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Commenti di Mauro Biani

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    Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sinistra Europea, Culture, Politiche di Rifondazione — Ottobre 27, 2016 7:42 am

    L’Italia di oggi non ha ancora realizzato di essere ripiombata in un’area di sottosviluppo e di marginalità politica, destino peraltro condiviso con tutti gli altri paesi del Mediterraneo. Basterà ricordare che, solo nel 2015, sono stati 107.000 i giovani italiani, in maggioranza under 35, che hanno lasciato il Paese in cerca di lavoro o di migliori condizioni di vita. Il capitalismo neoliberista, in un contesto di stagnazione demografica e di debole crescita economica, continua a produrre nei paesi dell’Europa meridionale disoccupazione di massa, sfruttamento sempre più brutale, tagli allo Stato sociale e condizioni di vita sempre peggiori.

    La migrazione come rivolta contro il capitale

    Pubblicato da franco.cilenti
    La migrazione come rivolta contro il capitale

    Il fatto che un alto numero di rifugiati, specialmente da paesi che sono stati soggetti negli ultimi tempi alle devastazioni delle aggressioni e guerre imperialiste, stiano tentando di entrare in Europa viene visto quasi esclusivamente in termini umanitari. Per quanto una tale percezione abbia senza dubbio la propria validità, vi è un altro aspetto della questione che è sfuggito del tutto all’attenzione,  ossia che per la prima volta nella storia moderna il fenomeno della migrazione potrebbe trovarsi al di fuori del controllo esclusivo del capitale metropolitano. Sino ad oggi i flussi migratori sono stati interamente dettati dalle esigenze del capitale metropolitano; ora, per la prima volta, le persone ne stanno violando i dettami, tentando di dare seguito alle proprie preferenze riguardo a dove vogliono stabilirsi. In miseria e infelici, e senza essere coscienti delle implicazioni delle proprie azioni, questi sventurati stanno effettivamente votando coi propri piedi contro l’egemonia del capitale metropolitano, il quale procede sempre sulla base del presupposto che le persone si sottometteranno docilmente ai suoi diktat, anche riguardo a dove vivere.

    L’idea secondo la quale il capitale metropolitano avrebbe fino ad oggi determinato chi dovrebbe rimanere e dove nel mondo, nonché in quali condizioni materiali, potrebbe apparire a prima vista inverosimile. Ciò nondimeno è vera. Nei tempi moderni si possono distinguere tre grandi ondate migratorie, ognuna delle quali dettata dalle necessità del capitale. La prima è stata il trasporto di milioni di persone ridotte in schiavitù dall’Africa alle Americhe, per lavorare nelle miniere e nelle piantagioni al fine di produrre le materie prime da esportare così da far fronte alle richieste del capitale metropolitano. Dal momento che le vicende riguardanti la tratta degli schiavi sono presumibilmente ben note, non discuterò ulteriormente questa particolare ondata migratoria.

    Una volta terminato il periodo di fioritura del commercio degli schiavi, ci fu un nuovo tipo di migrazione. Nel corso di tutto il XIX secolo e dell’inizio del XX, il capitale metropolitano aveva imposto un processo di “deindustrializzazione” al terzo mondo, non solo alle colonie tropicali come l’India ma anche alle semi-colonie e dipendenze come la Cina. Allo stesso tempo aveva “drenato” una parte del surplus economico di queste società attraverso svariati mezzi, dalla pura e semplice appropriazione di merci  senza alcun quid pro quo, ricorrendo alle entrate fiscali delle colonie amministrate direttamente, all’imposizione dello scambio ineguale nella valutazione dei prodotti del terzo mondo, sino all’estrazione di profitti monopolistici nel commercio. Le popolazioni delle economie del terzo mondo impoverite tramite tali meccanismi erano state forzate, viceversa, a restare dove si trovavano, intrappolate all’interno dei propri universi.

