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    Blog, Cronache Politiche — Febbraio 6, 2016 9:57 am

    indice dei capitoli di analisi della riforma: 1. Il fenomeno in cifre | 2. L’alternanza scuola-lavoro risolerà il problema della disoccupazione giovanile? | 3. …e quello della dispersione scolastica? | 4. L’economia della promessa, la farsa dell’esperienza | 5. Le mani sulla scuola | 6. Dire No è possibile e necessario

    L’alternanza scuola lavoro. Ovvero perchè la riforma della scuola riguarda tutti noi

    Pubblicato da franco.cilenti

    1. Il fenomeno in cifre

    Gli studenti che hanno seguito percorsi di alternanza scuola lavoro nel solo anno scolastico 2013/2014 sono stati 210.506  (il 10,7% degli iscritti alle scuole superiori di II grado) per una media di quasi 100 ore a studente. Secondo i dati diffusi dall’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa) l’alternanza scuola lavoro, introdotta nel 2005, ha riguardato negli ultimi 10 anni un numero crescente di alunni (45.897 nell’as 2006/2007).

    2016_02_05_grafico1.jpgLa legge 107_2015, ossia la “Buona scuola” di Renzi, determinerà un incremento notevole tanto del numero di studenti quanto delle ore minime pro-capite impegnate nell’alternanza scuola lavoro. La riforma infatti prevede per la prima volta un monte ore minimo obbligatorio a cui tutti gli studenti saranno costretti a conformarsi: almeno 200 ore nei licei e almeno 400 nei tecnici e nei professionali1. Parliamo, in soldoni, di circa 500.000 studenti interessati già a partire da quest’anno, e di circa un 1 mln e mezzo quando la riforma sarà entrata a regime. Un’enormità.

    2. L’alternanza scuola-lavoro risolerà il problema della disoccupazione giovanile?

    Il documento preparatorio della riforma è piuttosto chiaro: vi si afferma che “il 40% della disoccupazione in Italia non dipende dal ciclo economico. Una parte di questa percentuale è collegata al disallineamento tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare, e ciò che la nostra scuola effettivamente offre”2.  Il bello è che questa affermazione non è suffragata da alcun dato statistico. Se infatti andassimo a cercarci i dati forniti dallo stesso Governo (dati Unioncamere – Ministero del Lavoro) scopriremmo che tra le difficoltà ad assumere, quelle riguardanti la “mancanza di adeguata istruzione e formazione” sono circa il 2% del totale3. D’altronde basterebbe rilevare come, nonostante l’aumento degli studenti impegnati in percorsi di alternanza scuola lavoro sia costante dal 2006/2007, la disoccupazione giovanile non sia affatto diminuita, anzi…

    2016_02_05_grafico2.jpg
    Andamento % della disoccupazione giovanile in Italia, 2005-2014, dati Istat

    Un’esperienza decennale suggerisce dunque come l’alternanza scuola lavoro non abbia affatto contribuito a risolvere il problema della disoccupazione giovanile. Resta perciò da capire che effetti concreti produrrà: ci siamo “divertiti” a fare un rapido calcolo della quantità di ore di lavoro che hanno svolto  e svolgeranno gli studenti in regime di alternanza. Se nell’a.s. 2013/2014 le ore sono state circa 20 milioni e mezzo, quando la riforma sarà a regime, secondo un calcolo grossolano, le ore di lavoro svolte annualmente saranno circa 150 milioni corrispondenti a poco più di 104.000 lavoratori annui4.

    Questi 104.000 lavoratori saranno altamente competitivi nei confronti dei loro colleghi, per il semplice fatto che, essendo studenti, non verranno pagati. Essi non solo non rientreranno nel calcolo degli occupati, ma costituiranno un ulteriore incentivo per le imprese a non assumere, o ad assumere a condizioni molto peggiori rispetto a quelle attuali. 100.000 stagisti in più (che vanno sommati ai tantissimi stagisti provenienti dalle università, dai centri di formazione privati e soprattutto a coloro che vengono “assunti” attraverso lo stage) potrebbe voler dire 100.000 occupati in meno!

