La mobilitazione per i piccoli ospedali scuote la Sardegna. In nome della sanità pubblica

 

La protesta dei pastori non è stata l’unica a scuotere la Sardegna alla vigilia delle elezioni regionali del 24 febbraio. Da tempo è in corso anche una battaglia popolare contro la riforma sanitaria, approvata sette mesi fa dalla giunta Pigliaru di centro-sinistra, giudicata inadeguata per il territorio e troppo compiacente con il privato. Sono casalinghe, fotografe, librai, medici e operai. Come tanti Don Chisciotte con la lancia in mano, combattono contro i mulini a vento delle “norme parametriche e volumetriche” che impongono, in nome della razionalizzazione, la chiusura dei piccoli ospedali periferici, ritenuti non sufficientemente “performanti”. A differenza dell’hidalgo spagnolo, questi moderni Don Chisciotte hanno i piedi ben piantati per terra: hanno studiato, proposto modifiche, organizzato picchetti e riunioni. Fino ad occupare pacificamente gli ospedali, da La Maddalena a Isili, nel cagliaritano, per scongiurarne la chiusura definitiva. Una lotta che si è fatta più intensa nelle ultime settimane, alla vigilia delle regionali, di cui la sanità è diventata inevitabilmente uno dei temi principali.

Emanuela Cauli abita alla Maddalena, è una fotografa anche se preferisce definirsi “un’attivista”. Da ottobre a dicembre dello scorso anno, insieme ad altri cittadini, ha occupato il piccolo nosocomio locale, il Paolo Merlo, per denunciarne il progressivo ridimensionamento a causa della chiusura di numerosi reparti.
“Sono stati mesi infernali, ma era necessario protestare in maniera decisa. Abbiamo allestito un punto informativo aperto giorno e notte, stampato volantini, organizzato incontri e riunioni, e promosso delle collette per i malati oncologici che devono recarsi ad Olbia per la chemioterapia, affrontando un lungo viaggio nonostante le loro condizioni” ricorda Cauli.

“La situazione è drammatica in tutta la regione ma La Maddalena è il simbolo, in negativo, delle scelte fatte sulla pelle dei cittadini. Chi deve fare la chemio o la dialisi – prosegue – deve raggiungere l’ospedale di Olbia, il che significa affrontare un viaggio dalle due alle tre ore, a seconda della stagione, su una strada provinciale oltre al traghetto, spendendo delle cifre non alla portata di tutti; in caso di emergenze è necessario l’intervento dell’elisoccorso ma se c’è molto vento, come qui capita di frequente, questo non può atterrare”.
I problemi all’ospedale Paolo Merlo sono iniziati più di dieci anni fa, con la chiusura del reparto di chirurgia, poi ostetricia e il punto nascita, la pediatria garantita solo parzialmente (l’ambulatorio ma non la degenza) fino alla soppressione della camera iperbarica, un servizio fondamentale per un’isola: “In realtà c’è ma non viene utilizzata, così chi ha ne ha bisogno viene dirottato a Cagliari” precisa Cauli.

A Isili, nell’entroterra cagliaritano, a quasi trecento chilometri da La Maddalena, la situazione è simile. Luigi Pisci, libraio, è il portavoce di un’altra occupazione pacifica, quella all’ospedale San Giuseppe e da tre anni si batte, da “militante di strada di estrema sinistra” come si presenta, per salvare l’ospedale: “Se crolla la sanità – esordisce Pisci – crolla l’ultimo baluardo contro il dominio totalizzante del mercato. Il nostro ospedale è il punto di riferimento per tanti altri comuni della zona, distanti da Cagliari anche alcune ore. Al San Giuseppe il reparto di chirurgia è stato chiuso tre anni fa, e si è assistito ad un taglio del 28% dei posti letto di medicina generale, mentre il pronto soccorso è costantemente a rischio per mancanza di medici”. Il motivo dei ridimensionamenti, come spiega Pisci, “è dovuto all’applicazione delle norme parametriche e volumetriche del decreto ministeriale 70 del 2015 che stabilisce gli standard qualitativi e strutturali dell’assistenza ospedaliera. Questi parametri, recepiti dalla riforma regionale, comportano la chiusura degli ospedali o di alcuni reparti quando il numero degli abitanti di quel territorio, o gli standard del servizio offerto, sono ritenuti insufficienti da giustificarne l’apertura”.

Il comitato in difesa del Paolo Merlo e quello del San Giuseppe fanno parte della “Rete Sarda in difesa della sanità pubblica”, confederazione nata nel 2016, che accorpa una decina di comitati sparsi in tutta la Sardegna, e che negli anni ha portato in piazza circa 40mila cittadini esasperati dai tagli alla sanità.
“Come “Rete Sarda” abbiamo presentato degli emendamenti al testo di riforma, cercando di correggere gli aspetti maggiormente inadeguati al contesto sardo,- aggiunge Pisci – ma nessun consigliere regionale ha preso in carico le nostre richieste”.

Claudia Zuncheddu, medico ed ex consigliera regionale di opposizione all’epoca della giunta Cappellacci di centro-destra, è stata la portavoce della “Rete Sarda” fino a poche settimane fa, quando ha deciso di autosospendersi perché candidata con la coalizione “Sardi Liberi” alle regionali.

“Sia con Cappellacci sia con Pigliaru, secondo il classico schema in perfetto stile neoliberista, è stato deciso di depotenziare gli ospedali periferici, e in generale la sanità pubblica, in nome della razionalizzazione delle spese a discapito della salute dei cittadini. La riforma sanitaria – spiega Zuncheddu- è irricevibile per due motivi: in primis è inadeguata alla geografia e all’orografia del nostro territorio, nel quale molti comuni risultano difficilmente raggiungibili e spesso mal collegati dal punto di vista infrastrutturale; in secondo luogo è una riforma che smantella il servizio pubblico a favore della privatizzazione”. Zuncheddu ricorda, a tal proposito, la nascita dell’ospedale Mater Olbia, struttura privata convenzionata, dalla costruzione pluridecennale, che è stata inaugurata nel dicembre dello scorso anno: “Il Mater Olbia, creatura condivisa dalla politica di destra e di sinistra, è l’emblema del nostro sistema sanitario che dimentica la sua natura pubblica a favore del privato. Basti pensare che è una struttura sfornita del pronto soccorso, così che può liberamente selezionare i ricoveri”.
L’idea del Mater Olbia risale a trent’anni fa quando Don Luigi Verzè, fondatore del San Raffaele di Milano, sceglie Olbia come sede del San Raffaele sardo. Fallito l’impero del presbitero e imprenditore veneto, nel 2014 lo stato islamico del Qatar ottiene il via libera dal comune di Olbia per la nuova struttura privata.

Le mobilitazioni contro il Mater Olbia sono state numerose, come quelle organizzate dal movimento indipendentista Caminera Noa che da anni organizza delle manifestazioni contro i finanziamenti pubblici alla struttura privata olbiese.
“È un ospedale che costa ai cittadini sardi 58 milioni all’anno – conclude Zuncheddu – e non risolve i problemi della gente comune. La nostra è una lotta di speranza ma le prospettive sono decisamente preoccupanti. Oltre il 14% dei sardi rinuncia alle cure in quanto non può pagare il ticket o non può attendere lo scorrimento delle lunghe liste d’attesa. La legge del 1978 sul servizio sanitario nazionale, che ha reso grande l’Italia nel mondo, sta per essere smantellata pezzo per pezzo”.

Sara Capolungo

27/2/2019 https://left.it

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