La tecnologia non libera il lavoro

Il termine «Industria 4.0», è apparso per la prima volta in Germania nel 2011 alla Hannover Messe, una delle maggiori fiere commerciali del mondo. Inneggiando a una sorta di «quarta rivoluzione industriale», è diventata rapidamente da allora un’etichetta nota per descrivere il programma politico-economico dello stato tedesco. Il termine «digitalizzazione» viene spesso utilizzato come suo analogo, essendone alla base per quanto riguarda il lato tecnico-processuale: si tratta infatti di mettere in campo nuove strategie produttive attraverso l’utilizzo della messa in rete di dati, piuttosto che intelligenze artificiali e altre tecnologie computerizzate. 

Questa analogia, però, rimane controversa: in questo articolo, discutiamo dieci punti rilevanti per scardinare il concetto anche dal punto di vista politico e sociale, traendo, per quanto riguarda l’Italia, la conclusione che il paese deve al più presto affrontare i suoi rapporti commerciali con la Germania.

1. Il Paradosso della Digitalizzazione

In Germania, si sostiene comunemente che «la digitalizzazione cambi radicalmente il modo di lavorare», con ipotesi tanto diffuse quanto sbagliate. L’idea che il lavoro possa smarcarsi dalla giornata di 8 ore, ad esempio, ha come controparte il fatto che i lavoratori siano tendenzialmente in obbligo di reperibilità 24 ore, e spesso si dimentica quanto sia alta la percentuale di contratti messa a repentaglio dalla digitalizzazione. La tecnologia digitale rende indubbiamente possibile lavorare da qualsiasi luogo, ma costringendo nella realtà dei fatti i lavoratori a controllare le e-mail di lavoro sui loro smartphone 24 ore su 24, principalmente a causa delle richieste incessanti dei loro superiori. 

I robot possono aumentare la produttività del lavoro; ma se questo significhi più tempo libero per i dipendenti o disoccupazione per alcuni e stress per altri, non dipende dalla tecnologia, ma dall’economia che ne è alla base. Non è una questione di come o cosa viene prodotto, ma per quale scopo.

Il concetto di «digitalizzazione» diventa dunque una messinscena. Proviamo a prendere spunto dal linguaggio di ogni giorno per comprendere il concetto: nell’affermazione «piove», tutti sanno che non c’è nessun «esso» che compie l’atto stesso di piovere; «esso» sta piuttosto per una certa situazione meteorologica. Nel concetto di «digitalizzazione», è nascosto quale soggetto la metta in atto e per quali ragioni. Perché, chi ottiene o mantiene un lavoro, come debba essere svolto questo lavoro e come venga pagato, è deciso nel nostro bel mondo dal capitale – e non dalla tecnologia. E il capitale sta digitalizzando il mondo per i suoi scopi.

 2.  La produttività aumenta: eppure

Ad oggi abbiamo a disposizione una grande varietà di dispositivi, innovativi o meno che siano. Grazie a Internet, tutti possono connettersi tra di loro, e non si tratta soltanto di persone: c’è un «Internet delle cose», in cui non solo le macchine sono collegate in rete tra di loro, ma sono connesse anche con la loro produzione. Questo permette di creare «fabbriche intelligenti» in cui si produce di più e con meno lavoro. In parole povere, la produzione aumenta: e con questo, dal nostro punto di vista, abbiamo finito con le buone notizie.

Per chi si limita a essere un entusiasta della tecnologia, vi sono una serie di conclusioni ottimistiche: sarà possibile lavorare meno. Avremo tutti più tempo libero e una vita più sana. La produzione sarà più ecologica e con meno emissioni. In generale, tutto andrà per il meglio. Ma la realtà è che le nuove tecnologie digitali hanno inevitabili conseguenze sociali. Che il lavoro diventi meno per tutti con l’aumento della produttività, o che diventi di più per alcuni mentre altri diventano disoccupati è, come è stato sottolineato nel primo punto, deciso da una questione di economia. E anche questa, è una conclusione parziale.

3. L’aumento della produttività è strumentale al capitalismo

La cattiva notizia è, dunque, che l’aumento della produttività esiste solo perché permette a un’azienda di ridurre i costi e ottenere un maggior vantaggio competitivo. La nuova tecnologia è dunque introdotta solo ed esclusivamente per permettere alla compagnia un incremento del guadagno, tralasciando altre questioni.