    Tuttavia nel XIX secolo, ben presto, si svilupparono due flussi migratori  per volontà del capitale metropolitano. Uno proveniente dalle regioni tropicali del mondo e diretto verso altre regioni tropicali, mentre l’altro partiva da quelle temperate verso altre dal clima analogo, in particolare dall’Europa verso le aree temperate di insediamento bianco quali Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Ai migranti provenienti dalle regioni tropicali non era concesso entrare liberamente in quelle temperate (di fatto non lo è ancora). Essi venivano trasportati come coolies o lavoratori vincolati (indentured labourers) dai loro habitat nei paesi tropicali o sub-tropicali, come India e Cina, là dove il capitale metropolitano li voleva, per lavorare nelle miniere e piantagioni in altre terre tropicali. Le loro destinazioni di lavoro includevano le Indie Occidentali, le Fiji, Ceylon, l’America Latina e la California (dove i lavoratori cinesi venivano impiegati nell’estrazione dell’oro).

     

    La migrazione da regioni temperate ad altre zone temperate è stata parte del processo di diffusione del capitalismo industriale dalle metropoli europee a queste  nuove terre. Si è trattato di una migrazione ad alto reddito, nel senso che i migranti provenivano da aree in cui esso era relativamente alto, per muoversi verso altre nelle quali avrebbero goduto di un alto livello di sussistenza. In contrasto, l’altra tipologia di migrazione, da regioni tropicali ad altre sempre tropicali, non ha avuto niente a che fare con una qualsivoglia diffusione del capitalismo industriale; ed è stata una migrazione a basso reddito.

    La ragione di tale differenza, il fatto che la migrazione fra regioni temperate fosse generalmente ad alto reddito, mentre quella tra aree tropicali invece a basso reddito, è stata spesso attribuita alla maggiore produttività del lavoro dei migranti europei rispetto a quelli indiani o cinesi. Si tratta di una visione erronea. I redditi dei lavoratori sotto il capitalismo sono raramente determinati dal livello di produttività del lavoro di per sé; al contrario, ciò che conta è la dimensione relativa dell’esercito di riserva del lavoro: anche con rapidi incrementi nella produttività del lavoro, i salari reali dei lavoratori possono risultare stagnanti a un livello di sussistenza, se la riserva di lavoro è abbastanza grande. Inoltre, la produttività del lavoro da prendere in considerazione, nel contesto di una simile argomentazione, non è quella dei lavoratori impiegati nell’industria capitalista, bensì di quelli al di fuori di essa, dal momento che si tratta di coloro con più probabilità di migrare; e non vi è ragione di credere che la produttività del lavoro degli ultimi sia stata più alta di quella dei loro omologhi nei tropici, se si ignora l’impatto del “drenaggio” e della “deindustrializzazione” inflitti alle terre tropicali.

    La vera ragione alla base della differenza di reddito dei due flussi migratori risiedeva altrove, nel fatto che nelle regioni temperate in cui migravano, gli europei potevano semplicemente soppiantare gli abitanti locali (come gli amerindi) e impossessarsi delle loro terre per la coltivazione. Tutto ciò non solo garantiva a questi migranti alti redditi, ma teneva alti anche i salari nei paesi d’origine dai quali si erano trasferiti, aumentando quello che gli economisti definiscono “salario di riserva”. Nessuno o nessuna, ovviamente, avrebbe lavorato per un tozzo di pane in Europa, avendo la possibilità di migrare verso regioni temperate di insediamento all’estero, guadagnando un reddito molto più alto con le terre prese agli amerindi; era una simile prospettiva a mantenere alti alti i salari in Europa.

    La migrazione fra regioni tropicali era al contrario era a basso reddito, dal momento che i migranti provenivano da popolazioni impoverite dal “drenaggio” e dalla “deindustrializzazione”, oltre a non poter contare sulla prospettiva di stabilirsi come agricoltori su terre strappate agli abitanti originari.

