L’anima di Marta richiusa in un cassetto.

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Ha un gusto amaro il caffe, in queste mattine, da quando si è appresa la notizia che il Giudice delle Indagini Preliminari di Torino ha archiviato la denuncia di Marta, attivista NOTAV, per le violenze sessuali subite dopo il proprio arresto, avvenuto nel corso di una manifestazione del movimento valsusisno nella notte tra il 19 ed il 20 luglio 2013.
Gran brutta storia, quella di Marta. Aveva denunciato di essere stata fermata dopo essere stata travolta e gettata a terra da una violenta carica delle Forze dell’Ordine. Sarebbe stata brutalmente immobilizzata e palpeggiata nelle parti intime, percossa violentemente al volto, insultata. Aveva riconosciuto perfettamente, nel corso delle indagini, gli autori dei fatti. Ora, a più di un anno di distanza, il Giudice di Torino ha deciso che il procedimento non deve più proseguire, nessun processo, nessuna verifica, nessun’altra indagine.Si apprendono scampoli sconvolgenti del provvedimento con il quale il Tribunale ha chiuso il fascicolo sulla vita offesa di Marta. Ipotesi squisitamente discusse in punta di mera logica: Marta sarebbe inattendibile perchè è logicamente contraddittorio ed inammissibile che un appartenente alle forze dell’ordine decida di sfogare la sua libido proprio in un momento di concitazione qual’è quello dell’arresto, e per giunta alla presenza di altri colleghi tenuti astrattamente a denunciare fatti di reato. Secondo il giudice, che è una donna, sarebbe inaudito che ciò possa avvenire. Assurdo ipotizzarlo: dunque Marta non è meritevole di tutela dagli uomini e donne di Tribunale.Mai un dubbio che la violenza possa avvenire più per sfregio ed offesa che per mera libido!
Mai un dubbio che l’eventuale malfattore contasse in modo sicuro sulla connivenza od anche solo sull’omertà dei colleghi.
Un atto di fede verso un potere che, almeno nei Tribunali, si dovrebbe osar controllare.

Eppure, dovrebbero esser noti i numerosi casi in cui gli abusi delle forze dell’ordine si esplicano anche attraverso odiose prevaricazioni sessuali, nella più totale omertà di colleghi presenti.

Negli atti processuali del G8 del 2001 a Genova, vi sono “racconti di donne che diventeranno denunce: “stavano lì, a braccia aperte, bloccate contro un muro, immobili da ore, e intorno i poliziotti che le chiamavano “troie, puttane ” e poi urlavano “entro stasera vi scoperemo tutte”, prima di strusciare i manganelli sulle cosce delle ragazze, tanto per far capire bene che aria tirava là dentro. Erano otto, forse dieci, quelle che hanno vissuto l’ incubo della caserma di Bolzaneto.” (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/08/07/g8-denunce-di-violenze-sessuali.html ). Per alcuni fatti fioccheranno sentenze divenute irrevocabili: condannato a 12 anni e mezzo di reclusione per stupro l’assistente capo di polizia Massimo Luigi Pigozzi. Questa la decisione della terza sezione penale della Cassazione. Pigozzi, già condannato a tre anni e due mesi per le violenze avvenute nella caserma di Bolzaneto nei giorni successivi al G8 di Genova del 2001, dovrà anche risarcire una delle vittime delle violenze sessuali avvenute durante il servizio prestato in quella occasione presso la Questura di Genova.

Illogico dunque che questi fatti avvengano?

La natura imita l’arte?

Difficile.

Per alcuni sarà difficile accettare che simili asserzioni logiche siano condotte da un giudice che appartiene allo stesso genere della vittima. Per altri sarà l’ennesima conferma dell’irrilevanza delle differenze di genere. Sono quelle sociali che invece spesso si impongono con sconvolgente crudezza, tagliando l’anima di ciascuno di noi che si scopre indifeso di fronte al potere.

Altri scampoli di quell’archiviazione suscitano insieme rabbia ed indignazione. Marta sarebbe inattendibile perchè, quando veniva caricata e calpestata, avrebbe visto solamente su di sè anfibi delle forze dell’ordine, non si chiede se era possibile ci fossero anche scarpe di manifestanti…. Questa imperdonabile (per il giudice) mancanza di fantasia è frutto della sua contrapposizione ideologica.

Eppure, sommessamente si nota, quando una carica di poliziotti ti travolge, è difficile che all’interno di quel gruppo od addirittura dietro ad esso  vi siano i manifestanti caricati…

Il tasto della contrapposizione ideologica è il fardello più sconfortante: finchè a parlare è la donna maltrattata dagli ordinari mariti o nella routine domestica, il potere non fa fatica a crederle, magari, a volte, anche oltre il consigliato. La violenza di genere è argomento di convegni e quotidiani strilli di politici ed operatori giuridici.

Quando il racconto proviene dalla donna indipendente ed antagonista che prova a resistere agli abusi del potere, la fiducia si ferma alle reti di Chiomonte.

Ma ciò che è altrettanto inaccettabile, per qualsiasi paese che si finga afflitto da un minimo di democrazia, è il fatto che un racconto così terribile venga chiuso subito in un cassetto senza nemmeno abborracciare una verifica processuale, pur in assenza di oggettive smentite fattuali, pur in presenza di riconoscimenti.

Qualche stilla di giustizia sostanziale dovrebbe almeno colare nella routine burocratica degli uomini e donne di Tribunale: la giustizia è pur sempre amministrata in nome del popolo, stancamente ricorda la Costituzione italiana.

Al popolo sarebbe dovuta quantomeno una verifica del potere: l’atto fideistico nei confronti di esso non dovrebbe aver cittadinanza. D’altra parte, chi denuncia sa che verrà punito se smentito. Chiudere il cassetto senza aver nemmeno provato ad accertare nè l’una nè l’altra cosa significa chiudere anche la porta delle curie in faccia al popolo, lasciandolo fuori.

Noi, avvezzi al vento di Cabo de Sao Vicente, non siamo pronti a questa ginnastica d’obbedienza e sognamo un popolo intero bussare giorno e notte alla porta di quel giudice, per chiederLe di riaprire subito quel cassetto.

Fernando Pessoa 

Fernando Pessoa vive e scrive in Portogallo.
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