Coloro che considerano la tecnologia «innocente», dimenticano il motivo principale per cui esiste l’aumento di produttività nel sistema capitalistico: l’aumento dei profitti. E questo va a discapito di coloro che devono generare questi profitti lavorando con essa.

La produttività, nel capitalismo, non misura il rapporto tra input di lavoro e profitto, ma il rapporto tra capitale investito e profitto realizzato. Questo fa sì che, per mezzo delle nuove tecnologie, il lavoro diventi più intensivo di prima. La preoccupazione non è quindi quella di ridurre la fatica umana, ma di massimizzare il profitto aumentando l’efficienza del capitale investito.

4. Aumenta lo stress da lavoro

Il progresso capitalista ha da sempre la peculiarità di produrre un maggior stress da lavoro, e la digitalizzazione non fa altro che peggiorare la situazione. Ciò che Marx descriveva nel Capitale in relazione alle condizioni dell’industrializzazione, si ripete ora a un livello tecnicamente più alto. Con i computer portatili, gli smartphone e tutto quanto, il singolo dipendente è ora responsabile di un anello ben più vasto e intensivo della catena produttiva; il fenomeno è al pari della catena di montaggio, il cui scopo era ed è di produrre di più in meno tempo, ma ingigantito ancor più da un’ancora maggiore «tensione sulla forza lavoro», per dirla con le parole usate all’epoca da Marx.

Marx si riferiva inoltre anche al sempre più denso «riempimento dei pori» del lavoro, ennesimo concetto ancora attuale e drammaticamente fomentato dalla digitalizzazione. Più le tecnologie digitali acquistate sono costose, più è economicamente sensato tenerle in funzione senza interruzioni, e lo stesso vale per i lavoratori salariati che ne gestiscono le operazioni. Guardiamo ad esempio i dipendenti della logistica di Amazon, i cosiddetti «pickers»: armati di Gps, percorrono il percorso più breve all’interno del magazzino per risolvere le loro incombenze, e i loro superiori ricevono un messaggio se si allontanano dal percorso senza permesso, fosse anche solo per scambiare due chiacchiere tra loro, o andare in bagno o a fumare.

5. Prendiamo coscienza

Che cosa possiamo dunque fare quando il capitale modella la digitalizzazione secondo i suoi interessi e il lavoro appare solo come un mezzo di profitto nel processo? La consapevolezza che la tecnologia sia sviluppata e applicata principalmente per servire il capitale, è un rifiuto dell’illusione di un effetto salutare di essa. È un’indicazione del fatto che abbia conseguenze altamente dannose per chi si ritrova a lavorarvi, e la colpa non è dello sviluppo digitale in sé, ma piuttosto all’aritmetica di base del sistema capitalista che lo realizza e sfrutta a suo favore. Ecco perché non abbiamo bisogno di un nuovo luddismo, ma di un «No!» organizzato contro la riduzione della vita umana a capitale variabile.

Quindi, per non essere degradati a bit e byte della macchina digitale, dovremmo prima di tutto prendere coscienza di come funzioni questa «nuova» economia, e con essa del fatto che siano sempre le stesse persone a trarre profitto da ogni aumento della potenza produttiva: si tratta di coloro che acquistano la nuova tecnologia come capitale, e non di chi si ritrova materialmente a lavorare con essa. Un sistema, in conclusione, limitatissimo anche per le potenzialità di utilizzo delle tecnologie stesse.

6. LIndustria 4.0 e la supremazia tedesca

Come se tutto questo non fosse già abbastanza complesso, facciamo dunque entrare in gioco, finalmente, il protagonista di questa storia. Dal 2011, i politici tedeschi hanno fatto delle nuove tecnologie e della loro diffusione economica una priorità assoluta, tramite l’investimento di milioni di euro per fornire infrastrutture digitali e sostenerne la ricerca. E in aggiunta, inevitabile, a tutto questo, si sta creando un’alleanza indissolubile tra industria, istituti di ricerca e stato: questa è, in parole povere, «l’Industria 4.0» di cui abbiamo inizialmente parlato.

