La lotta dei curdi nella ribellione iraniana

Il 13 settembre, una ventiduenne visitatrice di Teheran di nome Jîna (Mahsa) Amini è finita nei guai con la «polizia morale» iraniana. Il suo presunto reato era rappresentato da un abito inappropriato, per il quale è stata arrestata.

Cose del genere non sono rare in Iran, paese retto da un governo reazionario che ha dirottato la rivolta di massa del 1979 contro il monarca sostenuto dagli Stati uniti, Mohammad Reza Pahlavi. Tuttavia, mentre la maggior parte delle detenzioni della polizia morale non sono letali, per Amini è accaduto il contrario. È andata in coma mentre era in carcere ed è morta tre giorni dopo. Le autorità affermano che ha avuto un infarto, ma le prove suggeriscono che sia stata picchiata con forza. La morte di Amini è diventata un innesco, scatenando un’ondata di proteste popolari in tutto l’Iran.

«Imperialismo intersezionale»

Come ci si poteva aspettare, data la relazione antagonista tra la Repubblica islamica e gli Stati uniti, questa esplosione di disordini è stata accolta con simpatia nelle sale del potere a Washington. In effetti, la natura di genere della violenza che ha portato alla morte prematura di Amini, e il ruolo che le donne hanno svolto all’avanguardia delle proteste anti-governative, si muovono in una specie di «imperialismo intersezionale» che cerca di giustificare l’escalation militare e diplomatica contro l’Iran in nome dell’emancipazione femminile dalla «barbarie» islamica.

Ci sono altri falsi amici dei manifestanti: numerosi gruppi tra l’opposizione iraniana in esilio sono desiderosi di rivendicare la vicinanza con i manifestanti, dal «principe ereditario» Reza Pahlavi ai sostenitori del culto di Mojahedin-e-Khalq. Forse l’esempio più eclatante è stato il giornalista di Voice of America Masih Alinejad, cui il New Yorker ha dedicato un ritratto accondiscendente nel quale addirittura si proclama che sta «guidando questo movimento».

La realtà è che la ribellione è un’esplosione di rabbia popolare diretta contro una teocrazia soffocante e repressiva – un’oligarchia capitalista vestita in abiti religiosi che cerca di disciplinare le masse iraniane attraverso l’imposizione della sua visione della moralità islamica.

Per molti versi, questa visione draconiana ricade più pesantemente sulle donne iraniane: da qui il ruolo centrale delle donne nelle proteste. Tuttavia, ridurre il «femminismo» della rivoluzione a una questione di autoespressione individuale – la «libertà furtiva» che Alinejad ha venduto ai liberal autocompiaciuti e ai conservatori anti-musulmani in Occidente – significa sottovalutare i motivi per cui così tante iraniane e iraniani scendono in piazza.

Oltre alla rabbia diffusa per un ordine politico asservito al clero e ai servizi di sicurezza, la situazione economica del paese appare sempre più cupa. L’inflazione e la crescente disuguaglianza sono realtà onnipresenti per milioni di persone. Certamente, ciò è causato anche dall’escalation della guerra economica e diplomatica da parte di Washington in seguito alla decisione dell’amministrazione Trump del 2018 di rinnegare l’accordo sul nucleare iraniano.

Ma gli imperiosi tentativi di Washington di destabilizzare la Repubblica Islamica non dovrebbero offuscare la brutalità del governo stesso, né le proteste che hanno spinto le persone nelle strade. Nonostante la sua posizione geopolitica «controegemonica», le sue origini «rivoluzionarie» e la sua retorica, la Repubblica islamica è fondamentalmente uno stato capitalista repressivo di destra.

La questione curda iraniana

La morte di Amini per mano delle forze dell’ordine della Repubblica islamica è servita da simbolo unificante per un movimento di protesta nascente, portando in netto rilievo i travagli delle donne iraniane. Curda iraniana, Amini era originaria di Saqez, una città nel nord-ovest a maggioranza curda del paese. In effetti, una sorta di contestazione relativa al significato e alla memoria della sua morte si sta già manifestando nel fatto che la si chiami con il suo nome curdo, Jîna, o con il nome del suo governo, Mahsa. Pertanto, la sua morte ha sollevato anche un’altro motivo di protesta nel paese: la questione dell’autodeterminazione nazionale curda.

La minoranza curda iraniana costituisce tra l’8 e il 15% della popolazione e risiede principalmente nelle province dell’Azerbaigian occidentale, del Kurdistan e di Kermanshah, conosciute collettivamente tra i curdi come Rojhalat (Kurdistan orientale). Pur condividendo molte tradizioni con altri iraniani, inclusa la maggioranza persiana dominante, i curdi hanno le loro peculiarità linguistiche, culturali e religiose.

