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Commenti di Mauro Biani

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    Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache Politiche, Cronache Sinistra Europea, Cronache Sociali, Culture, Editoria Libera, Politiche di Rifondazione, Storia e Lotte — Maggio 28, 2022 8:00 am

    Memoria storica dell’Italia anni 70. L’antefatto della strage di Piazza della Loggia il 28 maggio 1974: le lotte di classe a Brescia nei primi anni Settanta

    La strage di Piazza della Loggia

    Pubblicato da franco.cilenti

    Per capire cosa sia stata la strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974 è indispensabile fare un passo indietro di alcuni anni. Anni cruciali che hanno rappresentato uno spartiacque nella storia dell’Italia repubblicana, lungo il decennio che va dalla fine degli anni sessanta a buona parte dei settanta.

    Il 20 maggio 1970 entra in vigore lo Statuto dei diritti dei lavoratori. E’ una vera rivoluzione perché, per la prima volta dalla fondazione della Repubblica, la Costituzione varca le stanze chiuse di ogni luogo di lavoro. La fabbrica non è più una zona franca, dominio esclusivo del padrone. Si riconosce e formalizza in modo cogente che i lavoratori hanno il diritto di organizzarsi e di tutelare i propri interessi in forma conflittuale, l’attività antisindacale viene punita in quanto reato, i licenziamenti di cui sia dimostrata l’illegittimità vengono revocati, la tutela dell’integrità psico-fisica dei prestatori d’opera viene con forza affermata. Da universo concentrazionario dove è possibile ogni arbitrio padronale la fabbrica diventa luogo dove in forza di legge è possibile affermare i diritti di cittadinanza, la libertà di pensiero, di attività sindacale.

    Ma lo Statuto non piove dal cielo. Esso è il frutto di una straordinaria stagione di lotte operaie che conquistano sul campo parte rilevante dei risultati che ora trovano una legittimazione legislativa.

    Il contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici del 21 dicembre 1969, firmato dopo oltre 180 ore di sciopero, viene vissuto dai vertici confindustriali come uno smacco insopportabile.

    Ma il movimento operaio che era stato protagonista di quella impetuosa stagione non si ferma. E realizza forme

    inedite di rappresentanza sindacale che prevedono un intreccio di democrazia diretta e democrazia delegata e rimodellano lo stesso rapporto fra sindacato esterno e rappresentanza interna. Nascono i consigli di fabbrica. I delegati non sono più di nomina esterna ma vengono eletti da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato. Ogni reparto o gruppo omogeneo diventa una sorta di collegio uninominale, dove ognuno è elettore ed eleggibile. Vige la revoca del mandato, se sottoscritta dal 50%+1 dei lavoratori di cui il delegato è espressione.

    Ciò che rende questa esperienza un unicum nella storia del sindacalismo mondiale è la decisione del sindacato di mettere in capo ai delegati liberamente eletti i poteri che lo Statuto attribuiva alle Rsa di designazione sindacale. Prima nei metalmeccanici, in seguito anche nelle altre categorie, i consigli di fabbrica diventano il primo livello unitario della struttura sindacale, a cui si riconoscono poteri di contrattazione e di rappresentanza.

    Questa potente iniezione di democrazia, che sorge direttamente dalla base, diventa l’elemento propulsore, direi scatenante, di una capillare vertenzialità quale non si era mai vista in precedenza.

    I padroni non mandano giù il rospo e ogni vertenza produce uno scontro di grande durezza. Prima ancora di guadagnare il tavolo di trattativa occorre fare riconoscere come interlocutori del negoziato i consigli di fabbrica. Davanti ai cancelli si consumano veri e propri corpo a corpo, con i crumiri e con i fascisti che appaiono sempre più frequentemente sulla scena, sistematicamente spalleggiati dalla polizia e dai carabinieri. Non solo, ormai, davanti alle fabbriche metalmeccaniche, ma anche davanti a quelle tessili, dell’abbigliamento e calzaturiere dove sono le donne a guidare e sostenere le battaglie più dure.

    I padroni non ci stanno: “Bisogna fermarli. A qualsiasi costo”

    I padroni bresciani si riorganizzano, si moltiplicano le riunioni di associazione nelle quali essi manifestano tutta la propria rabbia per quella che chiamano un’usurpazione, una violazione della proprietà privata, la fabbrica divenuta teatro di un conflitto di potere quotidiano. Un sentimento si fa strada sempre più acuto nel padronato: “bisogna fermarli. A qualsiasi costo”.

