La sconfortante situazione del diritto all’aborto in Italia

In Italia ci sono state 76.328 interruzioni volontarie di gravidanza nel 2018, a cui si deve aggiungere un numero inafferrabile di aborti clandestini – tra i 10 e 13 mila secondo le ultime stime – che si verificano anche perché il diritto all’aborto in Italia non è sufficientemente tutelato.

Ma per quale motivo una donna dovrebbe ricorrere ad aborto clandestino, al di fuori di una struttura ospedaliera in grado di fornirle completa assistenza sanitaria, mettendo in pericolo la propria salute?

Perché la legge 194 non è sufficiente ad assicurare a chi lo necessita un accesso sicuro all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). La legge 194 del 1978 riconosce formalmente il diritto all’aborto a tutte le donne entro 90 giorni dal concepimento, qualora vi sia “un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito” (art. 4), e dopo i 90 giorni nel caso si presentino complicazioni e patologie che mettono a grave rischio la sua salute o quella del feto.

La stessa legge prevede tuttavia anche il diritto all’obiezione di coscienza, ovvero la possibilità per medici e personale sanitario di non effettuare la pratica, quando essa sia in contrasto con scelte etiche personali. Come vedremo, la maggior parte dei ginecologi usufruiscono di questo diritto e questa scelta ostacola l’applicazione concreta del diritto all’aborto in Italia, soprattutto in alcune regioni.

I dati sull’interruzione volontaria di gravidanza in Italia

Come detto in apertura, nel 2018 ci sono state 76.328 interruzioni volontarie di gravidanza in Italia. Il dato è riportato nella annuale Relazione del Ministero della Salute sull’attuazione della legge 194, da cui prendiamo anche i dati presentati di seguito.

La Liguria è la regione dove il cosiddetto tasso di abortività (il rapporto tra IVG effettuate e il numero di donne tra i 15 e i 49 anni) è più alto: 7,8 aborti ogni mille donne. Seguono Emilia Romagna (7,5), Piemonte (7,4) e Puglia (7,2). Le regioni dove questo rapporto è più basso sono Basilicata (4,3), Calabria (4,4), provincia di Bolzano e Veneto (4,6).

Tutti questi dati sono in calo costante: le IVG erano 230 mila nel 1983, 132 mila nel 2005 e 80 mila nel 2017. Anche il tasso di abortività cala senza sosta da più di trent’anni: era di 17,2 IVG ogni mille donne nel 1982, è di 6 oggi, uno dei dati più bassi a livello internazionale.

La pratica dell’IVG riguarda soprattutto le donne nella fascia di età 25-34 anni, e ha riguardato 2.001 ragazze minorenni nel 2018 (in calo rispetto al 2017 e agli anni precedenti), di cui 146 under 15. Il 37% degli aborti in Italia riguarda donne coniugate, percentuale che si avvicina al 50% in Basilicata e Calabria.

Le donne straniere sono molto rappresentate in queste statistiche. 23 mila delle 76 mila IVG – il 30% – riguardano cittadine non italiane, che presentano tassi di abortività superiori di 2-3 volte alle cittadine italiane. Si tratta tuttavia di un dato anch’esso in calo: nel 2003 si verificavano in Italia 40,7 IVG ogni mille donne straniere, nel 2017 15,5, nel 2018 siamo a 14,1. Quasi la metà dei 24 mila aborti di donne straniere sono di cittadine di paesi dell’Europa dell’est.

La grande maggioranza degli aborti in Italia – il 95% – avviene entro le 12 settimane di gestazione.

L’applicazione del diritto all’aborto in Italia

La lettura della già citata Relazione annuale del Ministro della Salute porta a considerazioni contrastanti sull’applicazione del diritto all’aborto in Italia.

Il Ministero assicura che a livello nazionale l’accesso al diritto è garantito. Le IVG vengono effettuate nel 65% delle strutture ospedaliere, percentuale ritenuta adeguata con l’eccezione di Campania, Molise e Provincia di Bolzano, dove questa percentuale crolla intorno al 30%. Secondo la legge però l’IVG dovrebbe essere garantita in tutti gli ospedali pubblici.

