L’attacco russo in Ucraina conviene a tutti tranne che all’umanità

Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri che muoiono” (J. P. Sartre, Il Diavolo e il buon dio, 1962))

Il precipitare della situazione in Ucraina non sorprende del tutto. Ci sorprende, per quel che è dato sapere mentre scriviamo, nel pomeriggio del 24 febbraio 2022, la vastità dell’operazione che Putin ha deciso di scatenare.

Il casus belli va ricercato lontano, quasi un decennio fa, quando ci fu il cambio di governo a Kiev. Un movimento genuino iniziato con il movimento arancione nel 2004, trova il suo compimento dieci anni dopo nel 2014 con l’uscita di scena dell’allora presidente dell’Ucraina, Viktor Janukovyč (filo russo), in cerca di maggior democrazia (richiesta che potrebbe essere valida in qualsiasi paese, a Oriente come a Occidente) e viene di fatto strumentalizzato per insediare un governo nazionalista filo-occidentale (come spesso succede, pensiamo alle cosiddette Primavere arabe). Tali fatti innescano una spirale di eventi che acuiscono la tensione: la minoranza russa del Donbass comincia a sentirsi meno protetta, anche a seguito di alcuni attacchi di gruppi neo-nazisti che avevano già colpito a Kiev e a Odessa. La politica sovranista di Putin coglie l’occasione per annettere la Crimea, regione strategica fondamentale per la dottrina Monroe in salsa russa, rappresentando lo sbocco al mare e al Mediterraneo.  La situazione rimane instabile in presenza di una guerra a bassa intensità nel Donbass, in qualche modo regolata dagli accordi di Minsk, che, in cambio dell’immediato cessate il fuoco, dovevano garantire maggiori poteri autonomi alle due repubbliche filorusse. Le violazioni alla tregua sancita a Minsk sono tuttavia ripetute e da ambo le parti, la maggiore autonomia di fatto non viene concessa: il risultato è un bilancio, fino a oggi, di oltre 14.000 morti.

Le elezioni del 2019 portano al potere in Ucraina l’ex comico (di lingua russa) Volodymyr Zelens’kyj, accentuando la svolta filo-atlantistica, con l’approvazione di un emendamento costituzionale che impone l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Una richiesta che viene subito definita da Putin inaccettabile. E la tensione ritorna a crescere.

Viene in mentre la crisi dei missili a Cuba, dopo che gli Stati Uniti avevano cercato di rovesciare il governo cubano con il fallito attacco alla Baia dei Porci. Proviamo a immaginare uno stato che confina con gli Stati Uniti (ad esempio il Canada) che entra a far parte di un’alleanza con la Russia o la Cina. La reazione Usa verrebbe immediatamente giustificata dai media filo-occidentali.

L’insistenza della Nato a trazione Usa con la collaborazione supina dei paesi membri europei ad accettare l’entrata di Kiev tra i paesi membri (e, in prospettiva, della Georgia) non giustifica l’aggressione russa ma ne fa comprendere le ragioni. Da questo punto di vista tra le due ex super potenze la differenza è minima. Entrambe attuano politiche egemoniche, giustificate dalla stessa dottrina Monroe pur con differente collocazione geografica. Ad entrambe, per ragioni diverse ma non opposte, questa guerra conviene. Putin mira al rafforzamento della sua potenza militare nazionalista e sovranista per recuperare terreno sul fronte economico. E ad aprire una possibile interlocuzione con la Cina, con un rapporto di forza maggiore. Biden e il partito democratico hanno un disperato bisogno di rallentare il declino americano, acuito da forti crisi interne, cercando di recuperare quella leadership militare che le vicende afghane hanno fortemente indebolito. E non è nascosto il tentativo di impedire una maggior partnership economica tra l’Europa e la Russia. Non è una novità che ciò avvenga quando alla Casa Bianca alloggia un presidente del Partito Democratico. Come in Italia sono i partiti di centro-sinistra ad aver partorito le peggiori leggi contro i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori (dal pacchetto Treu al Jobs Act), negli Usa, sono i presidenti democratici ad essere i più guerrafondai.

Si tratta, inoltre, di soddisfare le lobby delle armi che sono particolarmente potenti negli Usa oltre che in Russia e il cui ruolo non è affatto banale anche in Italia. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), un istituto internazionale indipendente che si occupa di conflitti, armi, controllo degli armamenti e disarmo, il valore annuale del commercio mondiale di armi ha superato i 75 miliardi di euro negli ultimi anni. Nel 2020 gli Stati Uniti hanno incrementato le vendite del 15% e rafforzato la propria posizione egemonica. Quasi il 40% delle armi importate negli ultimi cinque anni analizzati (2016-2020) è stato prodotto negli USA. Le esportazioni di Washington sono già quasi il doppio di quelle di Mosca, dopo pochi anni.

L’Italia, nel frattempo, non si sente affatto estranea alla contesa, anzi. Il ministro della difesa Guerini ha già dichiarato che l’Italia potrebbe schierare 2000 militari, mentre le basi Nato in Italia – Vicenza e Sigonella – sono già pienamente operative e la 173rd Airborne Brigade ha comunicato che «circa 800 soldati della 173/a brigata aviotrasportata Usaf di stanza a Vicenza sono in partenza per la Lettonia, dove saranno dispiegati per rafforzare le capacità difensive dell’alleanza Nato. Eppure per il coinvolgimento nelle operazioni della Nato dovrebbe esserci un voto del Parlamento.

A fronte di questa situazione, fortemente preoccupante, crediamo che per risolvere il conflitto in modo pacifico siano necessarie due mosse, entrambe in mano all’Europa. La richiesta di una neutralità dell’Ucraina sul modello della Svizzera (come suggerito anche da Sergio Romano, intervistato da Alberto Negri: ) e il distanziamento dalla politica internazionale degli Usa, chiedendo un ridimensionamento della Nato, un organizzazione che oggi non ha più ragione di esistere se non per finalità imperialistiche che oggi non hanno più storia.

Tuttavia l’Europa, parafrasando Metternich, è oggi, in campo internazionale, solo un’”espressione geografica”, a conferma dell’incompiutezza del progetto di unificazione, carente non solo nella politica estera ma anche nella politica fiscale e di difesa. È auspicabile che l’attuale situazione possa rappresentare un campanello d’allarme in grado di stimolare un processo di liberazione dalla sudditanza agli Usa, nata dopo la II Guerra Mondiale.

Il contesto attuale è infatti completamente diverso. Non solo non esiste più l’URSS come modello alternativo al capitalismo, ma esistono diverse forme di capitalismo fra loro in competizione, con diversi gradi di dirigismo. E tra queste, gioca un ruolo sempre più importante la Cina, che oggi è il vero convitato di pietra, in grado di sfruttare al meglio l’attuale crisi. E non esiste più neanche il Patto di Varsavia, sciolto da Gorbaciov (premio Nobel per la Pace) il 1 aprile 1991, con la promessa che la Nato non si sarebbe mai estesa verso Est. Promessa che, come abbiamo visto, non è stata mantenuta.

25/2/2022 http://effimera.org

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *