La violenza di genere non conosce età.

La testimonianza

È una calda mattina di agosto, quando Patrizia (nome di fantasia), donna di sessantasette anni e invalida, parte da termini con un treno regionale direzione Cappadocia in Abruzzo. Passa poco più di mezzora dalla partenza, un uomo sulla trentina si avvicina alla donna con la scusante di chiedere informazioni riguardo le fermate del treno e inizia ad importunarla, facendo domande insistenti. Patrizia infastidita si alza e in una frazione di secondo, mentre rivolge le spalle all’uomo viene bloccata, quest’ultimo si butta sulla donna, cerca di trascinarla a terra tenendole una mano sulla bocca per evitare che lei urlasse aiuto. Dura tutto pochi minuti, Patrizia sorpresa, nonostante la sua età e la sua poca agilità fisica, cerca di difendersi e di fermare l’uomo, ma non basta. L’aggressore le tira giù i pantaloni e consuma lo stupro.

«La cosa più feroce è che mi diceva zitta signora, zitta [..], è come se lui si nutrisse del mio terrore, più ero spaventata e più si eccitava». L’incubo finisce, quando fortunatamente si aprono le porte del treno, come ricorda Patrizia: «un miracolo», l’uomo scappa via immediatamente. I soccorsi sono tempestivi, arriva il controllore che cerca di aiutare Patrizia a alzarsi i pantaloni per reggere gli attimi di vergogna e umiliazione. Viene accompagnata all’ospedale di Tivoli, dove riceve le cure dovute. Arrivano anche i carabinieri, così come sottolinea la vittima, non sono invasivi anzi professionali.

«Mi hanno detto subito, signora l’abbiamo preso». Patrizia denuncia, decide di raccontare tutto nei minimi dettagli e si affida inizialmente allo sportello di ascolto dell’associazione antiviolenza di Differenza Donna di Tivoli. Ricorda, «la prima settimana è stata dura, il dolore era forte, è stato un momento difficile», aggiunge ancora, «è stato un bene sfogarsi, dare testimonianza, riesci a tranquillizzarti e a vivere». Decide di dare seguito alla sua denuncia e per questo tornata a Roma, cerca assistenza legale e si affida al centro antiviolenza di Roma, di Differenza Donna. Qui viene accolta e ascoltata, «io lo consiglierei a tutte – dice -, la strada per ritornare ad avere un equilibrio sano è soltanto parlarne e parlarne con le persone specializzate».

La testimonianza

È una calda mattina di agosto, quando Patrizia (nome di fantasia), donna di sessantasette anni e invalida, parte da termini con un treno regionale direzione Cappadocia in Abruzzo. Passa poco più di mezzora dalla partenza, un uomo sulla trentina si avvicina alla donna con la scusante di chiedere informazioni riguardo le fermate del treno e inizia ad importunarla, facendo domande insistenti. Patrizia infastidita si alza e in una frazione di secondo, mentre rivolge le spalle all’uomo viene bloccata, quest’ultimo si butta sulla donna, cerca di trascinarla a terra tenendole una mano sulla bocca per evitare che lei urlasse aiuto. Dura tutto pochi minuti, Patrizia sorpresa, nonostante la sua età e la sua poca agilità fisica, cerca di difendersi e di fermare l’uomo, ma non basta. L’aggressore le tira giù i pantaloni e consuma lo stupro.

«La cosa più feroce è che mi diceva zitta signora, zitta [..], è come se lui si nutrisse del mio terrore, più ero spaventata e più si eccitava». L’incubo finisce, quando fortunatamente si aprono le porte del treno, come ricorda Patrizia: «un miracolo», l’uomo scappa via immediatamente. I soccorsi sono tempestivi, arriva il controllore che cerca di aiutare Patrizia a alzarsi i pantaloni per reggere gli attimi di vergogna e umiliazione. Viene accompagnata all’ospedale di Tivoli, dove riceve le cure dovute. Arrivano anche i carabinieri, così come sottolinea la vittima, non sono invasivi anzi professionali.

«Mi hanno detto subito, signora l’abbiamo preso». Patrizia denuncia, decide di raccontare tutto nei minimi dettagli e si affida inizialmente allo sportello di ascolto dell’associazione antiviolenza di Differenza Donna di Tivoli. Ricorda, «la prima settimana è stata dura, il dolore era forte, è stato un momento difficile», aggiunge ancora, «è stato un bene sfogarsi, dare testimonianza, riesci a tranquillizzarti e a vivere». Decide di dare seguito alla sua denuncia e per questo tornata a Roma, cerca assistenza legale e si affida al centro antiviolenza di Roma, di Differenza Donna. Qui viene accolta e ascoltata, «io lo consiglierei a tutte – dice -, la strada per ritornare ad avere un equilibrio sano è soltanto parlarne e parlarne con le persone specializzate».