    Per di più,  come registrato da Banca d’Italia, fin dal 2010, la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti – che pure ci sono stati –  con la conseguenza che la crescita della disoccupazione riguarda principalmente la componente giovanile della forza-lavoro5. In altri termini, non solo l’alternanza scuola lavoro non può risolvere il problema della disoccupazione giovanile, ma – disincentivando le assunzioni reali –  essa rischia di aggravarlo, con conseguenze dirette sul tasso di disoccupazione generale, sulle condizioni di lavoro e sul salario di tutti noi!

    3.  …e quello della dispersione scolastica?

    Se il valzer dei dati fasulli in cui regolarmente si lancia il Governo Renzi ha convinto – almeno per ora –  parte dell’opinione pubblica, resta da capire come mai, nonostante il mondo della scuola si sia complessivamente opposto alla riforma, l’alternanza scuola lavoro sia stata accolta da un silenzio assenso offerto anche e soprattutto da tanti insegnanti italiani. C’è infatti la convinzione, assecondata e diffusa dallo stesso Governo e da diverse riviste scolastiche, che l’alternanza scuola-lavoro sia in grado di ridurre la dispersione scolastica. La dispersione rappresenta la percentuale di coloro che, seppur iscritti a scuola, la abbandonano e non giungono mai a finirla. Nell’ultimo ciclo della secondaria superiore, cioè l’ultimo quinquennio, si calcola intorno a circa 167.000 ragazzi e ragazze. Al netto di coloro che si sono riscritti a una paritaria o a un corso professionale esterno alla scuola, siamo intorno alle 110-120.000 unità. In termini percentuali, parliamo del 27,9% degli iscritti al 1° anno di cinque anni prima: un livello allarmante, soprattutto se consideriamo i già bassi livelli di scolarizzazione del nostro paese6.
    Dispersione è una di quelle parole strane, in voga tra gli esperti, che riesce a nominare un fenomeno senza specificarne l’origine. Non a caso è una parola diffusasi negli anni ottanta, dopo la chiusura del ciclo politico e culturale apertosi con il Sessantotto, subentrata in sostituzione di un’altra, ben più descrittiva: selezione. Selezione scolastica significa infatti esclusione consapevole di alcuni gruppi sociali dal godimento del diritto allo studio. Se infatti andiamo a guardare dentro i dati dell’a.s. 2013 -20147, scopriamo che la selezione agisce in maniera assai differente, in base al settore scolastico d’appartenenza:

    Liceo classico: 18,4%;
    Liceo scientifico: 21,3%;
    Ex-Istituto magistrale: 24%;
    Istituto tecnico: 27,1%;
    Istituto d’arte/ Liceo Artistico: 34,9%
    Istituto professionale: 38,1%

    Le scuole dove c’è più selezione sono quelle dove è più alta la presenza di studenti provenienti dalle classi popolari, che quindi sono quelle maggiormente escluse da un diritto che si vorrebbe universale!
    Le cause del fenomeno si chiarificano andando ad osservarne la distribuzione geografica. Sono infatti due le tipologie di province che presentano alte percentuali di abbandono scolastico:

    1) Province caratterizzate da alti tassi di disoccupazione e di disagio socio-economico  in cui sono i servizi pubblici a mancare, e dove il lavoro nero e quello illegale costituiscono spesso un’alternativa alla scuola (es. Palermo, Napoli, Sassari, Catania, Caltanissetta);

    2) Province ad alta presenza di attività produttive, in cui è il lavoro in azienda ad attrarre gli studenti fuori dalla scuola (es. Brescia, Bergamo, Prato, Novara, Reggio Emilia).

