La guerra giudiziaria contro la sinistra

Le immagini dell’assalto alle istituzioni brasiliane dei giorni scorsi da parte di sostenitori di Jair Bolsonaro hanno ricollocato il golpismo di destra come una questione centrale della politica internazionale. Uoa dei temi maggiormente affrontati è quello della radicalizzazione di una parte importante della popolazione brasiliana, sempre meno legata ai valori democratici e addirittura propensa a richiedere un intervento militare. Tuttavia, il passaggio che sembra essere dimenticato è quello riguardante la persecuzione giudiziaria che Lula da Silva ha sofferto per anni: 580 giorni di carcere e l’impossibilità di presentarsi alle elezioni del 2018 non per via dell’estremismo delle orde bolsonariste, ma di un piano elaborato da parte di settori conservatori del potere giudiziario, economico e massmediatico. È stato in nome della guerra alla corruzione e al rispetto della legge che Lula è stato rimosso dall’arena politica. E la mobilizzazione e l’aggressività di ampi settori della popolazione nei suoi confronti (al punto di votare un soggetto per anni ai margini della politica come Bolsonaro) mai sarebbero stati possibili senza la campagna denigratoria contro di lui lanciata dai grandi mezzi di comunicazione. 

Per definire la persecuzione giudiziaria e massmediatica nei confronti dei dirigenti della sinistra si utilizza sempre più spesso, specie in America Latina, il termine lawfare. Personalità come la vicepresidente argentina Cristina Fernández e l’ex-Presidente ecuadoriano Rafael Correa – o come Pablo Iglesias e Podemos in Spagna – hanno denunciato l’applicazione di questa strategia giudiziaria nei loro confronti per indebolirli politicamente. La politologa dell’Università Autonoma di Barcellona, Arantxa Tirado, ha pubblicato un libro, Lawfare. Golpes de estado en nombre de la ley (Akal, 2021), in cui individua i caratteri fondamentali di questo concetto. Su questo suo lavoro Arantxa Tirado ha risposto ad alcune domande di Jacobin Italia.

Il potere giudiziario da sempre viene utilizzato per colpire le mobilitazioni di movimenti e sindacati. Cosa c’è di diverso nel concetto di lawfare per essere considerato come una nuova forma di golpismo?

Innanzitutto farei una premessa. Di solito si pensa, in totale buona fede, che la giustizia sia qualcosa di asettico, un quadro di convivenza che vale per tutti a prescindere dalle divisioni di classe. Tuttavia, la sinistra dovrebbe aver chiaro che il diritto possiede una chiara connotazione di classe. Il lawfare è una strategia che colpisce non solo gli attivisti che si muovono ai margini del sistema, ma anche figure politiche che sono al centro di esso. Si passa, dunque, da un uso della legge per neutralizzare nemici politici «minori» per il loro impatto politico e mediatico a personaggi che rappresentano il vertice di una forza politica o finanche dello Stato. È importante capire che il lawfare nasce nell’ambito militare degli Stati uniti, quale strategia che cerca di usare la giustizia come arma di guerra, ovvero raggiungere obiettivi militari come l’abbattimento di un nemico politico, ma senza lasciare tracce di sangue. Si evita così il colpo di stato o l’intervento militare diretto come è avvenuto in altri momenti storici. Ad ogni modo si tratta di un concetto aperto al dibattito, non esiste una definizione unica di lawfare

Da parte degli Usa come avviene questo passaggio dall’intervento armato (diretto o attraverso operazioni terroriste come il Piano Condor) a quello giudiziario? Quali sono le ragioni di questo cambiamento? Mi viene in mente come anni fa Noam Chomsky arrivò a dire che il terrorismo dei Contras in Nicaragua era comunque meglio che il bombardamento a tappeto del Vietnam…

Il modo di «fare» la guerra è cambiato nel tempo. La riflessione di Chomsky ha a che fare con come la guerra impatta nella società e oggi i popoli hanno un grado di coscienza maggiore che rende più difficili le azioni del passato nelle quali arrivavano i marines e rimuovevano i presidenti non graditi. L’intervento armato in Iraq, per esempio, ha generato un’immensa reazione sociale. Per tutti si trattava di un conflitto imperialista per il petrolio e queste reazioni hanno determinato la necessità di trovare strumenti che provocassero minore protesta popolare. Allo stesso tempo la paura di una guerra mondiale autodistruttiva (come possiamo vedere anche in questi mesi) rende più tiepidi il supporto a interventi diretti. Il lawfare è il tentativo di costruire una sorta di «golpismo pulito», più sofisticato, grazie a strumenti giuridici e cause legali che godono di ampio supporto, come la lotta alla corruzione. È una tattica che nasce nel quadro della «guerra ibrida», ovvero una strategia militare che usa differenti strumenti di guerra non convenzionale, cioè non direttamente armati ma legati a obiettivi militari. Ciò nonostante, una cosa non nega l’altra. Pochi giorni fa abbiamo assistito a un tentativo apparentemente golpista in Brasile, ma non dimentichiamoci il colpo di stato «costituzionale» con partecipazione militare del 2009 che rimosse Manuel Zelaya dalla presidenza dell’Honduras o quello militare del 2019 in Bolivia contro Evo Morales dopo accuse di frode elettorale. Il golpismo di tipo armato non appartiene al passato, anche se oggi può presentarsi in forme diverse.