I moderni aspiranti costruttori di nazioni dell’Iran, dalla dinastia Pahlavi alla Repubblica islamica, hanno spesso visto i curdi come una potenziale minaccia all’unità del paese e hanno scatenato contro di loro la repressione culturale e politica. Queste tensioni politiche sono state ulteriormente aggravate dalla persistenza del tribalismo – una caratteristica spesso sfruttata dallo stato iraniano per mantenere la propria autorità – così come dal più generale sottosviluppo economico delle regioni curde dell’Iran.

Date queste circostanze materiali e politiche, la mobilitazione politica curda in Iran è stata un atto di resistenza. A volte, si è manifestata nella lotta armata e nell’insurrezione aperta. Nel 1947, in seguito all’occupazione anglo-sovietica dell’Iran, nella città di Mahabad fu fondata una repubblica autonoma di breve durata. Tuttavia, le forze Pahlavi – con, va detto, la connivenza di numerose tribù curde – hanno respinto questo tentativo di autogoverno dopo undici mesi. Negli anni Settanta e Ottanta, il Kurdistan iraniano è tornato a essere il centro della lotta armata, prima durante la rivoluzione che rovesciò lo scià e poi come uno dei principali centri di resistenza al nuovo governo (Una delle ragioni della loro opposizione era religiosa: la maggioranza dei curdi iraniani sono sunniti; la Repubblica islamica è sciita).

In prima linea in questa fase della lotta curda iraniana c’erano due organizzazioni nazionaliste di sinistra: il Partito Democratico del Kurdistan dell’Iran (Kdpi) e l’Organizzazione dei Lavoratori Rivoluzionari del Kurdistan Iraniano (Komala). Alla fine degli anni Ottanta, la ribellione era stata in gran parte contenuta e gran parte dei quadri di entrambe le parti erano stati costretti a fuggire nel Kurdistan iracheno o in Europa.

Eppure, anche nella sconfitta e nell’esilio, i gruppi curdi hanno dovuto affrontare la violenza dello stato. Nel 1989, agenti iraniani assassinarono il leader del Kdpi Abdul Rahman Ghassemlou in Austria. Tre anni dopo, questa volta in un ristorante di Berlino, l’Iran ha attaccato e ucciso altri quattro leader curdi.

Repressione e Resistenza

Negli anni Novanta e Duemila, la resistenza curda in Iran è cresciuta in nuove direzioni. L’elezione del 1997 del candidato presidenziale riformista Mohammad Khatami è stata particolarmente significativa.

Sul fronte politico, l’ascesa di Khatami ha aperto la strada all’elezione dei politici curdi al parlamento nel 2000, anche se l’intervento del Consiglio dei guardiani – un organismo statale incaricato di valutare i potenziali candidati – ha ostacolato questa tendenza nelle elezioni successive. Tuttavia, le organizzazioni della società civile che promuovono la lingua e la cultura curda, nonché quelle impegnate in diverse questioni sociali, dalla violenza domestica all’ambientalismo, hanno continuato a prosperare, anche se spesso ai confini della legalità.

Anche la resistenza armata è continuata: nel 2004 è stato fondato un nuovo gruppo armato chiamato Kurdistan Free Life Party (Pjak), una propaggine del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) con sede in Turchia. Tuttavia, nonostante gli scontri periodici con i servizi di sicurezza iraniani nel corso degli anni, il controllo militare di Teheran sulle sue dipendenze curde è rimasto solido.

Questo domino è stato mantenuto al prezzo della coercizione e della violenza. Anche l’attivismo pacifico e la mobilitazione comportano enormi rischi. Ad esempio, nel 2018, quattro attivisti ambientalisti nella città di confine di Mariwan sono stati uccisi mentre tentavano di spegnere gli incendi ai boschi causati dai bombardamenti del governo iraniano e nel 2020 un’insegnante di lingua curda, Zahra Mohammadi, è stata schiaffeggiata e condannata a dieci anni di prigione sulla base di reati inventati (La sentenza è stata successivamente commutata in cinque anni).

Sono solo alcuni esempi che raccontano un modello più ampio di repressione. Secondo un rapporto delle Nazioni unite del 2019, i curdi costituiscono circa il 50% dei prigionieri politici in Iran e sono molto più esposti di altri alla pena capitale. A volte, lo stato iraniano ha tentato di conquistare la fedeltà curda attraverso appelli pan-iraniani alla storia e alla cultura condivise. L’ex presidente Khatami ha dichiarato che «nessuno ha il diritto di affermare di essere più iraniano dei curdi». Eppure, come ha osservato lo studioso Kaveh Bayat:

Non si può essere raffigurati come più iraniani di altri iraniani e contemporaneamente essere privati del diritto di essere istruiti nella propria lingua madre. Non si può provare una lealtà sfrenata allo stato-nazione identificato dagli sciiti quando si affronta la discriminazione contro la fede sunnita.

