La legge 194: i primi quarant’anni del sistema di sorveglianza

La legge 194/1978 fu varata in seguito ad un ampio dibattito nel Paese. Questo si riflette in più punti del testo, ad esempio quello che prevede l’obbligo perentorio del Ministro della Sanità a presentare al Parlamento, annualmente, una relazione sullo stato di applicazione della legge. Questo obbligo, da una parte, rispondeva al timore di chi quella legge l’aveva ostacolata, ovvero che la legalizzazione rendesse più facile il ricorso all’aborto: la rilevazione routinaria avrebbe permesso di verificare la fondatezza di questo sospetto. Dall’altra parte, esso permetteva a coloro che la legge l’avevano sostenuta, di valutarne l’effettiva implementazione su tutto il territorio nazionale.

Un nuovo strumento conoscitivo

A tal fine il Ministero e l’Istat elaborarono uno strumento di rilevazione, il modello D12 dell’Istat, che, pur non esente da difetti¹, ha permesso di raccogliere dati accurati e completi attraverso un sistema di sorveglianza attiva che coinvolgeva le Regioni. Nello specifico, grazie all’iniziativa di Simonetta Tosi² veniva chiesto alle Regioni di elaborare le distribuzioni percentuali per tutte le variabili contenute nel modello D12, riportandole su un questionario trimestrale da inviare all’Istituto Superiore di Sanità e al Ministero. L’Istituto provvedeva a controllare accuratezza e completezza interagendo continuamente con le Regioni stesse. Tale sistema ha garantito una disponibilità di informazioni sull’IVG tempestiva, accurata e completa che non ha eguali a livello internazionale. È stato così possibile rispondere, ad esempio, a domande quali: la legge è riuscita a far emergere nella legalità il ricorso all’aborto? Ha favorito il ricorso all’aborto o ha favorito la sua prevenzione? Chi ha interrotto una gravidanza e perché? Il ricorso all’IVG è stato omogeneo per composizione sociodemografica della popolazione? Viene esso implementato secondo le indicazioni?

L’aborto come ultima ratio

La prima indagine epidemiologica riguardante donne che interrompevano la gravidanza, coordinata dalla stessa Tosi nel 1982, mise subito in evidenza che ad abortire erano donne con uno o più figli: a indicare che l’aborto non era richiesto per non avere figli, ma per non averne di ulteriori. Inoltre, emerse subito una scarsa conoscenza della fisiologia della riproduzione e un utilizzo di metodi contraccettivi non corretti o a bassa efficacia. Il ricorso all’aborto non era dunque una scelta di elezione, bensì un’ultima ratio; questo risultato ribadiva l’esigenza, peraltro già ampiamente prevista dalla legge istitutiva dei consultori familiari (legge 405/75), di una sistematica attività di counselling sulla procreazione responsabile da attuare con l’offerta attiva di corsi di educazione sessuale nelle scuole, nell’ambito del percorso nascita e in occasione dell’offerta attiva del pap-test per le donne in età feconda (da notare che meno del 30% erano gli aborti ottenuti da donne di età inferiore ai 25 anni).
Il sistema di sorveglianza epidemiologica registrò nei primissimi anni una crescita del ricorso all’IVG, dovuta sostanzialmente a ritardi nell’organizzazione dei servizi, fino al 1982 (234.801 IVG). Dal 1983 iniziò un costante e generalizzato decremento del fenomeno (v.Tab.1), che dura tuttora (nel 2016 si sono effettuate 84.926 IVG, di cui 59.423 con cittadinanza italiana), a conferma che la legalizzazione andava favorendo le iniziative per una diffusione della cultura della procreazione responsabile, soprattutto in termini di capacità concreta di utilizzare al meglio i metodi contraccettivi. 

Quanti sono gli aborti clandestini?