Hai citato la corruzione ma c’è anche il narcotraffico. Nel tuo libro parli a lungo di come la lotta per debellare questi fenomeni sia diventato un espediente usato, da un lato, dagli Stati uniti per giustificare l’ingerenza giudiziaria negli affari di altri Stati e condizionare la sua politica e, dall’altro, da giudici conservatori intenzionati a fermare l’azione politica dei leader progressisti (Lula e Cristina Fernández sono solo i casi più famosi). Come progressista, in che modo credi che si possa realizzare una battaglia contro il crimine senza cedere a questi usi strumentali da parte della destra?

Questo è un tema fondamentale. Attaccare i dirigenti di sinistra denunciando la loro presunta corruzione è uno dei punti di maggiore forza del lawfare. Ciò genera simpatia da parte di molta gente che, ovviamente, è contraria alla corruzione. Ciò nonostante, per sconfiggere questo problema, si deve prima capire quando siamo davvero davanti a una lotta alla corruzione e quando questo tema viene usato strumentalmente. I problemi sono diversi. Ne cito tre. 

In primo luogo, la corruzione non è trattata allo stesso modo. Certamente, si tratta di un fenomeno ampiamente diffuso in America Latina e nei Caraibi, non solo tra le classi dominanti ma anche nella vita di ogni giorno, dove vi sono dinamiche intrinseche dalle quali è difficile uscire. Ma in questa lotta contro la corruzione si rafforzano pregiudizi verso le zone periferiche del mondo, ignorando che la corruzione è anche un fenomeno globale intrinseco al capitalismo. 

In secondo luogo, la lotta contro la corruzione in America Latina è stata esercitata con una chiara intenzionalità politica contro i leader di sinistra. Spesso si tratta di operazioni costruite ad arte con ben pochi fondamenti, con grandi abusi da parte dei giudici che realizzano le indagini e in sinergia con il potere mass-mediatico che dà credibilità esclusiva agli accusatori, annullando la presunzione d’innocenza. Il caso di Lula da Silva in Brasile è stato paradigmatico. Non si tratta di giustificare il Partito dei Lavoratori, sicuramente invischiato in fenomeni di corruzione – come tutte le altre forze politiche, tra l’altro –, ma da qui a dare a Lula del corrotto senza alcun elemento, ci vorrebbero delle prove. Infatti, il Supremo Tribunale Federale del Brasile ha annullato le condanne a Lula per il caso Lava Jato e il giudice, Sergio Moro, successivamente nominato da Jair Bolsonaro come Ministro della Giustizia, è ora indagato per essere stato di parte. 

E riguardo all’ingerenza degli Stati uniti?

Questo è il terzo punto critico. È preoccupante il modo in cui gli Stati uniti concettualizzano la corruzione. In un documento interno dell’Fbi si afferma che essa «conduce alla mancanza di fiducia nel Governo. La mancanza di fiducia nel Governo conduce agli Stati falliti. E gli Stati falliti conducono al terrorismo e a problemi di sicurezza internazionale». Secondo l’Fbi qualsiasi caso di corruzione, anche se si verifica in terzi paesi, è una minaccia agli interessi statunitensi e, quindi, una potenziale causa di ingerenza in altri paesi. Attraverso leggi extra-territoriali, come la «Legge sulle pratiche di corruzione all’estero», gli Stati uniti si arrogano il diritto di intervenire. Andrebbe poi chiarito cosa si intende per «Stati falliti». Anni fa lo stesso Chomsky sottolineò come la costruzione del concetto di «Stato fallito» era utile per giustificare la necessità degli interventi degli Stati uniti. 

L’Italia è un paese dove negli ultimi trent’anni l’attacco alla magistratura è partito fondamentalmente dalla destra berlusconiana. Tu spesso sottolinei come sia importante non confondere la guerra giudiziaria con la giusta persecuzione di casi corruttivi commessi da politici. Quindi, ti chiederei che cosa non è il lawfare.

