La necessità del salario minimo in Italia

Per il Governo Meloni esisterebbe già una copertura sufficiente per i lavoratori data dalla contrattazione collettiva e dunque fissare un reddito minimo sarebbe controproducente. Affermazioni azzardate. Com’è azzardata la riforma fiscale che spegne il welfare e il sistema di consumi diffusi. L’analisi di Alessandro Volpi

Un dato che dovrebbe far riflettere. Quest’anno per la prima volta dall’inizio del Novecento il fatturato dell’export manifatturiero supererà il 50% del totale. Questo significa che l’Italia è un Paese ormai trainato in larghissima misura dalle esportazioni. Il peso dei consumi interni sta continuando a crollare perché il reddito disponibile degli italiani continuerà a essere negativo.

In altre parole, senza mercati esteri, che garantiscono un avanzo commerciale straordinario, l’economia italiana sarebbe in grave affanno, ben oltre la risicata crescita dell’1%. Ma, appunto, questo dato dovrebbe essere letto con cura: un’economia votata all’esportazione tende a concentrare i redditi in settori molto specifici, che faticano a fornire gettito fiscale e a distribuire la ricchezza. Dunque, un Pil che cresce dell’1% in un Paese dominato dalle esportazioni si traduce in una forte polarizzazione dei redditi.

In secondo luogo, la dipendenza dai mercati esteri genera una costante instabilità perché gli effetti delle congiunture internazionali, della trasformazione dei gusti, delle filiere dei costi e della qualità su scala globale, insieme alle incertezze legate al prezzo dell’energia e, aggiungerei, ai decisivi riflessi della politica dei nostri compratori sono determinanti. In pratica, una dipendenza così marcata dalle esportazioni non sostiene i redditi interni in modo adeguato e mette l’Italia nelle condizioni già conosciute in passato da alcuni Paesi in via di sviluppo dove si è polarizzata la ricchezza e le crisi sono state ricorrenti.

Alla luce di queste considerazioni è davvero poco comprensibile la bocciatura del salario minimo da parte della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, fondata su una motivazione decisamente debole. A suo parere in Italia esisterebbe una vasta copertura a opera della contrattazione collettiva e dunque fissare un salario minimo può essere controproducente. Si tratta di un’affermazione azzardata: nel nostro Paese i contratti collettivi sono oltre mille e sono firmati per il 70% da una miriade di realtà sindacali, spesso di dimensioni limitate.

Ciò dipende dall’assenza di una legge sulla rappresentanza che definisca chi realmente rappresenta i lavoratori. In tali condizioni sono possibili salari minimi bassissimi, che diventano ancora più bassi per tutte le tipologie di occupazione dove non esiste la contrattazione collettiva. Dunque senza una legge sulla rappresentanza e di fronte a forme di dumping contrattuale, il salario minimo è una garanzia per i lavoratori e soprattutto evita l’impoverimento e il crollo dei consumi a cui si faceva riferimento. Anche sul versante fiscale dovrebbero valere notazioni analoghe.

Dopo Banca d’Italia e Commissione europea, anche l’Ufficio parlamentare di Bilancio ha dichiarato che la riforma fiscale così come concepita nel disegno di legge del Governo Meloni è iniqua e non è compatibile con il mantenimento del welfare e di un sistema di consumi diffusi. In altre parole, attuarla significa spingere la popolazione italiana verso i servizi privati, sia in sanità sia in campo pensionistico e persino scolastico. Si tagliano le imposte a cominciare dai redditi più alti e si riduce complessivamente il gettito; questo significa che i servizi pubblici ridurranno la loro area d’intervento e i cittadini dovranno destinare una parte delle loro retribuzioni a sanità e previdenza integrative.

Ciò determina due conseguenze evidenti. La prima: chi ha una retribuzione più bassa può destinare alla spesa per la propria salute e per la propria pensione meno risorse e dunque non avrà accesso a tutte le cure e disporrà di una pensione decisamente povera. Peraltro queste risorse saranno indirizzate in fondi che trasformeranno di fatto tutti gli italiani in soggetti finanziari, ancora una volta con conseguenze diverse in base al reddito perché chi guadagna meno avrà bisogno di rendimenti più alti e, dunque, più rischiosi rispetto a chi ha redditi maggiori. La seconda: in una fase di inflazione alta, destinata a perdurare, sostituire i servizi pubblici con un aumento di retribuzione, senza indicizzazione, senza un adeguamento reale all’aumento dei prezzi, significa un impoverimento evidente, di nuovo gravissimo per i redditi medio-bassi. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

29/5/2023 https://altreconomia.it/

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