Ai primi risultati della rilevazione si applicarono tre modelli matematici indipendenti al fine di stimare l’abortività clandestina. Uno si basava sull’assunzione che le regioni con analogo tasso di fecondità dovessero avere anche un analogo rapporto di abortività, per cui la stima si effettuava attribuendo loro il rapporto di abortività regionale più elevato; il secondo modello calcolava gli aborti illegali sulle nascite evitate, ovvero sottraendo alle nascite previste in caso di non uso di contraccettivi quelle evitate con contraccezione e aborti denunciati; il terzo modello, di Tietze e Bongaarts, si basava anch’esso su fecondità naturale e pratica contraccettiva, considerando anche l’influenza di alcune variabili biologiche (sterilità, abortività spontanea, amenorrea post-parto)³ . La loro applicazione permise di stimare per il 1983 l’effettuazione di circa 100mila aborti clandestini (il 70% al Sud) a fronte di 230mila legali. L’applicazione del primo modello, che permetteva di effettuare stime anche a livello regionale basandosi sul tasso di natalità, ha successivamente permesso di verificare la costante diminuzione nel corso degli anni successivi fino a raggiungere nel 2016 la quota di 15mila, di cui il 90% al Sud [4].
Per quanto riguarda l’abortività spontanea, si è assistito a un dimezzamento con il varo della legge, ma a un aumento negli ultimi anni. Questo fenomeno non maschera aborti clandestini, come è stato talvolta sostenuto, ma è dovuto allo spostamento in avanti dell’età al parto: il rischio di abortività spontanea aumenta con l’età ed è confermato dall’andamento dei tassi specifici per età, crescenti nelle ultime tre classi quinquennali di età feconda, costanti nelle classi precedenti.
Nel complesso questi studi hanno permesso di riconoscere nell’assenza dei servizi per l’esecuzione dell’IVG la causa fondamentale del non ricorso alla legge, soprattutto al Sud, (con l’eccezione della Puglia, dove il governo regionale impose l’applicazione della legge in ogni singola USL, all’epoca delle dimensioni degli attuali distretti, permettendo la sostanziale emersione dalla clandestinità del ricorso all’aborto).

Sempre più diffuse competenze e consapevolezza

Col tempo, sono cresciute competenze e la consapevolezza tra le donne circa l’importanza di un controllo autonomo della propria salute riproduttiva. Questo è testimoniato dal fatto che i tassi di abortività sono decresciuti con maggiore rapidità per le donne più istruite, le occupate, le coniugate e con figli (v. Tab. 2) [5] .

L’andamento nel tempo della percentuale di IVG effettuate da donne con precedente esperienza abortiva nella legalizzazione segna, d’altra parte, una crescita fino a raggiungere un plateau dopo 30 anni. Tale crescita è stata stimata con un modello matematico che ipotizzava il rischio di ricorso all’aborto come costante nel tempo [6]. Nell’ipotesi che la legalizzazione avesse favorito il ricorso all’aborto, quindi con aumento del rischio di abortire, la curva osservata si sarebbe collocata sopra quella ottenuta con il modello matematico (costanza del rischio). Nell’ipotesi alternativa che la legalizzazione avesse favorito maggiore competenza nell’evitare gravidanze indesiderate, quindi con una riduzione del rischio di aborto, la curva osservata si sarebbe collocata al di sotto di quella attesa in costanza del rischio. Ebbene, negli anni la curva osservata si è collocata sempre molto al di sotto di quella attesa.
Era d’altra parte prevedibile che della maggiore disponibilità di servizi e informazioni avrebbero fatto tesoro più rapidamente le donne con maggiore istruzione, occupate (maggiore socializzazione) e coniugate (maggiore stabilità di rapporti sessuali).