    2016_02_05_grafico3.jpg
    Nostra elaborazione grafica dei dati riportati in Dispersione, «Tuttoscuola», giugno 2014.
    Le province i cui dati risultano mancanti non sono riportate nella cartina.

    È evidente dunque che per strappare i ragazzi delle periferie d’Italia alla subalternità sociale e culturale, bisogna aumentare le strutture presenti sul territorio, e che per invogliare loro e i loro coetanei delle zone produttive a partecipare alla scuola, bisogna che la scuola sia più invogliante, più utile, più formativa (nel senso più generale del termine) di quanto non sia ora. Più scuola dovrebbe voler dire infatti più opportunità di apprendimento, dall’imparare in maniera seria un mestiere, uno sport o un’attività, alla capacità di leggere il mondo naturale e quello sociale. Soprattutto, in una società diseguale come la nostra, più scuola vorrebbe poter dire “pensare alla pari” degli altri, contrastare la formazione di cittadini di seria A, B,C, etc., sviluppare capacità critiche, invece di essere esposti, come canne al vento, alle seduzioni del pensiero dominante.

    La scuola è invece investita, dall’alto, da un tentativo cosciente di renderla più selettiva. Parla chiaro in questo senso il bilancio della riforma Gelmini: se il tasso di dispersione, in linea con il trend storico, è migliorato8 (nel biennio iniziale, si passa dal 15,2% al 14,8%), scomponendo i dati per settore si evince come nei tecnici e nei professionali la selezione sia addirittura aumentata di quasi 1 punto percentuale. Ciò probabilmente perché la riforma Gelmini ha accelerato il processo di “liceizzazione” dei tecnici e dei professionali, che non vuol significare affatto un aumento della qualità della didattica, bensì, molto più prosaicamente, una diminuzione drastica delle ore dedicate alle attività pratiche e di laboratorio!
    Ancor meglio parla il rapporto di maggio 2015 del consorzio interuniversitario Cineca, che ha ripreso i dati sugli accessi universitari negli ultimi dieci anni, i quali mostrano uno sconfortante – 20% delle immatricolazioni. Se tra gli studenti provenienti da licei (in particolare dal classico), c’è stato un aumento di circa il 4% delle iscrizioni all’università, la maggior parte delle rinunce provengono dai tecnici e dai professionali (-46% e -41% rispettivamente) e in particolare dalle scuole del Sud9. Sarà forse questo il risultato dei tagli orizzontali e delle (contro)riforme, leitmotiv dei governi degli ultimi vent’anni?10

    Forse, anzi, probabilmente. Sta di fatto che il Governo Renzi, pur presentandosi come innovatore, non si discosta affatto dalla linea dei suoi predecessori. Non punta all’aumento delle strutture, non incrementa le attività pratiche, non favorisce una strutturazione dei programmi basata sulle esigenze degli studenti, non attenua affatto il dualismo della scuola italiana, divisa in rami privilegiati e rami subalterni. Il suo ragionamento è piuttosto semplice: dato che non ho intenzione di combattere la selezione scolastica, alias dispersione, dato che è preferibile lasciare che i ragazzi vadano a lavorare (sempre che trovino un lavoro) piuttosto che restare in aule senza strutture, proviamo un po’ ad assecondare questa tendenza. Lasciamo che i ragazzi vadano a lavorare, anzi, obblighiamoli a sgobbare gratuitamente per le imprese, sussidiamo il tutto con 100 mln di euro, e chiamiamolo alternanza scuola lavoro.
    Come abbiamo visto, però, gli unici due modi per invertire la tendenza alla selezione, sono un serio investimento nella scuola pubblica e in particolare nelle attività di laboratorio, ossia nella moltiplicazione, e non nella riduzione, della capacità della scuola di tutti, di adeguarsi alla topografia della vita sociale, alle mille conoscenze, esigenze ed interessi con cui tutti abbiamo diritto a poterci confrontare. Come fa allora Renzi a rendere vincente la sua proposta? A quale sostegno ideologico si affida?