La testimonianza di Patrizia offre uno spunto crudo e forte per comprendere come il fenomeno della violenza di genere possa colpire qualsiasi donna, in qualsiasi contesto e di come sia spinto unicamente dalla mera volontà dell’uomo di esercitare violenza. Non vi sono statistiche dettagliate, ma il Rapporto Mondiale sulla Violenza e la Sanità stima che una donna su cinque ha subito nella sua vita una qualche forma di violenza. La violenza su una donna anziana, però, resta una piaga sociale ancora troppo sconosciuta, ma che sta assumendo forme e frequenze sempre più preoccupanti. Questo perché gli abusi nei riguardi di donne anziane costituiscono finora un tabù sociale e culturale all’interno di un “silenzio colpevole” che abbraccia la violenza contro le donne, in generale. Il grido che in ogni caso deve farsi sentire è quello di chiedere aiuto e di denunciare sempre. Perché una donna che subisce violenza non è mai sola, ne è la prova il lavoro svolto dai tantissimi centri antiviolenza presenti a livello nazionale.

I centri

I centri antiviolenza, nati a partire dagli anni Ottanta dall’esperienza del movimento delle donne, hanno un ruolo fondamentale nel prevenire la violenza sulle donne. Cercano di evitare ulteriore violenza, offrendo alle vittime un ambiente sicuro e protetto, e sostegno per fermare definitivamente gli abusi. Sono complessivamente 338 i centri e i servizi specializzati nel sostegno alle donne vittime di violenza, ai quali si sono rivolte almeno una volta in un anno 54.706 donne, di queste il 59,6% ha poi iniziato un percorso di uscita dalla violenza, come riportato dall’Istat. Alle donne che si rivolgono ai Centri vengono garantiti anonimato e sostegno nelle questioni legali. Entrate in un centro, inizia per loro un percorso psicologico volto al superamento del trauma con la finalità del rinserimento alla società.

Con la legge 27 giugno 2013, n. 77, l’Italia è stata tra i primi paesi europei a ratificare la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota come “Convenzione di Istanbul”, adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014. La Convenzione è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante il cui principale obiettivo è quello di creare un quadro globale e integrato che consenta la protezione delle donne contro qualsiasi forma di violenza, nonché prevedere la cooperazione internazionale. Particolarmente rilevante è l’articolo 3 che designa il riconoscimento espresso della violenza contro le donne, quale violazione dei diritti umani, oltre che come forma di discriminazione contro le donne.

I fondi

I centri antiviolenza, al fine di garantire il costante e regolare funzionamento, sono destinatari di specifici finanziamenti. Nel 2017 oltre i tre quarti dei centri/servizi antiviolenza hanno ricevuto un finanziamento pubblico: sono 255 nel complesso, pari al 75,4%. Solo 58 Centri/servizi antiviolenza (17,2%) in tutto hanno ricevuto finanziamenti privati. Per quanto concerne la Regione Lazio, lo stanziamento messo in campo per il mantenimento e l’ampliamento della rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio dal 2014 ammonta a circa 7 milioni di euro. Non sempre però questi fondi arrivano in tempo e sono sufficienti, lamentano molti centri antiviolenza e case rifugio. Le risorse finanziarie, come sappiamo, hanno un impatto immediato e significativo diretto sulla qualità dei servizi offerti.

Con l’esplodere della pandemia, la violenza sulle donne è aumentata a causa della convivenza forzata con il partner. Durante il lockdown il governo ha sbloccato 30 milioni, ma questi non erano altro che le risorse ordinarie già destinate nel 2019 al Piano nazionale antiviolenza, rimaste in standby. Di questi 30, 10 milioni di euro dovevano contribuire al finanziamento dei Centri antiviolenza pubblici e privati già esistenti in ogni regione; altri 10 erano destinati alle Case rifugio pubbliche e private, già esistenti in ogni regione; e gli ultimi 10 milioni andavano ripartiti tra le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.  A oggi alcuni di questi fondi risultano ancora fermi, le regioni non li avrebbero ancora del tutto distribuiti.

I dati

L’Istat, in collaborazione con il Dipartimento per le pari opportunità e le Regioni, ha condotto la prima indagine nel 2017 sui 281 centri antiviolenza in Italia, diffusa a fine ottobre 2019, secondo la quale nel 2017 si sono rivolte ai centri anti-violenza 43.467 donne (15,5 ogni 10 mila). Il 67,2% ha iniziato un percorso di fuoriuscita dalla violenza (10,7 ogni 10 mila). Tra quelle che hanno iniziato questo percorso, il 63,7% ha figli, minorenni nel 72,8% dei casi.       Sempre l’Istat riporta, che durante il lockdown sono state 5.031 le telefonate valide al 1522, il 73% in più sullo stesso periodo del 2019. Le vittime che hanno chiesto aiuto sono 2.013 (+59%). Negli 87 giorni di lockdown, i delitti sono passati da una media di 3.788 reati al giorno pre-Covid a 9.834, cioè sono più che raddoppiati.

