La surreale riapertura delle università

Dopo il referendum costituzionale anche le Università riapriranno. Negli scorsi mesi parte della docenza ha richiesto a gran voce la riapertura, senza titubanze e con tutte le attività svolte in presenza, presentando come argomento a favore quello per cui, visto che la movida giovanile era stata ripristinata in tutte le sue forme più imprudenti, allora non si vedeva perché gli atenei dovessero rimanere serrati. Questo argomento era già allora inaccettabile. Il prezzo della movida estiva l’abbiamo sperimentato con la ripresa dei contagi, mentre le discoteche (spesso citate dagli aperturisti) sono di nuovo chiuse.

A tali argomenti, poco degni per degli studiosi, se ne sono aggiunti di retorici col richiamo all’università come comunità che si nutre della presenza (che vive di sguardi, com’è giunto ad affermare un documento ufficiale del mio ateneo). Per carità, l’università in presenza è un’esperienza formativa per gli studenti, fra i quali si sviluppano solidarietà ed emulazione. Più raramente fra studenti e docenti. Figuriamoci poi in piena pandemia. Tutto questo va comunque commisurato con le ragioni di sicurezza pubblica e l’università, invece di accodarsi a forme affrettate e rischiose di riapertura, dovrebbe dare un segnale di compostezza. Specie alle nuove generazioni.

Molti atenei si sono, d’altronde, sentiti preoccupati per il possibile calo delle iscrizioni che poteva colpire soprattutto quelli che dipendono da un flusso studentesco dal Mezzogiorno. In alcuni atenei medio-piccoli, in cui il background cittadino dipende dal flusso di risorse economiche apportate dagli studenti fuori sede, la preoccupazione e la pressione alla riapertura è stata maggiore. La ripresa della didattica avverrà nella gran parte degli atenei in forma mista, ovvero le lezioni si svolgeranno in presenza e verranno contemporaneamente trasmesse online.

Si intende in tal modo continuare ad attrarre quegli studenti del mezzogiorno che non si sentono o non possono muoversi, evitando che essi si rivolgano alle università locali o ad atenei concorrenti. Ѐ infatti emerso il sospetto che alcune grandi sedi universitarie del nord, offrendo corsi online, potessero spiazzare atenei meno blasonati (meglio un titolo online in una grande università di prestigio che in presenza presso un ateneo medio-piccolo). Il modello misto mirerebbe così a introdurre in maniera surrettizia, con la scusa dell’epidemia e senza un adeguato dibattito nel merito, una forma pericolosa di concorrenza fra atenei e una modifica del modello didattico tradizionale.

Come si vede le ragioni effettive della riapertura e con modalità mista, pur comprensibili, sono meno nobili di quelle del ricomporre la comunità universitaria in presenza. Tanto più che la didattica mista non è una buona cosa. Chi scrive ne ha esperienza. Si fa lezione davanti a uno schermo (questa volta anche indossando una mascherina) senza potersi alzare, scrivere alla lavagna ecc. Ai fautori della modernità piacerà. In verità si perde gran parte del valore della didattica in presenza, quella comunicazione diretta che a parole si vuole preservare (chalk and talk lo chiamano gli anglosassoni, gesso e conversazione). E se tanto mi dà tanto, l’online puro (da casa per capirci) è assai migliore – non si deve indossare la mascherina e si organizza una didattica ad hoc con momenti di discussione impossibili negli infernali orari escogitati per consentire la didattica mista, con gli inevitabili protocolli surreali e con la tensione dell’incombente pericolo sanitario.