Ed eccoci quindi al punto in cui si differenziano «digitalizzazione» e «Industria 4.0». Mentre la prima descrive una versione ideologica della nuova ondata di aumento della produttività, la seconda si riferisce a un programma preciso e tangibile del governo tedesco che intende catapultare il suo capitale sulle vette del mercato mondiale, attraverso lo sfruttamento di queste tecnologie: ne abbiamo appena analizzato il meccanismo. Industria 4.0 è quindi, innanzitutto, un programma politico-economico.

E anche l’Italia, a partire dal 2017, possiede un programma di questo tipo nelle sue politiche. All’epoca, l’allora ministro dell’Economia Carlo Calenda del Pd, ha varato il «Piano Nazionale Industria 4.0», destinato a far progredire e rendere più competitivo il capitale italiano partendo da forti agevolazioni per l’acquisto di attrezzature di digitalizzazione, software e applicazioni. E come accade di solito in un’ottica di economia privatizzata, gli interessi di Germania e Italia, in questo caso allineati, sono allo stesso tempo sia il punto di partenza per ogni tipo di cooperazione, che quello per ritrovarsi, fondamentalmente, concorrenti sul mercato.

7. Il progetto tedesco è diventato un progetto europeo 

Nel 2014, è stato lanciato un «Progetto digitale» per l’Europa. E sei anni dopo, nel 2020, la presidentessa della Commissione europea Ursula Von Der Leyen ha proclamato per l’Unione europea un obiettivo di «sovranità digitale».

Raggiungere questo obiettivo non significa soltanto espandere le infrastrutture digitali all’interno della comunità, ma anche creare un quadro giuridico europeo comune a riguardo. L’idea di base è quella di trasformare l’Europa in un unico, vasto mercato di tecnologie che possa servire omogeneamente le aziende aiutandole nella loro crescita, con l’obiettivo finale di sfidare aziende americane come Amazon, Google e Facebook o giganti cinesi come Ali Baba.

Questa iniziativa partita dalla Germania, tuttavia, sta ottenendo sempre più dissenso all’interno della Comunità europea stessa: se i diritti nazionali vengono standardizzati a livello europeo, va da sé che le aziende con la maggiore potenza di capitale prevalgano nel nuovo mercato «omogeneo». E, guarda caso, si tratta perlopiù di aziende tedesche. Vi sono dunque risentimento e incertezze tra i partner europei. Michael Roth, ministro per l’Europa al Ministero degli Esteri tedesco, ha già comunicato nell’ottobre 2020 il suo parere a proposito delle obiezioni dei paesi più piccoli dell’Ue: a suo dire, bisogna «superare il piccolo statalismo nazionale» e raggruppare la «proliferazione europea di programmi e strategie in una politica comune». In pratica, Roth ha elegantemente declassato le obiezioni degli stati minori a piccoli capricci nazionalistici mettendo di fatto l’interesse tedesco e quello europeo sullo stesso piano, portando praticamente gli altri stati davanti a una scelta forzata. 

La prima opzione possibile per essi è quella di voltare le spalle all’Europa e alla sua nazione leader, la Germania, rinunciando quindi da subito a una competizione in ambito mondiale. La seconda è invece quella di sottomettersi a un misero ruolo di mercato di vendita per i prodotti tedeschi o di banco di lavoro per le imprese della Germania, di modo tale da condividere in questa posizione i potenziali profitti derivanti dal mercato mondiale.

8. Le leggi sulla protezione di dati? Una strategia economica

Analogamente al conflitto all’interno dell’Unione europea, però, possiamo analizzare cosa succede, su scala più vasta, quando si tratta del mercato tedesco a competere con giganti come Cina e Stati uniti. Alla Germania piace, ad esempio, vantarsi delle sue severe leggi riguardo alla protezione di dati: mentre l’Industria 4.0 tedesca è particolarmente concentrata sul network delle industrie (business to business), gli Stati uniti, con Amazon, Facebook, Apple, Google e Microsoft, sono avanti nella tecnologia «business to consumer», che prevede invece l’uso dei dati dei consumatori come attore di maggioranza.