    4. L’economia della promessa, la farsa dell’esperienza

    È inutile nascondersi che molte di quelle studentesse e di quegli studenti saranno, almeno all’inizio, contenti di lavorare: contenti di toccare con mano la realtà della produzione o dell’erogazione di servizi, di uscire da aule troppo spesso fredde e opprimenti per sentirsi in grado di fare qualcosa di concreto, tangibile. È il punto debole su cui si costruisce la retorica di molti comunicatori del governo: “quando ero giovane ero contento di fare dei piccoli lavoretti, di fare esperienza”.
11
    Quando poi la stanchezza, la ripetitività della mansione, l’alienazione, in poche parole lo sfruttamento nudo e crudo si paleseranno agli occhi di quegli adolescenti, l’iniziale contentezza svanirà, sostituita però dalla speranza che quello stage possa essere un viatico per una futura assunzione: “se mi comporto bene, sono puntuale, efficiente, non mi lamento, mi noteranno e potrebbero assumermi”
.
    Subentra così la promessa, quella speranza artatamente alimentata che ti fa guardare avanti, senza notare che dietro di te c’è un esercito di nuove studentesse e nuovi studenti pronti – perché obbligati – a prendere il tuo posto e a fare il tuo lavoro bene esattamente come lo hai fatto tu!
    Esperienza e Promessa sono i due feticci su cui si fonda la prestazione lavorativa gratuita che dilaga ormai in ogni settore della produzione e dei servizi. Vediamo come vengono utilizzati.

    L’esperienza è retoricamente presentata come quel qualcosa in più che la scuola non ti darà mai, senza che nessuno ricordi che l’esperienza ha valore formativo solo se realmente inserita in un percorso di rielaborazione critica costante, che è impossibile da ricostruire sul luogo di lavoro, quale che sia. Facciamo l’esempio dello studente di cucina dell’alberghiero: mentre a scuola, in una cucina moderna e attrezzata, può confrontarsi con le diverse mansioni e i diversi problemi che il lavoro presenta senza la pressione della sala, acquisendo così una visione complessiva dell’attività in cucina, infilato invece nella cucina di un ristorante o di un albergo sarà immediatamente sottoposto alla pressione del risultato: probabilmente imparerà, durante la prima settimana, il funzionamento delle “linee”, la divisione dei compiti, i tempi, ma per il resto del tempo sperimenterà soltanto la ripetitività e l’alienazione della mansione che gli sarà affidata; la stanchezza farà il resto, impedendogli di ricavare, dalla “esperienza”, nient’altro che non sia abitudine e allenamento. Sono cose banali, che sa chiunque lavori: quello che si impara si impara subito, il resto è routine e miglioramento della performance, ma nient’altro, niente dunque di formativo.
    Solo chi nella vita non ha mai realmente lavorato può avere il culto feticistico dell’esperienza! Senza considerare, inoltre, che in un mondo diverso l’esperienza lavorativa, anche la più formativa possibile, andrebbe retribuita, perché in ogni caso è una prestazione lavorativa!
    La Promessa è il secondo pilastro: ne abbiamo parlato di fronte alla grande campagna di reclutamento di volontari per EXPO12, “perché, se è vero che in un’economia con il 12,7% di disoccupazione totale e il 42,6% di disoccupazione giovanile è possibile aspettarsi la disponibilità ad accettare condizioni di lavoro degradanti e salari da fame, meno scontato è aspettarsi che ci siano migliaia di persone non solo pronte a lavorare gratuitamente, ma pronte a rimetterci pure dei soldi di tasca propria, dovendo farsi carico nella maggior parte dei casi delle spese di vitto e alloggio.”
    L’economia della promessa funziona, sostanzialmente, perché si basa sulla menzogna per la quale la prestazione lavorativa non sarebbe gratuita, ma anticipata rispetto alla corresponsione di salario. Un enorme castello di bugie che alimenta la mistificazione per cui iniziando a lavorare gratis, riempiendo righe di curriculum, facendo esperienza (!) ci stiamo costruendo la strada per il lavoro retribuito. La bugia è così ben raccontata che occulta il dato fondamentale: nello stesso istante in cui noi entriamo in questa logica ne sanciamo la ripetizione e la ciclicità; quando accettiamo di lavorare gratis per EXPO, lo stiamo accettando anche per chi verrà dopo di noi, facendo svanire il nostro fragile sogno e “rubandoci” il posto!
    Se dunque “l’opportunità” di lavorare gratis in un’azienda non è poi così tanto opportuna, almeno per noi, a chi giova questa riforma?