    Torna a galla “il marcio di Salò”, la parte più intrisa di fascismo, strutturalmente ostile al sindacato, abituata a trattare con il bastone i rapporti sociali.

    Giorgio Almirante viene sistematicamente a Brescia: a Nave, a Lumezzane, sul Garda. Qui si incontra con gruppi di imprenditori, soprattutto siderurgici, garantendo loro sostegno attivo. Vengono assunte squadre di picchiatori fascisti (all’Idra di Pasotti, alla Fenotti &Comini, alla Palazzoli) con il solo compito di intimidire i lavoratori.

    I prodromi della strage

    Dal 1970 in avanti è un crescente stillicidio di attentati alle sedi sindacali, del Pci e dello Psiup; si moltiplicano gli agguati a militanti di sinistra, militanti del movimento studentesco vengono aggrediti da gruppi di fascisti che fanno capo ad Ordine Nuovo.

    Inutilmente il Comitato Unitario Provinciale Antifascista interviene presso prefetto e questore per chiedere un intervento nei confronti di organizzazioni di cui si conoscono perfettamente nomi e intenzioni. E’ sempre più chiaro che i fascisti contano di simpatie, connivenze, quando non aperto sostegno negli organi istituzionali e di polizia.

    Dieci giorni prima della strage un fascista, Silvio Ferrari, salta in aria con il suo scooter mentre trasporta un ordigno destinato ad un attentato.

    28 maggio 1974: la strage

    Nei giorni immediatamente successivi viene proclamata dal CUPA una manifestazione antifascista a cui il sindacato aderisce unitariamente proclamando per quel giorno uno sciopero generale di 4 ore che si svolge sotto una pioggia battente.

    Alle 10,12, mentre è in corso il comizio, sotto il portico adiacente alla piazza, esplode la bomba: alla fine saranno 8 i morti e 108 i feriti. Muoiono sei insegnanti, l’intero gruppo dirigente della Cgil scuola che si era dato appuntamento nei pressi del cestino dei rifiuti dove era stato deposto l’ordigno per discutere di una iniziativa per sostenere la gratuità dei libri di testo. Muoiono dilaniati anche due operai ed un pensionato, ex partigiano.

    Di tutti gli eccidi perpetrati nel corso della strategia della tensione, quello di Brescia è il più direttamente rivolto contro i lavoratori. Questa volta non viene scelto un luogo neutro (una banca, un treno, una stazione) dove sparare nel mucchio per creare terrore. L’obiettivo questa volta è esplicito e diretto: il nemico dichiarato è il movimento operaio.

    Lo sconvolgimento è totale, sangue ovunque, scene di disperazione, ma non prevale il panico. La piazza non viene abbandonata. Si prestano i primi soccorsi ai feriti. Solo due ore dopo lo scoppio il vicequestore e il capitano del nucleo investigativo dei Carabinieri procedono al lavaggio della piazza, facendo scomparire reperti essenziali per comprendere la natura dell’esplosivo utilizzato dagli attentatori: è il primo di una lunga serie di depistaggi messi in atto dagli apparati dello Stato.

    La prima risposta: occupare le fabbriche e assemblee ovunque

    Immediatamente si decide di andare in massa alla Camera del lavoro che da quel momento diventerà lo stato maggiore che dirigerà per tutti i giorni a seguire la risposta operaia e popolare: una sorta di agorà nella quale partecipazione spontanea e organizzazione troveranno una sintesi perfetta.

    La prima, fondamentale decisione è quella di prolungare sino a tutto il giorno dopo lo sciopero, rientrare nelle fabbriche, occuparle e svolgervi assemblee aperte a cittadini, partiti democratici, studenti. Anche il movimento studentesco bresciano decide l’occupazione di tutti gli istituti medi superiori.

    L’obiettivo è quello ti tenere assieme i lavoratori, impedire che prevalga lo scoraggiamento e, nel contempo, produrre un’analisi lucida della situazione e farlo nel corpo vivo del movimento.

    Si organizzano centinaia di assemblee in tutte le grandi e medie fabbriche dove confluiscono i lavoratori delle piccole aziende. E’ un popolo intero che si mette in moto. Saranno due giorni di impressionante tensione emotiva nei quali migliaia di lavoratori e lavoratrici prendono parola. Se si sfogliano le centinaia di verbali redatti nel corso delle assemblee non si può non essere colpiti dalla istintiva percezione che con sicuro istinto politico corre da fabbrica a fabbrica, da persona a persona: l’attentato è contro di noi, contro ognuno di noi, contro quello che siamo e che stiamo facendo: ci sono i fascisti, certo, ma i mandanti stanno altrove, ci sono i padroni, ci sono i servizi, ci sono gli apparati dello Stato, c’è il potere costituito.