    W. Arthur Lewis, il noto economista originario delle Indie Occidentali, ha stimato che ciascuno di questi flussi migratori del XIX secolo è stato dell’ordine di 50 milioni di persone; poco importa che si accetti un simile calcolo, i numeri coinvolti sono senza alcun dubbio enormi. Utsa Patnaik, stima che quasi la metà del numero rappresentante l’incremento di popolazione annuale in Inghilterra, tra il 1815 e il 1910, ha migrato verso il “nuovo mondo”, nel quale il capitalismo industriali si stava diffondendo dall’Europa.

    Il terzo grande flusso migratorio si è verificato nel periodo del secondo dopoguerra. Un periodo, la cui estensione va dai primi anni cinquanta ai primi Settanta, che è stato definito da alcuni “l’epoca d’oro del capitalismo”, in quanto testimone di elevati tassi di crescita del prodotto interno lordo nelle economie metropolitane, in particolare quelle europee, a causa del boom post-ricostruzione e dell’intervento dello stato nella “gestione della domanda”. Anche se i tassi di crescita della produttività del lavoro erano anch’essi alti, non lo erano quanto quelli del PIL, il che significava un aumento della richiesta di mano d’opera. In molti paesi europei, ciò nonostante, la popolazione cresceva con difficoltà; l’aumento della domanda di mano d’opera, pertanto, venne soddisfatta attraverso l’importazione di lavoratori dalle regioni tropicali. Non vi era ancora la libera migrazione del lavoro dai tropici alle metropoli ma essa, sulla base di  numeri specifici, era permessa al fine di andare incontro alla crescente domanda di mano d’opera. I migranti, turchi in Germania, algerini o di altre ex-colonie francesi in Francia, asiatici del sud o delle Indie Occidentali in Gran Bretagna, prendevano i lavori a bassa retribuzione, liberando i lavoratori locali precedentemente impiegati in tali attività, i quali potevano ora muoversi verso l’alto nella gerarchia del lavoro. Il capitalismo nel periodo post-bellico, in breve, ha assistito all’enorme crescita di un sottoproletariato di lavoratori migranti stanziati nella metropoli.

    Ma col collasso del boom post-bellico, o della cosiddetta “epoca d’oro, i lavoratori migranti e i loro discendenti hanno trovato una rappresentanza sproporzionata nelle file dei disoccupati e dei sottooccupati. Con l’inizio della crisi capitalista nel secolo corrente, la loro posizione è divenuta sempre più precaria. Le conseguenze sociali di tale fenomeno sono state ampiamente discusse e non è necessario ritornare a soffermarcisi.

    Il punto, tuttavia, è il seguente: a parte le guerre e le aggressioni che il capitalismo metropolitano scatena ovunque, anche il suo “normale” modus operandi comporta l’espropriazione e l’impoverimento delle popolazioni dall’altra parte del mondo. L’obiettivo consiste nel tenerli intrappolati nei loro universi, quale riserva di lavoro situata a distanza, alla quale attingere, di volta in volta, consentendo migrazioni accuratamente controllate verso regioni nelle quali è  richiesta mano d’opera. Il suo assunto è che in tal modo essi possono rimanere intrappolati nei loro universi senza proferire la minima lamentela, quale che sia la loro condizione. Ed è naturalmente sulla base di un simile assunto che scatena le guerre imperialiste sulle popolazioni del terzo mondo. il modus operandi del capitalismo metropolitano esige l’adempimento di tale presupposto.

    La cosiddetta “crisi di rifugiati” sta dimostrando che questo presupposto non può più essere soddisfatto. Ancor più significativo, il capitalismo metropolitano non ha alcuna risposta al problema dei “rifugiati alle porte”. Non può consentire loro di entrare; e non può trovare soluzioni ai loro problemi nei paesi d’origine. Entrambi potrebbero essere percorsi umani, ma nel capitalismo non è questione di umanità. Ed è un fatto che sta arrivando per perseguitarlo.

    Prabhat Panaik

    Economista marxista indiano.

    Link all’articolo originale in inglese MRZine, originariamente pubblicato in People’s Democracy

    26/10/2016 fonte: traduzioni marxiste

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