La missione impossibile della ricerca pubblica

Nelle 125 pagine di bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), altrimenti detto Next Generation Eu o Recovery Plan, divise in quattro sezioni, si affrontano molti argomenti diversi, dalla transizione ecologica alla digitalizzazione, dalla competitività alla sostenibilità. In questo piano di riforme e investimenti si trova anche una sezione dedicata all’Università e alla Ricerca, da cui emerge una visione sostanzialmente in linea con i provvedimenti degli ultimi dieci anni, compresa l’attuale Legge di Bilancio: nonostante l’occasione «storica» data da tali ingenti stanziamenti, non si vedono significative svolte nell’approccio ai problemi riguardanti il settore.  

Gli stanziamenti previsti 

L’Italia, secondo le stime più recenti, è destinataria di 65,5 miliardi di sovvenzioni e 127,6 miliardi di prestiti del programma Next generation Eu (Ngeu) per un totale di circa 209 miliardi, su 750 totali, nel periodo 2021-2026. Tuttavia non tutti gli investimenti sono da considerarsi nuovi: mentre le sovvenzioni verranno interamente utilizzate per investimenti aggiuntivi rispetto a quelli già programmati, soltanto 40 dei 127.6 miliardi di prestiti saranno utilizzati in questo modo, mentre gli altri andranno sostanzialmente a sostituire altre modalità di finanziamento.  

Per rendere più chiaro questo passaggio, basti pensare che nel 2020 abbiamo avuto circa 110 miliardi in spesa pubblica aggiuntiva. Nel Piano si dice che «coerentemente con la configurazione del Pnrr illustrata nel presente documento, si ipotizza che circa il 60 per cento dei fondi Ngeu additivi sia destinato al finanziamento di investimenti pubblici, ossia, spese in conto capitale a carico delle amministrazioni pubbliche. La parte rimanente verrebbe destinata principalmente a incentivi alle imprese e riduzione dei contributi fiscali sul lavoro, e in misura limitata a spesa pubblica corrente e trasferimenti alle famiglie». Appare di conseguenza difficile che questi fondi siano utilizzati per finanziare  programmi regolari e ciclici, come dovrebbero essere, per esempio, eventuali piani di reclutamento nella Pubblica Amministrazione (quindi anche scuola, università ed enti di ricerca in generale). È quindi complesso valutare i passaggi del Pnrr in merito a una «Riforma del sistema di  selezione del personale scolastico che, attraverso un intervento normativo, modifichi le attuali  procedure concorsuali per integrarle con periodi di formazione e di prova ai fini dell’assunzione del personale scolastico (docenti e dirigenti)». Questa difficoltà è però coerente con l’approccio delineato a livello europeo per la gestione di tali fondi: gli stati membri, nei loro piani nazionali, devono infatti attenersi alle sfide identificate durante il semestre e alle raccomandazioni specifiche per ogni paese, elaborate dal Consiglio europeo. Ne discende un approccio mission-oriented in cui gli investimenti in digitalizzazione e transizione verde devono essere almeno pari al 60% del totale.  

Il fatto che una sezione del documento sia dedicata esplicitamente al tema dell’istruzione avanzata e della ricerca potrebbe costituire un segnale positivo. Tuttavia la tematica «Istruzione e Ricerca», come si legge dal documento, non ha una vera «missione», eccetto quella, seppur vaga, di «aggredire il deficit di competenze che limita il potenziale di crescita del nostro paese e la sua capacità di adattamento alle sfide tecnologiche e ambientali».

L’approccio mission-oriented può essere problematico in questi termini perché istruzione e ricerca dovrebbero essere inquadrate non come «missioni» ma come condizioni necessarie per perseguire qualsiasi obiettivo. In questo senso, la ricerca, tanto negli enti quanto nelle università, deve vivere delle interazioni con il sistema economico, produttivo e sociale di un paese. Per questo, l’Italia avrebbe bisogno inizialmente di un approccio orizzontale a istruzione e ricerca (diffusion-oriented), che permetterebbe di recuperare molto del terreno perso negli ultimi anni in termini di abbandono scolastico, numero di laureati e di ricercatori. Questo potenziamento generale e diffuso diverrebbe un ottimo punto di partenza per sviluppare linee di ricerca specifiche, che possano contribuire al raggiungimento di grandi obiettivi quali, per esempio, la lotta ai cambiamenti climatici. Quello che invece troviamo nella bozza del Pnrr è una spinta quasi ossessiva all’integrazione e agli accordi pubblico-privato, in linea con quanto già espresso nelle linee di indirizzo del Pnr 2021-2027.  

