi benedire». Ma se la corretta comprensione di un testo si ha quando si aderisce al paradigma prestabilito, al sistema ideologico e di valori dell’emittente, ragionare in termini meritocratici risulta privo di senso. Se mai possa esistere una qualche forma di meritocrazia, non può emergere in un sistema autoreferenziale come quello capitalista. 

Post-scriptum. Basta una rapida ricerca su Google per rendersi conto che le statistiche pubblicate da Ocse-Pisa sono ben diverse da quelle citate da Galimberti. Non solo ci dicono che in Italia il 77% degli studenti ha raggiunto almeno il livello 2 di competenza in lettura (media Ocse: 77%), ma suggeriscono anche una correlazione tra divario socioeconomico e performance degli studenti. «Gli studenti socio-economicamente avvantaggiati hanno ottenuto risultati migliori rispetto agli studenti svantaggiati di 75 punti in lettura». Forse questo sarebbe un dato più interessante su cui ragionare. 

Filippo Faraotti è studente magistrale all’università di Roskilde in Danimarca, dove vive da tre anni. Internazionalista per vocazione, femminista per tentativi, post-lavorista e cameriere, si è laureato in comunicazione a Bologna con tesi in filosofia politica. 

21/5/2021https://jacobinitalia.it

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