Innanzitutto, la prosecuzione giudiziaria a un politico non è necessariamente lawfare. Se vi sono elementi solidi per accusare un politico (di destra o di sinistra) di corruzione, è giusto che ci sia un’indagine ed eventualmente una condanna. Purtroppo, i politici di destra e il potere economico in generale non sono così perseguiti come la sinistra e, quando lo sono stati, non hanno accettato di essere messi sotto processo e hanno fatto di tutto per evitarlo. Allo stesso tempo, non si può denunciare, come invece avviene, l’esistenza di lawfare in casi come quello dell’ex-Presidentessa della Bolivia Jeanine Añez, per la sua partecipazione al colpo di stato del 2019. I poteri egemonici che sono dietro il lawfare non sono contro di lei, ma a favore suo. Per me l’elemento chiave per poter parlare di lawfare è comprenderlo come uno strumento che serve alla volontà degli Stati uniti di tenere sotto controllo geopolitico la sfera latino-americana e caraibica e, pertanto, bloccare le esperienze di trasformazione sociale – come quelle di Lula da Silva, Cristina Fernández o Rafael Correa – la cui unica colpa è stata quella di aver cercato di redistribuire la ricchezza e di impostare le proprie politiche secondo una logica sovranista e multipolare. Il lawfare in America Latina ha un aspetto geopolitico chiaro e la destra latino-americana è stata sempre alleata degli interessi statunitensi. Per riassumere, se un leader politico è perseguito giudiziariamente perché ha sfidato gli interessi – nazionali o internazionali – dei poteri egemonici, subisce una campagna di discredito dei mass media e vengono fabbricate cause giudiziarie infondate contro di lui, allora siamo davanti al lawfare. Se non è così, si tratta di un processo giudiziario ordinario, ma non di guerra giudiziaria. 

E perché è proprio l’America Latina la zona del mondo dove si concentra maggiormente la guerra giudiziaria?

Perché l’America Latina rappresenta l’area naturale di influenza ed espansione della principale potenza egemonica nel sistema internazionale e anche perché, negli ultimi vent’anni, vi è stata una grande trasformazione geopolitica. In America Latina, gli Usa sono da sempre abituati a fare e disfare, a mettere e fare cadere governi. Hanno iniziato duecento anni fa con la Dottrina Monroe e avviene ancora oggi. L’America Latina è anche il luogo in cui si sperimentano nuove strategie di destabilizzazione politica. Non c’è soltanto il lawfare; si pensi a quanto accaduto in Venezuela, in merito al riconoscimento di un presidente fittizio come Guaidó. A questo si aggiunge il fatto che dall’elezione di Hugo Chávez in Venezuela, nel 1998, c’è stata una svolta geopolitica nella regione, sono nati molti governi progressisti con una politica estera diversificata e maggiormente attenti alla difesa dello sfruttamento sovrano delle loro risorse e, inoltre, sono stati creati strumenti di concertazione politica come la Celac, la Unasur o l’Alba-Tcp. Infine, è entrata in scena la Cina, rilevantissimo socio commerciale di molti paesi dell’America Latina e vi è in corso una lotta per accaparrarsi risorse fondamentali come il litio e le terre rare. Il colpo di stato in Bolivia del 2019 è legato alla lotta per queste risorse.

Pochi giorni fa abbiamo assistito all’assalto alle istituzioni brasiliane da parte di attivisti legati all’estrema destra, una scena che ci ricorda come il rischio di golpismo militare non sia affatto scomparso. Che lezioni possiamo trarre dalla vicenda di Lula da Silva, dapprima perseguitato e condannato e infine rilasciato e finanche eletto alla presidenza?

In primo luogo, possiamo affermare che in Brasile il processo di lawfare è fallito. Ha sì impedito la rielezione di Lula nel 2018, ma non è riuscito a fermarlo la seconda volta, nonostante tutto l’operato del potere mass-mediatico e giudiziario. Tuttavia, Lula è stato rieletto dopo una tremenda campagna di discredito da parte dei mezzi di comunicazione, la quale ha fatto sì che, per moltissime persone, lui e la sinistra continuino a essere considerati corrotti. È stato detto: «Voi che tanto parlate di uguaglianza alla fine pensate solo ad arricchirvi!». La società è stata bombardata per anni da questo discorso, che è penetrato a fondo ed è, sicuramente, una delle cause della crescita dell’ultradestra bolsonarista e degli eventi dell’8 gennaio. Su questo episodio, così come dell’assalto a Capitol Hill, negli Usa, credo che dovremmo ancora riflettere. Mi sembra che ci siano elementi nuovi rispetto al golpismo classico. Mi è parsa una performance propria della società dello spettacolo, come avrebbe scritto Guy Debord. Le persone che vi hanno partecipato non mi sono sembrate ben coscienti della gravità dei loro atti. Certamente a Lula e al mondo intero è stato recapitato un messaggio sulla forza eversiva della destra.