    5. Le mani sulla scuola

    Nel 1963 uscì nelle sale cinematografiche Le mani sulla città di Francesco Rosi, un film in cui speculatori edilizi senza scrupoli,  trovando appoggio nel potere politico, sfruttano il processo di urbanizzazione a proprio vantaggio. Lo stesso soggetto potrebbe adattarsi perfettamente alla scuola. Se il Governo Renzi interpreta il proprio ruolo – quello di un servizievole potere politico – alla perfezione, la parte degli speculatori spetta oggi senz’altro a Confindustria, il sindacato dei grandi imprenditori italiani.
    È qui infatti che bisogna cercare le ragioni della Buona Scuola. In un convegno del 13 ottobre 2015 interamente dedicato all’istruzione, Confindustria indica chiaramente quali sono gli obiettivi della riforma: “l’integrazione tra sistema di istruzione e lavoro in azienda perché strategica per la crescita non solo economica e occupazionale, ma anche culturale del paese”.13
    Di quale cultura parla Confindustria? Non il vecchio “sapere” scolastico, ma il moderno “saper fare”, frutto chiaramente di una “coprogettazione” tra istituzioni scolastiche e imprese “volta ad adeguare la funzione educativa all’etica del lavoro delle imprese”. Tradotto in altri termini, per i padroni l’obiettivo non è solo quello di incrementare le ore dedicate all’alternanza, ma quella di ripensare “la stessa funzione educativa, formativa e socializzante della scuola”, cioè di portare a termine il processo di asservimento della scuola alle imprese avviato negli anni Novanta. Per questo già nella Buona Scuola si apre la possibilità di modificare il curriculum dello studente attraverso l’inserimento di insegnamenti opzionali nel secondo biennio e nell’ultimo anno proposti direttamente dalle imprese; per questo alla maturità l’alternanza scuola lavoro sarà una vera e propria materia d’esame; per questo Confindustria domanda al Governo “incentivi e sgravi fiscali per le imprese che ospitano studenti” e la “sufficiente copertura finanziaria per il coordinamento, la co-progettazione, la pianificazione” dei percorsi, richiesta cui il Governo ha già risposto stanziando 100 mln di euro ex lege, la cui destinazione pare quanto mai ambigua.
    2016_02_05_grafico4.jpgPerciò, quando, in ossequio ai bonari consigli della grande industria, il Governo afferma di voler avvicinare la scuola al territorio, intende in realtà asservire la scuola alle imprese. Tutti gli altri soggetti che in quel territorio ci vivono sono tagliati fuori dall’equazione! È lo stesso concetto di servizio pubblico che viene distorto:non più presidio in grado di rispondere ai bisogni (educativi, in questo caso) di tutti – dentro e oltre l’orario scolastico –, bensì strumento ad uso e consumo del privato, sostenuto però dai soldi pubblici. Il bello è che in questo modo il Governo non solo rinuncia ad occuparsi della selezione scolastica, non solo regala forza lavoro gratuita – con tanto di sgravi e sussidi – a imprese che non assumono più, se non a condizioni molto peggiori di quanto non facessero in precedenza, ma vi affida la trasmissione della conoscenza – e la sua produzione, e ciò in un momento in cui, pur di salvaguardare i profitti, le aziende hanno rinunciato ad innovare per sé stesse: tra il 1995 e il 2014 – e in misura accentuata in seguito all’esplodere della crisi – gli investimenti sono calati, addirittura contraendosi (- 2,51%)14. Ciò è ancor più vero nelle scuole del Sud, circondate da un deserto industriale fatto di delocalizzazioni, abbandono e crisi, un deserto in cui non tanto e non solo l’alternanza scuola lavoro, ma lo stesso concetto di attività pratica e di laboratorio, sono e saranno un miraggio per la maggioranza degli studenti. Quanti letterati e lettori, quanti architetti e ingegneri, quanti chimici, fisici, biologi, quanti artisti, quanti musicisti, quanti poeti, cineasti, fotografi, quanti agronomi, quanti insegnanti, quanti medici e infermieri, quanti sognatori, amanti e visionari, quanto di un futuro migliore stiamo sacrificando sull’altare del profitto?

