L’abisso della guerra raccontato dai veterani

Oggi è il diciannovesimo anniversario della guerra in Iraq, iniziata il 20 marzo 2003. Questo pezzo pubblicato originariamente nel 2010 sulla rivista Loop racconta la guerra attraverso gli occhi dei veterani che hanno combattuto in Iraq e in Afghanistan. In questi giorni di conflitto, pensiamo sia utile tornare all’antimilitarismo dei veterani contro la guerra, che più di tutti hanno imparato che la guerra fa male a chi la subisce e anche a chi la infligge ad altri. L’unico modo per impedire alla guerra di distruggere è sabotarla. Grazie a Loop che ci ha consentito di ripubblicarla. (jacobinitalia.it)

Ho sempre desiderato scrivere dei veterani americani. Era il 2001 ed abitavo ad Atlanta, città del Sud-Est statunitense cara tanto al movimento afro-americano di Martin Luther King e Malcolm X, quanto al Ku Kux Klan (Kkk), il movimento razzista bianco che da decenni incita alla white supremacy. Erano gli anni di 9/11, di Bush, dell’incitamento alla guerra contro il popolo Iracheno. Stavo lavorando a stretto contatto con un veterano ritornato da pochi anni dalla prima spedizione in Iraq. Figlio di famiglia povera e proletaria bianca in cerca di un riscatto, era un uomo alto dalla personalità forte e tormentata, dalla voce piena e pesante, dagli occhi sensibili. La guerra aveva lasciato in lui ferite aperte, ed il suo soprannome era Muzzle Head. Al ritorno dall’Iraq aveva incontrato una donna bionda, esile ed amorevole tanto da stargli vicina. Si erano sposati. Non diceva di amarla, diceva che lei solamente avrebbe potuto amare lui. Lei era allora incinta della seconda figlia, e lui stava studiando teologia per diventare pastore. Quando beveva e lasciava uscire in parte la sua voragine di colpa si trasformava in una grande massa come un cratere in eruzione. Debordava, gridava, si lacerava. Conteneva le risate grasse con la birra mentre nella teologia e nella dolcezza della moglie cercava redenzione.

Durante la campagna preventiva anti-Iraq ci eravamo affacciati insieme al movimento contro la guerra. All’epoca il mio malessere di giovane straniera ed il suo malessere di ex marine avevano trovato una complicità forte nella mobilitazione dei college neri e bianchi, cattolici e femministi, liberali e radicali. La mia educazione allora verticale e partitica e la sua educazione militare si amplificavano a vicenda in una combinazione mostruosa che fu all’inizio un propellente forte ed infine una forza lacerante all’interno del movimento. Quei mesi di mobilitazione studentesca contro la guerra furono molto intensi e la sua vicinanza ispirante e difficilissima. Muzzle Head non parlava mai dell’Iraq. Alla terza birra come sotto sedativo cominciava a ricordare immagini e rumori. I rumori erano il suo principale canale di sfogo. Li imitava li ripeteva quasi a superarli di intensità e a beffeggiarli, stupidi rumori ed esplosioni, stupide sirene, stupida, sporca, maledetta guerra. Aveva conosciuto la moglie in un bar al ritorno dal fronte. Orfana di entrambi i genitori, aveva bisogno a tal punto di protezione da prendersi cura di lui. Lui non sopportava la propria inettitudine. Non sopportava di non essere quello che aveva odiato essere: un uomo forte, armato fino ai denti, invincibile più di tutti, così forte da succhiare la vita degli altri senza mai morire.

In quei giorni c’erano manifestazioni ogni giorno. Da Fort Benning in Georgia, dalle scuole e i supermercati alle strade di Atlanta New York e San Francisco. I veterani erano sempre presenti. Tra questi c’era Tom, un uomo di circa 60 anni con i capelli lunghi e gli occhi brillanti come quelli dell’antico marinaio nella ballata di Coleridge. Timido, con la voce bassa, Tom era un pittore divorziato e povero che 37 anni prima era stato per 67 giorni in guerra con una funzione amministrativa. Sessantasette giorni 37 anni prima ed una vita distrutta: incapacità di comunicare con la moglie e i figli sino a perderli. Incapacità di mantenere un lavoro. Incapacità di perdonare se stesso, il governo, l’America tutta. Incapacità di credere che veramente, veramente stiamo squartando popoli interi.