Dati per conoscere, per valutare, per programmare

La raccolta sistematica di dati richiesta dalla 194 e ottenuta tramite il sistema di sorveglianza in questi decenni non solo ha permesso di valutare l’evoluzione del ricorso alla IVG e il grado di implementazione della legge, ma ha anche rappresentato uno strumento cruciale per indicazione di policy. Ad esempio, essa permette di vedere se le procedure adottate per l’esecuzione dell’IVG siano coerenti con quanto raccomandato al livello internazionale sulla base delle ricerche sui rischi connessi alle diverse procedure (ad esempio, la preferibilità dell’anestesia locale rispetto a quella generale, o dell’isterosuzione rispetto al raschiamento). Una volta appurato che le pratiche sono ancora lontane da quanto raccomandato, il legislatore dovrebbe provvedere a predisporre programmi di aggiornamento professionale e, per quanto necessario, modificare l’organizzazione operativa dei servizi direttamente o indirettamente coinvolti nell’applicazione della legge. D’altra parte, chi ha responsabilità a livello territoriale di mettere in rete integrata i servizi è interessato a valutare quali servizi vengono coinvolti nelle procedure del rilascio del documento e della certificazione, nell’esecuzione dell’IVG, nelle visite post-IVG, e quali siano i tempi di attesa; il tutto tenendo conto della presenza di obiezione di coscienza e della diffusione e dislocazione dei servizi consultoriali. Chi ha responsabilità manageriali generali è interessato al flusso informativo in ultima istanza perché la legge 194/78 è straordinariamente chiara al riguardo: è responsabilità della Regione l’applicazione della legge. In caso di sofferenze attuative è la Regione che deve farsi carico dei provvedimenti amministrativi e gestionali per superare le difficoltà. La disponibilità continua e sistematica di dati rende così possibile tanto l’emersione di problemi quanto la valutazione di efficacia dei provvedimenti tecnici e amministrativi messi in atto per risolverli.

Note

¹Ad esempio, era stata indubbia manifestazione di saggezza politica da parte del legislatore la scelta di fare riferimento a un “documento” attestante la volontà della donna a interrompere la gravidanza, previo colloquio con il medico consultoriale o di fiducia per verificare con lei l’eventuale esistenza di alternative alla IVG, mentre il termine “certificato”, che riconosce autorevolezza al medico più che alla donna, veniva menzionato solo per l’attestazione di condizioni di urgenza (che autorizzavano la donna a non attendere i sette giorni prima di accedere al servizio IVG). In tal modo, la legge accoglieva le istanze del movimento femminista che sollecitavano, oltre alla legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, anche il rispetto della volontà della donna lasciandole l’ultima parola. Invece, il modello D12 ISTAT, e di conseguenza molte ricerche che ne utilizzarono successivamente i dati, chiama “certificato” quello che per legge era “documento”: una scelta il cui peso poteva oltrepassare i confini meramente lessicali della questione. Inoltre, la rilevazione, così come veniva organizzata, poteva raccogliere informazioni solo sulle complicazioni di una IVG che fossero intervenute nell’immediato, e non su quelle successive.

² Simonetta Tosi, ricercatrice del CNR, svolgeva ricerche sulla salute delle donne e fondò nel popolare quartiere romano di San Lorenzo probabilmente il più famoso consultorio femminista autogestito, anticipando e ispirando la legge istitutiva dei consultori familiari pubblici (legge 405/75) secondo un approccio partecipativo e non paternalistico, una visione sistemica e multidisciplinare anziché riduzionista. Con il varo della legge 194/78 Tosi fu ospitata presso il Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica dell’Istituto Superiore di Sanità, dove, con Angela Spinelli (allora borsista CNR) e lo scrivente (allora ricercatore ISS) mise a punto il sistema di sorveglianza. Simonetta Tosi è morta nel 1984, battendosi, fino agli ultimi giorni della sua vita, per l’applicazione della legge 194/78, con particolare riferimento all’appropriatezza delle procedure diagnostico-terapeutiche e per il potenziamento dei consultori familiari.

³ Per maggiori dettagli, rimando al rapporto ISTISAN 91/25. Epidemiologia dell’interruzione volontaria di gravidanza e possibilità di prevenzione.

[4] Rimando alle relazioni sull’applicazione della legge 194/78 al Parlamento:

Rel. 2017 e http://www.salute.gov.it

[5] Loghi, D’Enrico, Spinelli. Il declino dell’aborto volontario. In: Sessualità e riproduzione nell’Italia contemporanea, a cura di De Rose e Dalla Zuanna, Bologna, Il Mulino, 2013.

[6] Lauria L, et al. The effect of contraceptive counselling in the pre and post-natal period on contraceptive use at three months after delivery among Italian and immigrant women,Annuali dell’ Istituto Superiore della Sanità, 50 (1), 2014, pp. 54-61.DOI: 10.4415/ANN_14_01_09;

Michele Grandolfo

2/11/2018 www.neodemos.info

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