    La democrazia di massa si organizza

    Come accade in rare occasioni, dopo un primo, breve momento di smarrimento, si genera una situazione totalmente nuova, certamente imprevista ed opposta a quella immaginata dagli ideatori della strage: al senso di paura, all’orrore e allo sbigottimento subentra la mobilitazione. E’ la democrazia di massa che si organizza: la fabbrica, il luogo del conflitto sociale ne diventa l’epicentro. E’ lì che ciò che potrebbe disperdersi si riaggrega, istantaneamente. Attraverso la discussione si ricostruisce l’intelligenza dei fatti, si analizza, si decide, si elabora la ferita subita e si trasforma la rabbia in risposta politica, in stretto rapporto con un sindacato che entra in risonanza con questi sentimenti e guida il movimento, senza impossibili briglie, ma con mano sicura. Le richieste sono chiarissime: mettere fuori legge il Msi, epurare dagli apparati dello Stato quanti sono transitati in perfetta continuità dallo Stato fascista a quello repubblicano, rendere obbligatorio lo studio della Costituzione nelle scuole di ogni ordine e grado.

    Dalla piazza alla fabbrica e viceversa: la città in mano agli operai

    Poi, la seconda fase. Il processo che si determina è biunivoco e transitivo: dalla piazza insanguinata alla fabbrica e poi di nuovo alla piazza e quindi a tutta la città, governata, presidiata dai Consigli. Sono migliaia i delegati che presidiano ogni via d’accesso alla città, ogni piazza. Alla strage caratterizzata dal più alto tasso di politicità possibile si oppone ora una risposta altrettanto politica.

    I due giornali quotidiani bresciani e non solo, colgono che si respira, nei giorni che vanno dall’eccidio ai funerali, un’atmosfera “rivoluzionaria”, quale era possibile cogliere solo nei giorni della Liberazione, dove vigilanza, disciplina, controllo del territorio sono rimessi nelle mani di migliaia di operai, di delegati con bracciale rosso al braccio che costruiscono un nuovo “ordito” democratico.

    I funerali: giù le mani dai nostri morti!

    I funerali sono stabiliti per il 31 maggio, a 4 giorni dall’attentato. Presidenza della Repubblica e Presidenza del consiglio vogliono i funerali di Stato e fanno pressione sui sindacati nazionali affinché se ne rispetti il cerimoniale che prevede solo interventi istituzionali. Luciano Lama chiama la Camera del lavoro di Brescia e propone di risolvere la questione prevedendo che in una data successiva alla cerimonia ufficiale se ne svolga una sindacale. La richiesta è seccamente respinta: i morti sono nostri, la bomba è contro di noi. Se insistono, noi non faremo i funerali di Stato. La condizione è che fra gli oratori ci sia proprio Luciano Lama: prendere o lasciare!

    Quel giorno, il 31 di maggio, arriva a Brescia più di mezzo milione di persone. Le due piazze e le vie adiacenti a Piazza della Loggia sono gremite all’inverosimile. Striscioni dei consigli di fabbrica e bandiere rosse ovunque.

    Tutta la gestione organizzativa e persino la sicurezza è nelle mani del sindacato. Né il presidente della Repubblica, né le autorità locali sono in grado di opporsi: le forze dell’ordine sono relegate nel cortile della prefettura e nelle caserme.

    La contestazione alle autorità

    La Brescia ufficiale, custode dei poteri istituzionali, ancora non capisce. Non capisce il decano di tutti i sindaci d’Italia, rimasto in carica per quasi 20 anni, dai giorni successivi alla Liberazione, che nel discorso pronunciato ai funerali dei caduti cercherà invano – subissato dai fischi – di derubricare la strage a fatto locale, gesto folle di isolati.

    Non capisce il vescovo di Brescia, monsignor Morstabilini, che nella sua omelia non saprà andare oltre un’innocua invettiva contro lo “spirito di Caino”. Capisce ancor meno – ma come potrebbe! – il presidente della Repubblica Giovanni Leone, che resterà muto ed impietrito di fronte alla piazza che lo contestava dopo avere tentato, senza successo, di ottenere una revisione edulcorata dei discorsi ben altrimenti espliciti degli altri oratori.

    Capisce perfettamente il presidente del Consiglio, Mariano Rumor, che rinuncia a prendere parola.