C’era in me un grande rispetto per i veterani e la loro presenza nelle piazze. Volevo scrivere del coming home, capire come la guerra disumanizza l’aggressore con l’aggredito. Volevo, ma non mi è riuscito. «Le truppe sono il simbolo d’America e parlare male dell’esercito è come offendere tua madre», aveva commentato il mio mentoredi allora, l’uomo più a sinistra del mio dipartimento quando gli avevo presentato il progetto. Dopo qualche mese ho rinunciato. Ma il problema continuava a riproporsi.

Il 7 giugno 2010 la guerra in Afghanistan veniva dichiarata la più lunga guerra mai combattuta dagli Stati uniti. Più lunga della guerra in Vietnam, più lunga della guerra in Iraq. A partire dal marzo 2008 questa guerra infinita ed inesistente, questa guerra che non c’è mai stata come sosteneva Baudrillard, cancellata dai media e dalla nostra coscienza, è diventata il perno dell’azione dei veterani. «Ne hanno parlato i politici, ne hanno parlato i generali, ne hanno parlato i media, ora tocca a noi», aveva detto nel 2008 Kelly Dougherty, veterana dell’Iraq e direttrice esecutiva di Iraq Veterans Against the War (Ivaw), l’organizzazione di veterani nata nel 2004 per porre fine all’occupazione in Medioriente. «Non ne parliamo per sensazionalizzarla, ma per dire al popolo americano che cosa abbiamo fatto in loro nome, per prenderci la responsabilità di quello che abbiamo fatto». Queste testimonianze sono in parte custodite in un testo chiamato Winter Soldier (Haymarket Books, 2008). Il testo prende il nome dalla Winter Soldier Investigation organizzata per la prima volta nel 1971 dai veterani contro la guerra in Vietnam per rendere pubblici i crimini di guerra e le atrocità commesse delle forze armate degli Stati uniti e dei loro alleati in quella guerra. I veterani contro la guerra in Iraq e Afghanistan hanno organizzato una manifestazione simile nel 2008 e le loro testimonianze sono raccapriccianti.

«Stavamo guidando a Baghdad ed abbiamo trovato un corpo morto al lato della strada. Abbiamo frenato per metterlo al sicuro. I miei amici allora sono scesi ed hanno cominciato a fotografarlo con grandi sorrisi. Hanno detto hey Viges, vuoi una foto con questo qui? Ed io ho detto no, ma non nel senso che era sbagliato da un punto di vista etico ma no perché non l’avevo ucciso io. Non puoi prenderti trofei per cose che non hai ucciso tu. […] Semplicemente non dovevamo prenderci credito per cose che non avevamo fatto” (pp. 52-55). Scott Ewing, che ha servito in Iraq dal 2005 al 2006, ricorda che spesso i soldati offrivano caramelle ai bambini. «Non lo facevano per conquistare le loro simpatie. Se i bambini erano accanto ai nostri veicoli non ci avrebbero attaccati, dunque usavamo i bambini come scudi umani» (pp. 70-74). Brian Casler, ex caporale dei marines continua: «Ho visto marines defecare nei pasti pronti o urinare nelle bottiglie d’acqua che poi avremmo lanciato ai bambini dall’altra parte della strada» (pp. 78-82). Una volta, dice Hart Viges «ci hanno detto di sparare a tutti i taxi perché il nemico li stava utilizzando per il trasporto… Da quel momento la città si è incendiata e tutte le unità hanno cominciato a sparare su ogni veicolo in movimento». “Mi ricordo”, dice Jason Hurd «quest’uomo che correva verso di me davanti al checkpoint, portava con sè un giovane iracheno di 17-18 anni, molto magro e pallido. Correva verso di me e lo ha disteso ai miei piedi. Al ragazzo mancava un pezzo di braccio. Il suo avambraccio era sostenuto solo da un pezzo di pelle. Le ossa uscivano e sanguinava fortemente. Aveva ferite ovunque sul dorso. Quando l’ho girato per controllare la schiena ho visto che tutta la sua natica sinistra mancava, e sanguinava, e sgorgava sangue».