Un discorso simile potremmo farlo per la vicepresidente dell’Argentina Cristina Fernández, quasi assassinata, lo scorso settembre, da un’estremista di destra e poi condannata per corruzione in un caso in cui le commistioni tra giudici, politici e grandi gruppi editoriali – per toglierla dalla scena politica – sono evidenti. Per non parlare delle irregolarità processuali. Probabilmente, senza la campagna d’odio lanciata contro di lei dalla stampa, Cristina Fernández non avrebbe rischiato di perdere la vita. Infine, alla base di tutti questi casi, vi è la mancanza di legittimazione dei governi di sinistra da parte della destra. La destra accetta la democrazia solo quando vince le elezioni. 

Hai accennato in più momenti al ruolo dei mezzi di comunicazione nella guerra giudiziaria. Nel tuo lavoro sostieni che essi rappresentano il secondo pilastro del lawfare

Il ruolo della stampa nel lawfare è quello della manipolazione di massa, della propaganda di guerra e della guerra psicologica. Ha un ruolo decisivo in ciò che racconta e anche in quello che non racconta. La stampa non è neutra; è un attore politico. Quanti argentini hanno saputo che il loro presidente Mauricio Macri appariva nei Panama Papers? Al contrario, la stampa dei grandi gruppi (in primo luogo il Clarín) ha portato avanti una campagna di denigrazione continua nei confronti di Cristina Fernández, raccontandoci ogni dettaglio delle tantissime cause che sono state aperte nei suoi confronti. La rivelazione da parte della stampa di documenti coperti dal segreto istruttorio è stata un’altra tattica utilizzata, esattamente come emerso dal comportamento del giudice Sergio Moro nei confronti di Lula. I mezzi di comunicazione hanno una fondamentale funzione sociale e politica: quella di monitorare il potere e mettere in luce il suo operato. Cosa ben diversa è agire come cinghia di trasmissione con il potere economico e politico che difende gli interessi dei proprietari dei grandi mezzi. Ecco la fine del giornalismo. 

Per concludere, il lawfare si sta estendendo anche in Europa? Quasi nessuno ha denunciato il fatto che in Spagna, poche settimane fa, si è consumato un colpo di stato costituzionale, con il Tribunale Costituzionale che ha impedito al Senato, in sfregio alla legge, di dibattere il rinnovo dello stesso Tribunale. Per non parlare del Csm, i cui membri hanno il mandato scaduto da quattro anni e che il Partido Popular si rifiuta di rinnovare…

Nell’Unione europea, l’azione degli Usa è differente perché non esiste una sfida all’egemonia statunitense come vi è nell’America Latina e nei Caraibi. Tuttavia, quello che è successo in Spagna negli ultimi anni con Podemos e l’indipendentismo catalano va nella direzione del lawfare. Sí, è incredibile che all’estero non ci sia coscienza delle pressioni golpiste del potere giudiziario spagnolo verso quello esecutivo e legislativo nelle ultime azioni del Tribunale Costituzionale. Inoltre, la decina di indagini giudiziarie contro Podemos rilanciate costantemente dalla stampa spagnola. Tuttavia, vorrei qui sottolineare un altro punto: dietro a queste indagini vi è l’idea per cui lo Stato appartiene alla destra e che solo la destra è legittimata a governare. A Pablo Iglesias, quando era Vicepresidente del Governo, si diceva che non poteva entrare nella commissione parlamentare sui segreti ufficiali. È stato trattato, insomma, come se fosse un agente segreto straniero! La conclusione è che milioni di voti non sono stati sufficienti per dare legittimazione politica alla sinistra e che, paradossalmente, i comunisti e Unidas Podemos difendano oggi la legalità del regime del ‘78 più della destra spagnola che crede, ancora, che lo Stato sia suo. 

Arantxa Tirado Sánchez è dottoressa di ricerca in Relazioni Internazionali presso l’Università Autonoma di Barcellona (Uab) e in Studi Latinoamericani presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico (Unam). Ha vissuto in Messico, Venezuela, Costa Rica e ha effettuato soggiorni di ricerca a Cuba. Attualmente è professoressa associata presso l’Uab.

Nicola Tanno è laureato in Scienze Politiche e in Analisi Economica delle Istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Vive e lavora da anni a Barcellona.

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