Patrizia grazie alla sua denuncia è riuscita, per quanto possibile, a uscirne anche più forte di prima, come tante donne che decidono di affidarsi a un centro antiviolenza. Il ruolo dei centri presenti sul territorio nazionale è fondamentale. Per questo è necessario riformulare l’iter e le tempistiche delle risorse finanziarie da destinare, affinché diminuisca il numero di quelli che sono costretti a chiudere.

I centri

I centri antiviolenza, nati a partire dagli anni Ottanta dall’esperienza del movimento delle donne, hanno un ruolo fondamentale nel prevenire la violenza sulle donne. Cercano di evitare ulteriore violenza, offrendo alle vittime un ambiente sicuro e protetto, e sostegno per fermare definitivamente gli abusi. Sono complessivamente 338 i centri e i servizi specializzati nel sostegno alle donne vittime di violenza, ai quali si sono rivolte almeno una volta in un anno 54.706 donne, di queste il 59,6% ha poi iniziato un percorso di uscita dalla violenza, come riportato dall’Istat. Alle donne che si rivolgono ai Centri vengono garantiti anonimato e sostegno nelle questioni legali. Entrate in un centro, inizia per loro un percorso psicologico volto al superamento del trauma con la finalità del rinserimento alla società.

Con la legge 27 giugno 2013, n. 77, l’Italia è stata tra i primi paesi europei a ratificare la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota come “Convenzione di Istanbul”, adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014. La Convenzione è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante il cui principale obiettivo è quello di creare un quadro globale e integrato che consenta la protezione delle donne contro qualsiasi forma di violenza, nonché prevedere la cooperazione internazionale. Particolarmente rilevante è l’articolo 3 che designa il riconoscimento espresso della violenza contro le donne, quale violazione dei diritti umani, oltre che come forma di discriminazione contro le donne.

I fondi

I centri antiviolenza, al fine di garantire il costante e regolare funzionamento, sono destinatari di specifici finanziamenti. Nel 2017 oltre i tre quarti dei centri/servizi antiviolenza hanno ricevuto un finanziamento pubblico: sono 255 nel complesso, pari al 75,4%. Solo 58 Centri/servizi antiviolenza (17,2%) in tutto hanno ricevuto finanziamenti privati. Per quanto concerne la Regione Lazio, lo stanziamento messo in campo per il mantenimento e l’ampliamento della rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio dal 2014 ammonta a circa 7 milioni di euro. Non sempre però questi fondi arrivano in tempo e sono sufficienti, lamentano molti centri antiviolenza e case rifugio. Le risorse finanziarie, come sappiamo, hanno un impatto immediato e significativo diretto sulla qualità dei servizi offerti.

Con l’esplodere della pandemia, la violenza sulle donne è aumentata a causa della convivenza forzata con il partner. Durante il lockdown il governo ha sbloccato 30 milioni, ma questi non erano altro che le risorse ordinarie già destinate nel 2019 al Piano nazionale antiviolenza, rimaste in standby. Di questi 30, 10 milioni di euro dovevano contribuire al finanziamento dei Centri antiviolenza pubblici e privati già esistenti in ogni regione; altri 10 erano destinati alle Case rifugio pubbliche e private, già esistenti in ogni regione; e gli ultimi 10 milioni andavano ripartiti tra le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.  A oggi alcuni di questi fondi risultano ancora fermi, le regioni non li avrebbero ancora del tutto distribuiti.

I dati

L’Istat, in collaborazione con il Dipartimento per le pari opportunità e le Regioni, ha condotto la prima indagine nel 2017 sui 281 centri antiviolenza in Italia, diffusa a fine ottobre 2019, secondo la quale nel 2017 si sono rivolte ai centri anti-violenza 43.467 donne (15,5 ogni 10 mila). Il 67,2% ha iniziato un percorso di fuoriuscita dalla violenza (10,7 ogni 10 mila). Tra quelle che hanno iniziato questo percorso, il 63,7% ha figli, minorenni nel 72,8% dei casi.       Sempre l’Istat riporta, che durante il lockdown sono state 5.031 le telefonate valide al 1522, il 73% in più sullo stesso periodo del 2019. Le vittime che hanno chiesto aiuto sono 2.013 (+59%). Negli 87 giorni di lockdown, i delitti sono passati da una media di 3.788 reati al giorno pre-Covid a 9.834, cioè sono più che raddoppiati.

Patrizia grazie alla sua denuncia è riuscita, per quanto possibile, a uscirne anche più forte di prima, come tante donne che decidono di affidarsi a un centro antiviolenza. Il ruolo dei centri presenti sul territorio nazionale è fondamentale. Per questo è necessario riformulare l’iter e le tempistiche delle risorse finanziarie da destinare, affinché diminuisca il numero di quelli che sono costretti a chiudere.

Marta Iaquinto

4/11/2020 https://www.dinamopress.it

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