Le testimonianze continuano con quelle di medici giornalisti e civili iracheni. Un giornalista ammette di aver assunto iracheni perchè scrivessero articoli favorevoli all’occupazione. Un medico ricorda che vigeva la minaccia della corte marziale per chi sprecava farmaci per curare gli iracheni. Che c’era una rigida gerarchia razziale rispetto a chi sarebbe stato curato: americani per primi, curdi per secondi, ed infine ad un terzo posto molto distante gli arabi. « Non a caso gli iracheni venivano chiamati range balls perchè quelle sono le palle che chi gioca a golf non si preoccupa di perdere» (p. 8). Negli anni il conflitto è diventato atroce: le leucemie, le epidemie di epatite tifo e colera erano fuori controllo; nelle case «a occhio nudo si potevano distinguere filamenti di escrementi umani nell’acqua di rubinetto», scriveva Mike Davis (Planet of Slums, 2006: 144). Ancor peggio, il conflitto aveva radicalizzato un’intera generazione di bimbi, giovani cresciuti odiando il proprio paese, odiando l’America, ed alzando il braccio al saluto di Hitler.

Scriveva Baudrillard che «la violenza che si esercita è sempre speculare a quella che si infligge a se stessi. La violenza che ci si infligge è sempre speculare a quella che si esercita. È questa l’intelligenza del male». Ecco che mentre la guerra in medioriente causava un eccidio di vite, tra i veterani americani si diffondeva la disperazione. In una recente lettera ad Obama, il medico psichiatra Kernan Manion accusava che «in più di 25 anni di lavoro non ho mai visto una tale immensa sofferenza, una tale fila di marines inizialmente coraggiosi e forti ora tanto profondamente lacerati a livello psicologico». Come ha dichiarato Craig Bryan, ex ufficiale dell’areonautica ora psicologo dell’Università del Texas, per quanto i militari siano addestrati a controllare l’aggressività ed a sopprimere le reazioni emotive, queste qualità «pensate per preparare i soldati ad uccidere senza rimorso sono parimenti associate con un elevato rischio di suicidio”. Candidamente Bryan ammetteva che l’efficacia dell’esercito è di fatto inscindibile dall’eventualità del suicidio: “non si possono modificare queste conseguenze senza alterare negativamente la capacità offensiva del nostro esercito. In altre parole il suicidio nell’esercito è una malattia del lavoro».

Quest’ammissione gelida significa in realtà una cosa semplice, e cioè che l’essere umano non è privo di inconscio, e quanto più in profondità insabbiamo le emozioni quanto più a lungo sopravvivono in noi. Non sorprenderà allora sapere che secondo l’Army Times al 2010 18 veterani al giorno si tolgono la vita. Oggi i tentati suicidi sono circa 950 al mese. Circa il 45% dei veterani soffre di malattie mentali, il 68% ha problemi di abuso di sostanze, ed il Post Traumatic Stress Disorder (Ptsd) coinvolge circa il 50% delle truppe. Lo chiamano disordine da stress post-traumatico, ma questa definizione semplicistica indica un fenomeno estremamente complesso, per il quale gli eventi traumatici cui le truppe assistono ritornano negli incubi, nelle visioni e nella vita quotidiana come frammenti deformati intermittenti ed inabilitanti. Scrive il veterano Mejia, «è così difficile gestire queste esperienze che la tua stessa psiche per proteggerti cancella certi ricordi che sono troppo dolorosi, troppo duri da accettare» (pp. 212-220).