    Il corteo funebre che per tre chilometri e mezzo percorre le strade cittadine, dalla piazza al cimitero Vantiniano, si snoda fra folte ali di folla. Il selciato è totalmente coperto di fiori, si intravede appena l’asfalto sottostante.

    Un nuovo “ordito” democratico, una nuova legalità costituzionale

    Ormai si era aperta una cesura, una vera e propria frattura: alla delegittimazione di poteri istituzionali privi di credibilità corrisponde l’affermazione di un movimento di massa che rivendica e soprattutto pratica una nuova legalità costituzionale, forse per la prima volta così esplicito, dai giorni della sconfitta del fascismo. Per questo quel sedimento, estesamente penetrato nella coscienza collettiva, è durato. Per questo il ’74 diventa, a Brescia, il mito propulsore di una nuova fase dei rapporti sociali, di un rilancio delle istanze di rinnovamento sociale e politico radicale che ispirarono le lotte del ’68 e del ’69. Per questo si verificherà negli anni successivi – come ricordò Claudio Sabattini – un doppio movimento che imporrà un mutamento dei rapporti di forza tanto in fabbrica quanto nel rapporto fra cittadini e istituzioni. Non a caso prende corpo, in quegli anni, la breve ma intensa esperienza dei Consigli di zona, vale a dire il più ambizioso tentativo operaio di proiettare all’esterno della fabbrica, nel territorio, nella società civile quella carica egualitaria di rinnovamento e di partecipazione che aveva innervato le lotte di fabbrica e che aveva attratto a sé forze intellettuali e strati sociali fino a poco tempo prima refrattari o diversamente dislocati. Per questo, infine, in quella temperie poté forgiarsi e perdurare una leva di quadri di estrazione operaia che segnerà a lungo la storia eccentrica quanto feconda del sindacalismo bresciano.

    Sappiamo chi è STATO

    Come sappiamo, tutto questo non è stato sufficiente a Brescia – come prima a Milano e poi a Bologna – a individuare e sanzionare giuridicamente i mandanti dello stragismo nero, i protagonisti della strategia della tensione. C’è però una verità politica e storica che nessuna acrobazia, nessun depistaggio, tuttora coperti da interessate omertà, può cancellare.

    Il giudizio politico e la stessa ricostruzione degli eventi, della trama che li preparò, sono stati già ampiamente conseguiti, sin da quando, il 1° giugno del ’74, in piazza della loggia comparve per la prima volta lo striscione che portava scritto “Sappiamo chi è STATO”.

    Le inchieste, i processi, fra omissioni e depistaggi

    La catene processuale durò oltre 40 anni. E da subito si mise in moto la catena di depistaggi, di manomissione delle prove.

    Siamo nell’epoca delle “larghe intese”, della “solidarietà nazionale”, che a Brescia ha radici profonde. E c’è un teorema politico che guida l’indagine giudiziaria: bisogna circoscrivere il campo delle responsabilità, da limitare ai fascisti locali, del tutto privi di legami esterni.

    Così recintata, la prima inchiesta dei sostituti pm Vino e Trovato porterà, nel luglio del ’79, alla condanna all’ergastolo del mitomane Ermanno Buzzi e Angelino Papa, personaggi in bilico fra criminalità comune e neo-fascismo. Tutti gli altri imputati, anch’essi appartenenti alle organizzazioni del fascismo bresciano, verranno assolti per insufficienza di prove o con formula piena. Penseranno Mario Tuti e Pierluigi Concutelli, uomini di Avanguardia nazionale, a “giustiziare” Ermanno Buzzi tappandogli la bocca per sempre nel carcere di Verona.

    Sarà la corte d’assise d’appello, nel marzo dell’82, a dimostrare la totale infondatezza della precedente sentenza e ad assolvere tutti: giudizio confermato

    La Cassazione che annulla la sentenza e dispone che si rifaccia il processo: nuovi imputati (compaiono fra questi anche il comandante dei carabinieri Delfino e Pino Rauti), ma identico esito. Tutti assolti.

    La Cassazione annulla anche questa sentenza e si torna a chiedere che si ricominci da capo. Ma anche tutte le successive sentenze, nei vari livelli di giudizio (’89, ’93, 2010, 2012) portano allo stesso punto morto.

    La Cassazione stabilisce che un nuovo processo dovrà accertare le responsabilità di due degli imputati che nei processi di primo e secondo grado erano stati assolti: Maurizio Tramonte, un uomo vicino ai servizi, che tanto ha parlato negli anni di eversione e bombe, e Carlo Maria Maggi, ottantenne medico veneziano, all’epoca a capo di Ordine Nuovo nel Veneto. Nel 2015, quarantun’anni dopo la strage, si conclude l’iter processuale con la condanna all’ergastolo di Maggi e Tramonte.