Un rapporto simbiotico tra ricerca pubblica e privata sarebbe sicuramente positivo, ma dovrebbe essere perseguito attraverso politiche di lungo termine, ben lontane da quelle che finora hanno tagliato miliardi di euro alla ricerca e premiato molte imprese con incentivi e sgravi fiscali, spesso senza una verifica adeguata del reale utilizzo di quelle risorse in ricerca e  sviluppo. Non deve inoltre essere dimenticata la consistente quota di ricerca di base in settori che, in questo quadro, apparirebbero meno attrattivi, data la difficoltà a ipotizzarne una ricaduta applicativa anche nel lungo periodo, come molti settori delle Ssh (Social Sciences and  Humanities). Eppure proprio la pandemia dovrebbe averci dato modo di comprendere come un’epidemia globale sia sì un fenomeno sanitario, ma i comportamenti da tenere per la sua  gestione, nonché i contesti in cui nasce e si sviluppa, sono fenomeni sociali e umani da indagare e di conseguenza, costituiscono un terreno di ricerca su cui investire.  

Università e ricerca  

«Istruzione e ricerca» è una delle sei missioni contenute nella bozza del Pnrr. Ogni missione è formata da «componenti», ovvero fasi della missione, volte a sostenere determinati obiettivi economico-sociali, a cui sono associati saldi di spesa e riforme reputate necessarie. Le componenti della missione «Istruzione e ricerca» sono:  

  1. Potenziamento della didattica e diritto allo studio, con un saldo finanziario di 10,1 miliardi;
  2. Dalla Ricerca all’Impresa, con un saldo di 9,1 miliardi.  

Il saldo della missione equivale dunque a 19,2 miliardi, circa il 9,8% delle risorse stanziate. Per ognuna delle componenti sopra elencate, vengono fornite le linee di intervento, secondo la  partizione che segue:  

  • Componente 1) a. Accesso all’istruzione e contrasto ai divari territoriali; b. Potenziamento della didattica e Stem (Science, Technology, Engineering  and Mathematics); c. Ricerca e istruzione professionalizzante, Its.  
  • Componente 2) a. Programmi di Ricerca e Sviluppo; b. Poli per l’innovazione e la ricerca e sviluppo degli Ipcei (potenziamento dei meccanismi di trasferimento tecnologico); c. Sostegno all’innovazione delle Piccole e Medie Imprese.  

Questa schematizzazione conferma le nostre impressioni: la componente 1 presenta alcune preoccupazioni, anche condivisibili – come il divario registrato tra diversi territori o il potenziamento delle Stem – ma spesso recepite sempre in un quadro di orientamento al mondo aziendale. L’interesse, dal punto di vista della didattica, appare focalizzato sulle componenti strettamente misurabili dell’istruzione di un discente, con il ricorso ai risultati dei Test Pisa (Programme for International Student Assessment, i test triennali dell’Ocse sul livello d’istruzione degli studenti, focalizzati sull’accertamento delle competenze acquisite nel periodo scolare). Anche l’attenzione per le Stem rientra in un disegno di maggiore spendibilità che solitamente viene attribuita a queste discipline, per investimenti nel medio e breve termine. Troviamo la stessa logica quando si affronta il tema del dottorato:

Riforma dei percorsi di dottorato, con semplificazione delle procedure di accreditamento per potenziare i programmi in collaborazione con aziende e i programmi internazionali e con atenei e istituzioni straniere. L’effetto della riforma farà sì che il dottorato venga arricchito con dei moduli dedicati allo sviluppo di idee imprenditoriali e alla valorizzazione economica delle tecnologie e dell’innovazione.  

Questa visione ha già prodotto degli effetti sui percorsi dottorali: le università investono in formazione per incoraggiare l’imprenditorialità dei dottorandi con laboratori dedicati; i partenariati in diverse discipline hanno portato alla creazione di borse a tematica vincolata, direttamente legate a finanziamenti frutto di collaborazioni con stakeholder privati; infine la creazione dei dottorati innovativi a caratterizzazione industriale. Abbiamo più volte sottolineato le criticità di queste nuove tipologie di dottorato: budget di ricerca fantasma, rigidi obblighi di rendicontazione bimestrale e modifiche al progetto di ricerca quasi impossibili, nonché la restituzione della borsa di studio in caso di rinuncia al dottorato o mancato superamento della prova annuale. Questa ipotetica riforma, di cui si accenna nella bozza, potrebbe essere legata a un interesse per queste formule già esistenti, come appunto il dottorato innovativo a caratterizzazione industriale.  

Riflessioni simili possono essere tratte anche dalla Componente 2; per la linea a), si parla infatti di «rafforzamento della filiera di R&S nel sistema universitario ed economico, attraverso i partenariati allargati per lo sviluppo di progetti di ricerca di base, gli accordi per l’innovazione, il  finanziamento di progetti di ricerca di giovani ricercatori e l’accelerazione di investimenti in Ricerca  e Sviluppo da parte di Pmi e Start-up». Questa prima linea di intervento è preoccupante, non tanto per la riaffermazione del focus sulla ricerca applicata e fortemente orientata alle aziende, attenta solo alle ricadute economiche immediate, quanto per il riferimento alla «ricerca di base». Il documento suggerirebbe infatti l’ingresso di stakeholder privati in questa tipologia di progetti, senza chiarirne esattamente le  modalità. La ricerca di base deve essere pubblica nella sua interezza, per sua stessa definizione, in quanto non finalizzata a un’applicazione diretta e di conseguenza impossibilitata a produrre un profitto immediato in grado di «riportare in pari» rispetto ai costi necessari. Resta però fondamentale, perché porta all’ampliamento delle conoscenze scientifiche, con un effetto positivo conseguente anche per la ricerca applicata.  