    6. Dire No è possibile e necessario

    È evidente che per rispondere efficacemente al progetto di Confindustria e quindi al progetto del Governo Renzi, occorre cambiare paradigma. L’alternanza scuola lavoro è infatti l’asse portante di un modello di istruzione che è già, almeno in parte, applicato e quindi già in grado di provocare – come accennato in precedenza – effetti concreti. Non si può mettere in critica questa riforma senza coinvolgere le altre leggi intervenute a ridefinire il concetto stesso di scuola pubblica – da Berlinguer in avanti –  e senza connettersi a quanto, in parallelo –  dal pacchetto Treu fino al Jobs Act15 – è cambiato in tema di regolamentazione del lavoro salariato. All’interno di quel modello, non possiamo che rifiutare in toto l’alternanza scuola lavoro, in quanto, da un lato, fattore ulteriore di precarizzazione dei lavoratori presenti e futuri, e, dall’altro, in quanto innesco per una ulteriore dequalificazione dell’istruzione pubblica.

    Esistono tuttavia degli spazi concreti entro cui muoversi per mettere i bastoni tra le ruote al cammino della legge 107, per farne emergere le contraddizioni ed evitare l’assuefazione: non sono stati pochi coloro che hanno detto NO al lavoro “volontario” in EXPO. Non sono pochi quelli che, quotidianamente, nel privato delle proprie vite, rifiutano proposte umilianti, di fronte all’ipotesi di lavorare gratis si alzano, girano i tacchi e se ne vanno. Del resto, la guerriglia ideologica del Capitale può essere efficace quanto vogliamo, ma davanti alla necessità materiale di campare non ci sono promesse che tengano, ogni illusione svanisce: tu non mi paghi? Io non lavoro!

    Per questo riteniamo possibile e necessario, nell’ambito della campagna di opposizione alla Buona Scuola, costruire un fronte ampio e composito contro la vergogna delle 400 ore, un fronte che veda insieme studenti, professori, genitori (che sono lavoratori o disoccupati) e che, rifiutandosi con ogni mezzo possibile di collaborare alla realizzazione della famigerata “alternanza”, inizi a dire tre cose semplici:

    1. gli stage non devono essere obbligatori (alternativa non penalizzante per chi non vuole farli) e devono essere retribuiti!
    
2. nessuna azienda che abbia licenziato, delocalizzato, avviato mobilità, attivato cassa integrazione o ristrutturato in peggio le condizioni salariali e lavorative negli ultimi anni può fare domanda per avere stagisti: nessuna speculazione sulla pelle dei lavoratori!
    