Inoltre, dice il Ministero, ogni ginecologo non obiettore svolge in media 1,2 IVG a settimana, un dato ritenuto adeguato. Ci sono però situazioni limite come quella del Molise, dove i pochissimi ginecologi non obiettori sono chiamati a svolgere 3,8 IVG a settimana.

I dati sull’obiezione di coscienza negli ospedali italiani sono però agghiaccianti. Il 69% dei ginecologi italiani sono obiettori, non solo e non tanto per motivi etici. Come spiegano alcuni ginecologi non obiettori (qui e qui), le questioni di coscienza sono legate soprattutto a motivazioni professionali, piuttosto che etiche, con medici che preferiscono non praticare l’IVG in modo da vedersi assegnate procedure meno routinarie, che possano dare una maggiore soddisfazione e arricchimento professionale.

Sette ginecologi su dieci in Italia quindi non praticano l’aborto. Una percentuale molto alta e non distribuita uniformemente sul territorio nazionale, con situazioni surreali in regioni come Molise (92%), provincia di Bolzano (87%), Sicilia (83%), Puglia e Basilicata (82%). Le regioni con le percentuali più basse di ginecologi obiettori sono Valle d’Aosta (8%), Emilia Romagna (52%), Friuli Venezia Giulia e provincia di Trento (53%).

A livello micro-territoriale le differenze sono ancora più marcate. Nel 2016, l’emblematica situazione della provincia di Ascoli Piceno (100% di obiettori – obiezione di struttura) aveva addirittura attirato l’attenzione del New York Times.

In questo scenario una donna può trovarsi nella spiacevole situazione di dover percorrere distanze notevoli e subire lunghi tempi di attesa, rischiando di oltrepassare il limite di 90 giorni previsto dalla legge. Una situazione di stress che, se va bene, rende ancora più acuta la sofferenza che già accompagna questa esperienza e, se va male, porta le donne che non trovano posti disponibili a ricorrere all’aborto clandestino.

Stando alle stastiche del Ministro, l’87% delle IVG è stato praticato nella provincia di residenza delle donne, un dato in linea con la mobilità registrata per le altre prestazioni del servizio sanitario nazionale. In sostanza il Ministero, nella relazione, afferma che il numero di aborti sta calando, che si tratta di un dato positivo e che l’accesso al servizio è adeguato. Tuttavia, sono in molti a contestare questi dati, o meglio, questa loro interpretazione.

Silvana Agatone, presidente dell’associazione che riunisce i medici non obiettori, in questa intervista a La Stampa dà una lettura opposta a quella del Ministero: il numero di aborti diminuisce perché l’elevato numero di obiettori, unito ad altre circostanze in cui è fornito il servizio, rende l’accesso al diritto in alcuni casi molto complicato, spingendo le donne verso gravidanze indesiderate o verso pratiche clandestine.

La pratica dell’aborto clandestino sfugge alle statistiche e comprende naturalmente anche altri casi, come quello delle donne ricche che preferiscono rivolgersi in segretezza a cliniche private e quello opposto delle donne straniere senza documenti.

Inoltre, si registra la scarsa applicazione in Italia dell’aborto farmacologico con pillola RU486. La possibilità, introdotta nel 2009, è utilizzata solo nel 20% dei casi, nonostante le chiare linee di indirizzo dettate dal Ministero della Salute. La gran parte delle regioni però ha ignorato queste indicazioni, e alcune, come Piemonte, Marche e Umbria vorrebbero anzi non applicarle.

Un quadro davvero poco confortante, che la pandemia da Covid-19 ha ulteriormente aggravato. Il diritto all’aborto in Italia è riconosciuto, ma l’effettività della sua applicazione è contestata. La possibilità di ricorrere all’obiezione di coscienza è abusata da parte dei medici, per ragioni non sempre etiche, e secondo alcuni non dovrebbe essere proprio prevista, per garantire la massima accessibilità possibile al diritto all’aborto in Italia.

Valentina Valmacco

https://www.lenius.it

Immagine | Tatlana Vdb

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