    Buio sui mandanti: la durissima requisitoria del giudice Zorzi

    Buio totale sui mandanti, sui depistaggi e sulle complicità istituzionali. Sarà il giudice istruttore Zorzi a denunciare l’esistenza di un meccanismo “che fa letteralmente venire i brividi, soprattutto di rabbia, in quanto è la riprova, se mai ve ne fosse bisogno, dell’esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo”.

    Nelle motivazioni della sentenza si possono leggere queste drammatiche parole, sufficienti a spiegare quali forze si sono mosse per nascondere la verità sotto una colata di cemento: “Lo studio dello sterminato numero di atti che compongono il fascicolo dibattimentale porta ad affermare che anche questo processo, come altri in materia di stragi, è emblematico dell’opera sotterranea portata avanti con pervicacia da quel coacervo di forze individuabili con certezza in una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza dello Stato, nelle centrali occulte di potere che hanno prima incoraggiato e supportato lo sviluppo dei progetti eversivi della destra estrema e hanno sviato, poi, l’intervento della magistratura, di fatto rendendo impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità. Il risultato è stato devastante per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche, visto che sono solo un leader ultraottantenne e un non più giovane informatore dei servizi, a sedere oggi, a distanza di 41 anni dalla strage sul banco degli imputati, mentre altri, parimente responsabili, hanno da tempo lasciato questo mondo o anche solo questo Paese, ponendo una pietra tombale sui troppi intrecci che hanno connotato la mala-vita, anche istituzionale, dell’epoca delle bombe”.

    In tutte le stragi di cui oggi abbiamo parlato si è vista l’alacre attività di depistaggio degli apparati dello Stato.

    A Brescia si parlò di “pista libica”, poi si sostenne che la bomba fosse rivolta non già contro i manifestanti, ma contro le forze di polizia che di solito stazionavano nel luogo dove esplose l’ordigno; infine si cercò incredibilmente di attribuire l’attentato ad Euplo Natali, il pensionato ed ex partigiano perito nell’esplosione! Altrettanto, come è noto, accadde per la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano, quando la “pista anarchica” che portò all’incriminazione di Pietro Valpreda e all’assassinio di Giuseppe Pinelli negli uffici della questura milanese fu ampiamente sostenuta dalle autorità istituzionali e da una potente campagna mediatica. E a Bologna, dove ancora oggi si tenta di attribuire l’attentato alla stazione ferroviaria ad una trama palestinese!

    La strage di Brescia: una fase (e una modalità) della lotta di classe in Italia

    Le stragi nere – e in modo esemplare quella di Brescia – sono state una fase (e una modalità) della lotta di classe in Italia. Una fase nella quale le classi dominanti e parte cospicua del loro personale politico hanno usato il fascismo e il terrore per impedire una profonda trasformazione dei rapporti sociali in italia.

    I conti mancati con il fascismo e il “sovversivismo” delle classi dominanti

    C’è un’ultima riflessione da fare, una riflessione da riprendere in altra sede, ma del tutto congrua ai fatti che oggi abbiamo esaminato: nel nostro Paese i conti con il fascismo non sono mai stati fatti e la stessa promulgazione della Costituzione, sortita dalla lotta di Liberazione, è stata vissuta come una parentesi dalle classi dominanti, il cui latente sovversivismo è pronto a riemergere ogniqualvolta la situazione lo richieda.

    Vale infine la pena di chiedersi, a quasi mezzo secolo di distanza dalla strage di Brescia, se questa consapevolezza, che fu così forte in quel tempo, sia ancora tale, oppure, come a me pare, se l’oblio non sia ampiamente calato su quel tratto di storia, divenuta tristemente estranea alle nuove generazioni e in parte rimossa dalla memoria di quelle più anziane. Il danno è grave e chiama in causa molte recidivanti, colpevoli amnesie, troppe indulgenze e troppe indolenze, il cui effetto più nefasto è quello di avere consentito che rientrassero in circolo tossine, veleni di cui pensavamo di esserci liberati per sempre.

    Dino Greco

    Resp. Formazione, PRC-S.E.

    28/5/2022 http://www.rifondazione.it

    Tags: Anni 70 Brescia Dino Greco fascismo lotta di classe MSI Neofascismo servizi segreti deviati strage di piazza della Loggia stragi fasciste
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    Autore: franco.cilenti
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