L’equivoco è reale e rischioso, perché il ruolo della ricerca pubblica non è e non deve essere meramente ancillare nei confronti delle aziende, perché il privato difficilmente investe senza una garanzia di ricadute nel breve e medio periodo, mentre la portata reale di un avanzamento nella ricerca di base può non risultare comprensibile nell’immediato. Anche se il trend europeo vede una quota importante del finanziamento alla ricerca provenire dalle imprese, questi fondi sono sempre accompagnati da un investimento consistente del Pil. Questo perché un investimento pubblico forte ha effetti benefici anche nell’attrazione di finanziamenti privati.  

La ricerca pubblica ha infatti il dovere di aprire nuovi orizzonti e assumersi rischi che un privato non può permettersi; in seguito sarà l’impresa a beneficiare delle ricadute non previste negli sviluppi della ricerca di base e magari a trovare nuovi sbocchi per i suoi risultati, anche attraverso l’assunzione di figure formatesi grazie a un dottorato. 

Non si deve interpretare questo assunto come un tentativo di operazione inversa, di rendere la ricerca applicata subalterna, ma deve essere chiaro che l’attività di regolazione pubblica della ricerca scientifica serve proprio a sostenere anche l’investimento privato che, se totalmente indipendente, difficilmente si collocherebbe su quote accettabili (e proficue per il singolo investitore). 

In questo senso, anche il punto relativo al sostegno delle Piccole e medie imprese è problematico: il focus è «sullo sviluppo delle competenze dei ricercatori attraverso l’istituzione di dottorati dedicati a specifiche esigenze di R&S delle imprese, e sull’utilizzo della domanda pubblica a sostegno della diffusione dei processi di innovazione». Un passaggio traducibile come spostamento del baricentro della formazione aziendale da una responsabilità di impresa a un onere a carico del sistema pubblico. Il mancato riconoscimento della formazione dottorale da parte del mondo imprenditoriale italiano e la scarsa capacità di assorbimento da parte delle piccole e medie imprese, dovrebbero essere riconosciute come criticità da risolvere attraverso una dialettica tra settore pubblico e privato. Si ripropone invece il tema degli incentivi, con una «modifica del cuneo fiscale, incentivando l’immissione di ricercatori nelle imprese […]». Un intervento sul costo del lavoro che non può porsi come strutturale. Interventi simili in passato hanno già prodotto scarsi risultati, in mancanza di uno specifico piano per orientare il sistema produttivo italiano verso settori capaci di fare innovazione, ricerca e sviluppo. 

Per un ecosistema dell’innovazione

In una lettera inviata al Ministro Gaetano Manfredi dall’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia (Adi), si nominano esplicitamente i Fondi Next Generation Eu come possibilità inedita per una reale svolta nel nostro paese in materia di ricerca e sviluppo. Non si può parlare di competitività e innovazione senza trattare di condizioni di lavoro, di struttura stessa della ricerca e dell’attrattività del sistema, di valorizzazione del percorso dottorale e di indipendenza dei ricercatori. 

Occorre parlare dunque di reclutamento di base, con una riforma che, attraverso un intervento normativo e di bilancio, crei le migliori condizioni per la creazione di un ecosistema dell’innovazione. Bisogna superare la precarietà dei ricercatori e andare oltre l’assegno di ricerca e la selva di figure precarie che caratterizzano la fine del dottorato (borsisti, contrattisti, collaboratori) attraverso la creazione di un contratto unico di preruolo, da applicare per enti e università. Inoltre è necessario garantire indipendenza e possibilità di pianificazione ai ricercatori, grazie a stanziamenti per risorse accessibili a ricercatori entry-level, anche indipendenti e non strutturati, in ambiti non connessi al mondo delle start-up.

Per quanto riguarda le imprese, l’inserimento dei dottori di ricerca nell’impianto aziendale deve accompagnarsi all’istituzione della figura del dottore di ricerca inquadrato nel contratto collettivo nazionale di lavoro anche al di fuori degli enti di ricerca e delle università. 

L’attrattività del settore si costruisce attraverso certezze, valorizzazione, interventi strutturali; occorre avere il coraggio di andare oltre i paradigmi depauperanti degli ultimi dieci anni e riflettere sulla necessità di una reale svolta, che solo il soggetto pubblico può avere il coraggio, la volontà e la forza di fare, a beneficio del paese nella sua interezza.

Flavia Sciolette è assegnista di ricerca presso il Cnr-Ilc.

Riccardo Ridolfi è dottorando in Fisica presso l’Università di Bologna. Entrambi sono membri della segreteria nazionale dell’Adi. 

8/1/2021 https://jacobinitalia.it

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