Tutto questo quando in Italia – anche grazie ai gruppi studenteschi progressisti – la frequenza non è purtroppo obbligatoria e i corsi che iniziano con le aule piene terminano con pochi sparuti resistenti. La riapertura generalizzata (invece che selettiva) degli atenei comporterà anche un aggravio sui mezzi di trasporto pubblico. Accentuerà gli spostamenti inter-regionali in una fase di ripresa dell’epidemia. Ripristinerà forme di pericolosa promiscuità fra gli studenti (la famigerata camera doppia). Gli atenei saranno possibili nuovi focolai, vanificando le preziose risorse impiegate per organizzare la didattica mista. Non mi risulta peraltro che gli atenei abbiano previsto con enti locali, associazioni e strutture sanitarie, adeguate strutture di accoglienza per sintomi lievi e quarantena, sì da non far tornare gli studenti nelle camere doppie e non lasciando in mezzo a una strada i docenti non residenti.

Tutto questo quando tutti gli sforzi ed i rischi da assumere dovrebbero essere comunque rivolti alla riapertura delle scuole. Queste sì inevitabilmente in presenza. Ma questo significa che gli atenei dovevano rimanere chiusi? Assolutamente no. Andava programmata un’apertura selettiva. Per esempio: aprire biblioteche e laboratori a ricercatori, dottorandi e laureandi, attivare i soli corsi del primo anno per venire incontro alle matricole che han già perso un anno di scuola, progettare un’attivazione più ampia dei corsi in presenza nelle meno numerose facoltà scientifiche.

Il grosso dei corsi si sarebbe dovuto tenere a distanza con l’obiettivo di far tornare tutto e solo in presenza nel nuovo anno, epidemia permettendo. Paradossalmente, questo modello di apertura selettiva non solo avrebbe garantito maggiore sicurezza, ma anche impedito quelle forme miste di didattica su cui si sono appuntate le apprensioni di molti docenti. Ciò in quanto l’insegnamento online (da remoto) sarebbe esplicitamente adottato quale una forma temporanea di didattica senza stabilizzare forme miste. Si sarebbe certo chiesto un sacrificio agli studenti più maturi. L’impegno dei docenti, in particolare dei molti preoccupati di mantenere l’idea comunitaria di università, doveva volgere a rendere la temporanea didattica a distanza un’opportunità per una maggiore vicinanza con gli studenti, attraverso webinar dedicati agli approfondimenti critici. Vicinanza che, non ci prendiamo in giro, manca in genere proprio in presenza. Figuriamoci poi con l’epidemia.

Assente è stato ogni coinvolgimento democratico dei docenti nelle scelte. Ma, soprattutto, la riapertura in presenza è, a dir poco, immorale nei confronti della fascia più anziani dei docenti. Un professore ordinario rimane in genere in servizio fino a settant’anni e spesso oltre in forma volontaria. Almeno dopo i 62-65 anni di età la scelta di insegnare in presenza deve essere lasciata alla decisione volontaria dei docenti. Esenzioni sono attualmente previste nel caso di patologie serie che hanno rappresentato concause conclamate di fatalità nel caso di contagio. Si dà però il caso che un recente documento dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Istat abbia dimostrato che in quasi un terzo dei casi le fatalità non hanno concause:

COVID-19 è una malattia che può rivelarsi fatale anche in assenza di concause. Non ci sono infatti concause di morte preesistenti a COVID-19 nel 28,2% dei decessi analizzati, percentuale simile nei due sessi e nelle diverse classi di età. Solo nella classe di età 0-49 anni la percentuale di decessi senza concause è più bassa, pari al 18%.” (report IstSupSan-ISTAT),

O meglio, a ben vedere, questo 28,2% ha una concausa: l’anzianità del soggetto. I pericoli sono poi maggiori per i docenti fuori-sede, ma questo non lo si può dire, perché il pendolarismo viene quasi considerato un privilegio e non un sacrificio, quando è una realtà fisiologica specie per atenei in città medio-piccole. Credo che il ministero e gli atenei si stiano assumendo una responsabilità perlomeno morale non indifferente. Che almeno la si smetta di parlare dell’università come comunità.

Sergio Cesaratto

Professore ordinario Università di Siena/Full professor
Dipartimento di economia politica e statistica

Piazza San Francesco 7 – 53100 Siena

12/9/2020

Foto: Il Mattino – Quifinanza

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