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    Siamo di fronte a tecnologie digitali della conoscenza che attingono al sapere collettivo come a una risorsa economica, un segmento di “capitale umano” da utilizzare per il profitto.

    LA SOCIETA’ DELLA CONOSCENZA SORVEGLIATA

    Pubblicato da franco.cilenti
    https://sulatesta.net

    IL MODELLO TECNO-LIBERISTA

    L’offensiva delle multinazionali del capitalismo digitale sull’istruzione pubblica, iniziata con il distanziamento delle pratiche didattiche in seguito al lockdown e proseguita con l’alternarsi tra aule e case di gruppi di studenti, è l’ultimo e il più evidente passaggio di un potentissimo e vittorioso processo egemonico, peraltro in atto da tempo. Google, Facebook, Apple, Microsoft e così via, infatti, non solo si presentano, ma vengono ormai accolte dall’immaginario collettivo come tecnologie digitali universali, unico scenario operativo e logistico possibile e praticabile per comunicazione e trattamento dei flussi informativi. Del resto, siamo abituati a vedere le strade percorse da riders, corrieri di Amazon e conducenti di Uber. Abbiamo in molti un profilo Facebook personale, per non parlare di pagine di partiti, associazioni e sindacati e “dirette” di eventi e dibattiti e così via, fino ai tweet, che affiancano – se non rimpiazzano – i messaggi istituzionali. Proprio per questo, è necessario e urgente un intervento culturale attivo e alternativo, che riconosca i meccanismi di funzionamento e demistifichi intenzioni e conseguenze. Per raggiungere questo primo obiettivo – strategico perché il pensiero critico radicale rialzi la testa e sia capace di resistenza e progettazione – dobbiamo innanzitutto agire collettivamente su noi stessi, liberandoci dall’approccio tecnocratico, che invece riconduce e riduce riflessione e azione a un sapere specialistico e opaco. Dobbiamo adottare un’ottica multidimensionale, che valorizzi intersezioni e sinergie culturali tra scienza, tecnica, economia, matematica, diritto, filosofia, etica, sociologia, psicologia e così via. Solo questa impostazione ci può far capire davvero dispositivi tecno-economici così strutturati e pervasivi da determinare forme culturali e assetti sociali, perché vincolano le relazioni umane, a partire dal lavoro, sempre più mercificato e frammentato, come lucidamente è stato analizzato nel secondo numero di questa rivista. Siamo infatti di fronte a tecnologie digitali della conoscenza che attingono al sapere collettivo come a una risorsa economica, un segmento di “capitale umano” da utilizzare per il profitto.

    “PLATFORM SOCIETY” E CONOSCENZA

    Il fulcro dei processi in atto sono le piattaforme capitalistiche di intermediazione digitale, che si sono ormai impadronite di internet. Queste infrastrutture digitali realizzano il proprio business mettendo in rapporto due o più insiemi di individui: per esempio, conducenti e clienti (Uber), consumatori e produttori (Amazon e il delivery in genere), utenti e marketing (Facebook), ma anche produttori di contenuti, navigatori e aziende (Google Search). La “piattaformizzazione” di relazioni sociali, umane e culturali, che coinvolge sempre più anche i settori produttivi tradizionali, costruisce la “platform society”, egemonizzata da soggetti a intenzione capitalistica, con caratteristiche specifiche e con conseguenze non solo virtuali, ma pesantemente materiali. La prima è il coordinamento algoritmico dei differenti attori, finalizzato all’estrazione e alla produzione di valore, come nel caso delle 38percentuali riscosse dagli intermediari su prestazioni lavorative visibili e governate da App, come il recapito di cibo. La seconda è l’accesso ai dati personali degli utenti per raffinare meccanismi e procedure di abbinamento del sistema, come i “motori di raccomandazione” di Amazon, che suggeriscono ai clienti acquisti congruenti con le scelte fatte. La terza caratteristica è l’appropriazione da parte delle piattaforme del valore prodotto – con lavoro accuratamente occultato – dagli utenti, in particolare nel campo della conoscenza collettiva. Per capire meglio questo aspetto, analizziamo il funzionamento di Google Search.