3. neanche un euro deve essere dato alle aziende: i finanziamenti stanziati devono essere destinati a potenziare l’offerta formativa all’interno della scuola, non a fare ulteriori regalini alle imprese!

    note
    1 “Al  fine  di  incrementare  le  opportunità  di  lavoro  e  le capacità di orientamento degli studenti, i  percorsi  di  alternanza scuola-lavoro di cui al decreto legislativo 15 aprile  2005,  n.  77, sono attuati, negli istituti tecnici e professionali, per una  durata complessiva, nel secondo biennio e nell’ultimo anno del  percorso  di studi, di almeno 400 ore e, nei licei, per una durata complessiva  di almeno 200 ore nel triennio. Le disposizioni  del  primo  periodo  si applicano a partire dalle classi terze attivate nell’anno  scolastico successivo a quello in corso alla data di  entrata  in  vigore  della presente legge. I percorsi di  alternanza  sono  inseriti  nei  piani triennali dell’offerta formativa”.
    2 temi.repubblica.it/micromega-online
    3 ilfattoquotidiano.it
    4 I 104.000 lavoratori sono “virtuali”, perché a regime gli studenti messi a lavoro saranno circa 1 milione e mezzo. Tuttavia, considerando la media pro capite di ore di lavoro annue, 1 milione e mezzo di studenti corrisponderanno a circa 104.000 lavoratori “full time”.
    5 temi.repubblica.it/micromega-online
    6 In Italia, nel 2011, solo il 56% della popolazione italiana compresa nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni ha concluso un ciclo di scuola secondaria superiore, contro il 75% della media OCSE.
    7 I dati sono tratti dal dossier Dispersione nella scuola secondaria statale, «Tuttoscuola», giugno 2014.
    8 Ma d’altronde in questo miglioramento bisogna considerare l’effetto della crisi che, riducendo drasticamente le possibilità di assunzione, spinge molti giovani a restare a scuola. Non a caso la dispersione scolastica ha subito una riduzione marcata dal 2008 in avanti.
    9 repubblica.it
    10 Segnaliamo questo articolo di Giulio Palermo che pur fermandosi al 2010, illustra perfettamente l’andamento del finanziamento alle scuole pubbliche degli ultimi vent’anni (da caunapoli.org).
    11 Così, ad esempio, Giuliano Poletti: ilfattoquotidiano.it. Tra l’altro le indicazioni del Ministro del Lavoro sembrano essersi avverate, visto che la legge 107 prevede espressamente che i tirocini obbligatori – in regime di alternanza scuola lavoro – possano essere svolti anche nel periodo estivo.
    12 Lavorare in Expo ai tempi del Jobs Act (da clashcityworkers.org). È utile segnalare l’inchiesta del CASC Lambretta, che denuncia come la caccia ai volontari per Expo sia avvenuta proprio nelle scuole (altro che lotta alla dispersione!). D’altronde il 62% dei volontari per Expo, come riportato dal coordinamento nazionale dei centri servizio per il volontariato, ha meno di 24 anni e studia (noexpo.org).
    13 Un vademecum per le imprese, Convegno di Education Confindustria, Roma, 13 ottobre 2015. La centralità dell’alternanza scuola lavoro come volano dell’ingresso delle imprese nella scuola pubblica è più volte richiamata nel documento. Ringraziamo i Cobas scuola di Firenze per averci segnalato il documento.
    14 La contrazione è stata molto più marcata di quanto non sembri. Difatti la percentuale degli investimenti è calcolata in rapporto al PIL, il quale, in seguito alla crisi, non è cresciuto affatto e in alcuni momenti si è addirittura ridotto. Il fatto che gli investimenti si siano contratti in rapporto ad un PIL già in diminuzione, la dice lunga sull’entità del taglio operato dalle imprese.
    15 Jobs Act: capirlo con un cartone animato (da clashcityworkers.org)

    5/2/2016 http://clashcityworkers.org

    Tags: diritti disinformazione governo jobs act lavoratori lavoro precarietà scuola sindacati tutele sociali
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    Autore: franco.cilenti
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