Come abbiamo detto, in Europa, dal cui libero mercato il capitale tedesco trae i maggiori benefici, il governo della Germania riduce la legislazione dei suoi paesi partner a un mero go-it-alone nazionale, un «piccolo statalismo», laddove va a intralciare le sue ambizioni di egemonia capitalistica. Ma innanzi al colosso americano, sono i tedeschi stessi a difendere a gran voce le proprie legislazioni: e questa non è giustificata come una gretta scissione europea dal resto del mondo, ma piuttosto come un segno di adesione etica a un principio base della propria politica.

Almeno, questo è quello che si potrebbe pensare se ascoltiamo Michael Roth: «Il nostro percorso deve mettere le persone al centro, costruire su principi etici chiari, con alti standard di protezione e sicurezza dei dati e della libertà di espressione, contribuendo a maggiore partecipazione democratica, prosperità e libertà. Così facendo, ci distinguiamo decisamente dal capitalismo dei dati dei giganti tecnologici americani e dal modello cinese con controllo statale e repressione digitale». Perché da nessuna parte ci si concentra più sulle persone che in Europa, dove Daimler organizza la sua produzione tramite Sap e non tramite Microsoft.

9. Ue, Usa e Cina si contendono il dominio del mercato 

Nell’ultimo decennio, in ogni caso, non è stata solo l’Europa a lanciare un progetto di «sovranità digitale». Le nazioni di tutto il mondo stanno sostenendo il proprio capitale interno con programmi di crescita appropriati per rendersi globalmente competitive.

Contemporaneamente alla loro controparte tedesca, anche gli Stati uniti hanno lanciato un  programma di evoluzione industriale digitale. Sotto Donald Trump, ad esempio, in molti Stati americani è iniziata la sperimentazione per i veicoli autonomi, un campo industriale nel quale le migliori chance di dominare il mercato mondiale in futuro sono di coloro che abbiano portato avanti una maggior ricerca tecnologica. Il mercato automobilistico americano si sta dunque attrezzando per arrivare ai livelli di quello tedesco, minacciandolo.

Sotto l’amministrazione Trump, poi, si è verificato un insistente aumento degli attacchi nei confronti del capitale cinese. Esempio prominente, nella sfera dell’IT, è  l’offensiva del governo americano contro Tik-Tok: il bando della piattaforma, che ha diversi milioni di utenti anche negli Stati uniti, sembra attualmente fuori discussione solo perché Trump si è «accordato» con il proprietario cinese Bytedance per trasferire il business statunitense dell’app a, presumibilmente, una società texana.

Negli ultimi anni, il ruolo della Cina nel mercato mondiale si è capovolto, laddove quello che prima era un mero banco di lavoro delle industrie dell’occidente si presenta oggi come il loro più feroce rivale. Con il suo programma «Cina 2025», espanso giusto nel 2020, l’obiettivo è di puntare direttamente al top. Attraverso la sua strategia del «doppio circuito», la Cina vuole rafforzare il suo mercato interno (circuito uno) e intensificare la sua cooperazione con altri paesi asiatici nella digitalizzazione (circuito due), per avere risorse più prominenti nella guerra commerciale contro gli Stati uniti.

Va da sè che il suo obiettivo sia, tramite questo sviluppo, lo stesso dell’Unione europea e degli Stati uniti, ovverosia l’egemonia tecnologica su tutto il mercato mondiale.

10. Organizziamoci

Ed è così che, alla fine di tutto, la digitalizzazione si pone come mezzo sovrano tra la forza lavoro dei singoli e l’imperialismo delle potenze mondiali. I lavoratori che vi entrano a contatto sono dunque, sia dal punto di vista economico che da quello politico, l’ennesima riedizione dello sfruttamento umano alla base dei giochi di potere economici mondiali.

E questi dieci punti hanno mostrato le gravi conseguenze che ne derivano, indipendentemente dal fatto che i lavoratori siano in Italia o in Germania. Ecco perchè sta inevitabilmente a loro organizzarsi per porre fine a questi meccanismi.

Sandra Neuburger è un’artista toscana che scrive occasionalmente di musica, politica e antropologia. Avendo una buona conoscenza di alcune lingue, si occupa occasionalmente di traduzioni.

Peter Schadt lavora per la Dgb, la più grande federazione sindacale tedesca. Ha un dottorato in scienze sociali incentrato sulla digitalizzazione. Insegna alle università di Stoccarda e di Esslingen.

29/7/2021 https://jacobinitalia.it

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