    IL PARADIGMA ESTRATTIVO

    Il motore di ricerca più noto del mondo fa capo – è bene ricordarlo – ad Alphabet, holding con fini di lucro ed enormi conclamati profitti, anche grazie a costanti acrobazie fiscali. Lo abbiamo sperimentato quasi tutti: inseriamo qualche parola-chiave e dopo pochi istanti riceviamo una lista di risorse, automaticamente graduate per significatività. Cosa succede? Le procedure di Google – protette da segreto industriale – hanno scorso i suoi archivi, indicizzati secondo presenza e posizione dei termini inseriti: le risorse indagate sono infatti scritte e descritte con linguaggi codificati (in particolare l’HyperText Markup Language), che assegnano etichette a valenza logica riconoscibili in modo macchinico. Se, per esempio, l’algoritmo rileva le chiavi di ricerca nel titolo di una pagina o di un paragrafo di una certa unità informativa, la considera più significativa di un’altra che le mostra solo nel testo di una frase. I risultati restituiti, quindi, estraggono senso dalle operazioni logiche e semantiche degli autori umani.Per perfezionare ranking e procedure di indicizzazione dei contenuti di rete, Google Search, inoltre, sfrutta la conoscenza collettiva espressa e distribuita in rete con altre procedure computazionali, valutando quantità e qualità dei link realizzati verso ogni risorsa da altri esseri umani, effettive aperture delle pagine indicate nelle proprie liste, tempo di permanenza e ritorni su ciascuna di esse. Insomma, Alphabet usa lavoro invisibilizzato per qualificare sempre più i propri servizi, per di più con potenza di calcolo ormai ineguagliabile, frutto di investimenti che ne fanno un monopolio di fatto. La sua efficienza è costruita su quantità delle ricerche e finalità, modalità e abitudini di interrogazione e reazioni di chi lo consulta. Questo consente di individuare le preferenze dei singoli e di conformarvi i risultati: la conoscenza è intesa come bene di consumo e l’indagine è filtrata in una logica customer care. Siamo davvero lontani, insomma, da un’idea di ricerca scientifica, obiettiva, tanto che l’azienda ha realizzato Google Scholar, che scandaglia materiali accademici, centri di ricerca, riviste accreditate e così via. Il consumatore di conoscenza è un micro-target per il marketing pubblicitario personalizzato (d i ret to o con cessione a terzi dei profili ricavati) e per il mercato dei prodotti predittivi e dell’influenza sui comportamenti. A questa profilazione, resa sempre più efficace e invasiva dal pedinamento quotidiano da parte delle applicazioni presenti sugli smartphone, concorrono gli altri servizi a marchio Google, diffusi con una gratuità obbligante e pervasiva. Questo è, secondo Zuboff, il nucleo del capitalismo di sorveglianza, che caratterizza tutte le multinazionali digitali e che si fonda sul dominio dei flussi informativi, comprese le relazioni interpersonali. Facebook, infatti, estende il monitoraggio automatizzato allo spazio della reputazione personale, reso a sua volta una prestazione, misurata con apprezzamenti (like) e condivisioni.

    TECNO-EMANCIPAZIONE

    È possibile reagire? La prima soluzione alternativa è l’astensione dall’uso di software proprietario (Windows, MacOsX e così via) a favore del software libero, che non esige pagamenti di royalties. Si può inoltre ricorrere a motori di ricerca che non profilano gli utenti(DuckDuckGo). Questa scelta si colloca in un campo diverso e distante da quello del capitalismo di sorveglianza, perché considera la dimensione digitale della conoscenza un fattore sociale dello sviluppo umano solidale e non una merce; ma non è certo sufficiente, perché è poco più di una pratica depurativa personale o di gruppo, una testimonianza. interventi Bisogna andare oltre, recuperare iniziativa politica, volontà di trasformazione, perché è inaccettabile e pericoloso che la sfera e il discorso pubblico siano sostituiti e condizionati da rapporti di comunicazione mediati da aziende private multinazionali. E perché in questo periodo abbiamo almeno due campi in cui è possibile una significativa mobilitazione critica, che imponga un’assunzione di responsabilità istituzionale diretta: istruzione e salute. Dobbiamo infatti rivendicare piattaforme digitali pubbliche finanziate con il Recovery fund e gestite in nome e per conto della Repubblica, con architettura funzionale, negoziata in modo partecipato, aperta, controllata e garantita. Per quanto riguarda l’istruzione, la piattaforma deve essere orientata da cooperazione, scambio, confronto non competitivo, diffusione, redistribuzione, inclusione. Nel caso della salute, va rispettata la riservatezza dei dati sensibili, ma – e soprattutto – l’impiego dell’intelligenza artificiale deve obbedire a un chiaro mandato di utilità pubblica, con procedure trasparenti, secondo criteri di prevenzione bio-medici e statistici; ma anche civici, etici, ecologici, economici e sociali, espliciti, condivisi e noti. In ambo i casi va esclusa ogni profilazione degli utenti a fini di lucro e va riconosciuto il valore individuale e sociale del lavoro prestato. Realizzazione concreta e aspetti operativi spettano a chi ha le capacità tecniche, ma con l’occasione va scardinata ogni impostazione tecnocratica, che si arroga sia il diritto di individuare i problemi, sia la potestà esclusiva di articolare le soluzioni, definire parametri e criteri di efficienza, valutare l’efficacia dei meccanismi. Insomma, dobbiamo contribuire a costruire una dimensione digitale della conoscenza davvero democratica, che abbandoni la logica delle procedure decisionali e orientative – coperte da brevetti proprietari assimilabili a segreti militari e finalizzate alla massimizzazione del profitto –, a favore di un approccio collettivo consapevolmente etico a raccolta, possesso e impiego dei dati e all’apertura di spazi di rete aperti e cooperativi, dove assegnazione di credenziali ed eventuale tracciamento delle operazioni compiute siano consensuali e trasparenti, soltanto in funzione dell’interesse generale. Mai più adeguamenti fiduciari, firmati in bianco o rilasciati a propria insaputa.

    Bibliografia consigliata

    A. Casilli, Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, 2020M. Hindman, La trappola di internet: come l’economia digitale costruisce monopoli e mina la democrazia, Einaudi, 2019E. Pariser, Il filtro. Quello che Internet ci nasconde,Il Saggiatore, 2012S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, LUISS, 2019

    Marco Guastavigna, già insegnante di scuola secondaria, attualmente formatore e professore a contratto; cura il blog concetticontrastivi.org, dedicato alle tematiche di questo contributo, e tiene traccia della sua attività in www.noiosito.it

    Pubblicato sul numero di novembre del bimestrale SU LA TESTA

    www.sulatesta.net

    Tags: Amazon Google lavoro digitale liberismo piattaforme digitali recovery fund rider Sorveglianza sociale SU LA TESTA tecnologia uber
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