Ecco che le fidanzate raccontano di compagni che non riescono ad andare al mare, perchè hanno paura della sabbia. Le mamme parlano di ex marines che di notte girano furiosamente per la camera da letto con la pila perchè sentono camminare gli scorpioni. Le mogli parlano di veterani che hanno paura di andare dal fruttivendolo perchè lì ci sono donne con il velo. In generale i famigliari descrivono uomini grandi e grossi terrorizzati dall’idea di chiudere gli occhi perchè nel buio vedono corpi squartati come rane nelle strade. Che bevono perchè non riescono a dormire né a stare svegli. Uomini adulti disperati che la notte cercano rifugio nel grembo della mamma. Joyce Lucey, mamma di un veterano suicida ricorda come il figlio al ritorno dall’Iraq si tormentasse, si automedicasse con l’alcol, parlasse solo di alberi e corde. «Una notte è scappato dalla finestra per andare a cercare delle birre. Jeff… era sulla strada con addosso la mimetica, dei coltelli, una pistola ed aveva in mano una cassa con sei birre. C’era un sorriso triste nel suo volto come quello di un’anima persa. […] Poi a mezzanotte mi ha chiesto se poteva dormire con me, se potevo tenerlo in braccio. Ci siamo seduti ed io lo cullavo nel silenzio. Il suo terapista mi ha detto che quella era l’ultima spiaggia per lui, il suo ultimo rifugio. Il giorno dopo sono tornata a casa alle sette e quindici. Ho abbracciato Jeff per l’ultima volta, mentre abbassavo il suo corpo dalla corda che si era legato al collo».

L’iter che accompagna i veterani è proprio questo: è cosa nota che il rientro dal fronte sia fatto di droghe e di alcol, di crisi domestiche e risse pubbliche, di Ptsd secondario per i famigliari, sino ad un fenomeno terminale chiamato pancaking, che sta ad indicare il momento in cui la vita dell’ex soldato collassa a causa di una spirale di tormento che termina con la perdita del lavoro, della casa e con il carcere. Non sorprende allora che un terzo dei senza tetto americani sia fatto di veterani di guerra, o che, come scrive il veterano Williams Rivers Pitt, se potessimo correlare la violenza sociale all’esercito scopriremmo che dal Ptsd dipendono la larga parte degli episodi sociali di distruzione, come l’Oklahoma City Bombing.

Da una democrazia fondata sulla guerra si diparte dunque una spirale di violenza che il governo non riconosce né tantomeno placa. Licenziato per le sue dichiarazioni, il Dr. Manion ammette che se da un lato il governo semplicemente non vuole pagare le cure mediche e le pensioni di invalidità degli ex soldati, dall’altro non intende riconoscere il problema, perché accettare l’entità del problema «significherebbe ammettere di fronte al popolo americano che questa guerra ha una immensità di conseguenze negative». Ecco che l’esercito ha creato per i veterani quelle che in gergo si chiamano warehouses of dispair, unità speciali ove i veterani vengono internati a furia di narcotici, morfina, sonniferi, antidepressivi ed eroina. «E’ come avere una fila di persone che sta per morire e nessuno gli presta attenzione», scrive Manion. Ma non gli si può prestare attenzione, perché dall’affossamento delle contraddizioni della guerra dipende la sopravvivenza tout court di questo sistema.

Vi è una contraddizione strutturale nel mondo in cui viviamo: l’inscindibilità di ciò che si tende sempre a separare, democrazia e guerra, mercato e violenza. Lo diceva bene l’editorialista del New York Times Thomas Friedman in The Lexus and the Olive Tree (1999), quando osservava che «la mano invisibile del mercato non potrebbe mai funzionare senza un pugno invisibile: McDonald non può prosperare senza McDonnell Douglas, il costruttore degli F-15. E il pugno invisibile che tiene il mondo al sicuro per le tecnologie della Silicon Valley si chiama esercito, aeronautica, e marina militare». È dentro questa strutturale ambivalenza che le testimonianze dei veterani diventano importanti, perché i veterani non hanno più il privilegio dell’illusione. Hanno raschiato il fondo e da laggiù ci avvisano che il tempo della speranza è finito. Spettatori passivi, distratti o assuefatti di massacri in mondovisione, non c’è più tempo per sperare. Muoviamoci, dicono. Fermiamo questa follia. Non importa dunque quanto cieco e senza speranza sembri il mondo che raccontano. È nell’abisso del rimorso che i veterani hanno percepito i delicati equilibri della vita. È dal buio degli abissi che è nato il loro radicale antimilitarismo. Di contro all’ammaliante e putrefatta santificazione della guerra che ascoltiamo tutti i giorni, la guerra distrugge chi la subisce e chi la infligge, ci dicono. Ed è già successo troppe volte.

Francesca Coin, sociologa all’Università di Lancaster, si occupa di lavoro, moneta e diseguaglianze.

20/3/2022 https://jacobinitalia.it

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