La Repubblica islamica, e la monarchia Pahlavi prima di essa, non è riuscita a superare queste contraddizioni all’interno del processo di costruzione della nazione iraniana. Pertanto, sebbene molti iraniani vedano la morte di Amini come un simbolo del fallimento generale del governo clericale, da molti curdi è percepita attraverso la lente dell’oppressione nazionale in corso.

Proteste in Kurdistan

Come gran parte dell’Iran, il Kurdistan è in subbuglio dalla morte di Amini, con proteste di massa e scioperi. La risposta del governo iraniano è stata quella di radunare i manifestanti e scatenare la violenza, persino portando la battaglia nel Kurdistan iracheno, attaccando i campi del gruppo di opposizione iraniano in esilio e destabilizzando l’amministrazione locale.

Tuttavia, ciò che contraddistingue il movimento di protesta nel Kurdistan iraniano è la questione dell’autogoverno nazionale, come dimostrano gli slogan a favore dei gruppi di opposizione curda in esilio e gli appelli alla solidarietà pan-curda («Da ovest a est, il Kurdistan è un paese unico»).

Questo slancio nazionalista contiene qualche rischio. Le realtà geopolitiche e l’equilibrio di potere militare significano che qualsiasi sollevazione curda isolata è probabilmente destinata a fallire. Nel bene e nel male, il destino dei curdi iraniani è associato al resto della popolazione iraniana.

Eppure, sebbene lo stato iraniano abbia cercato a lungo di polarizzare la questione dei diritti dei curdi sollevando lo spettro del «separatismo», il movimento curdo iraniano ha in generale cercato di esercitare l’autodeterminazione nazionale nel quadro dell’Iran. La formula del Kdpi, ad esempio, è concisamente riassunta nello slogan: «Democrazia per l’Iran, autonomia per il Kurdistan».

Naturalmente, questo lascia ancora aperta la questione di che cosa possa essere l’autonomia nel concreto. Seguirebbe il modello più conservatore di quasi-stato-nazione adottato dai curdi iracheni? Oppure i curdi iraniani potrebbero attingere alla visione radicale del «confederalismo democratico» presentata dal Pkk e dai suoi alleati in Rojava (Siria settentrionale)?

Significativamente, la sintesi ideologica del Pkk – che lega la risoluzione della questione nazionale a un programma politico più ampio radicato nell’anarchismo, nell’ecosocialismo e nella liberazione delle donne – ha lasciato il segno non solo nelle proteste nel Kurdistan iraniano ma in tutto l’Iran, con l’adozione da parte degli iraniani lo slogan del Pkk: «Donne, vita e libertà». Questa impollinazione incrociata è un segno positivo del fatto che la solidarietà interetnica in tutto il movimento di opposizione è possibile.

La Via dell’Unità

Sebbene le proteste in Iran non abbiano una chiara leadership o programma politico, sono animate da un impulso democratico e dal desiderio di libertà politica, giustizia economica ed emancipazione femminile.

Tuttavia, affinché l’Iran faccia progressi lungo la strada verso la democrazia liberale, per non parlare del socialismo, qualsiasi opposizione organizzata alla Repubblica islamica deve abbracciare una visione egualitaria del futuro. Deve superare le contraddizioni all’interno del processo di costruzione della nazione iraniana, al centro del quale c’è la risoluzione della questione curda. Per dirla in modo più enfatico, l’Iran deve cessare di essere una «prigione di popoli» tenuta insieme attraverso la violenza e la coercizione.

Il rivoluzionario e democratico curdo ottomano Abdullah Cevdet, sostiene questa analogia riguardo al futuro di un altro sistema politico multinazionale:

Leghiamo due uomini l’uno all’altro con la stessa corda. E mettiamo insieme altri due uomini liberi e liberi di agire di propria iniziativa personale. Chi è più unito, gli uomini legati tra loro o i due che sono liberamente posti uno accanto all’altro? Soltanto rispondere a questa domanda è stupido!

Mentre l’Impero Ottomano alla fine è crollato in mezzo a un’esplosione di violenza etnonazionale e militarismo, c’è ancora speranza che l’Iran possa evitare questo destino. E se l’Iran fosse in grado di risolvere le rivendicazioni curde grazie alla pressione popolare, ciò risuonerebbe in tutta la grande patria curda ma rappresenterebbe anche un’enorme vittoria per la democrazia in Medio Oriente.

Djene Rhys Bajalan è professore associato nel dipartimento di storia alla Missouri State University. È co-conduttore del podcast This Is Revolution. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

7/10/2022 https://jacobinitalia.it

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