L’ATTO DEL LAVORO: IL (MAGRO) BILANCIO DI UN ANNO DI INTERVENTI RENZIANI, E I LORO VERI OBIETTIVI

Premessa: quello che state per leggere è il nostro quarto o quinto contributo sul Jobs Act. Se la nostra è un’ossessione, lo è in misura speculare a quella del governo e dei suoi megafoni ambulanti che, nel corso dell’ultimo anno, ci hanno quasi quotidianamente edotto sui prodigiosi effetti delle politiche governative sul lavoro.

Arriviamo buoni ultimi a rivelarvi che, in realtà, di prodigi se ne sono visti pochi: ma l’ansia da prestazione dell’apparato di governo su questi temi è di per sé rivelatrice del fatto che l’attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere mediatico.

Nota di metodo: ascriveremo alla categoria Jobs Act molte cose diverse: gli esoneri contributivi stabiliti dalla legge di stabilità 2015; i decreti che costituiscono il Jobs Act vero e proprio (decreti Poletti del 2014, contratto a tutele crescenti, demansionamento e controllo a distanza); l’estensione della possibilità di utilizzo dei voucher. Faremo questa mescolanza perché, al di là delle differenze tecniche tra i provvedimenti, ci interessa cogliere il nesso politico dietro tutta l’azione governativa sul lavoro, in un contesto, quello italiano, che non sembra proprio intenzionato a voler uscire dalla crisi (ammesso che qualcun altro ci sia effettivamente riuscito).

AGGIORNAMENTO 6 MARZO 2016: Nota sulle fonti
I dati che sono stati utilizzati per questo documento sono presi, essenzialmente, dall’Osservatorio sul Precariato dell’INPS e dal database dell’ISTAT. In particolare, quelli relativi all’incremento occupazionale 2015 e alla sua composizione sono tratti dal comunicato stampa ISTAT del 2 Febbraio 2016, reperibilequi. L’Istat ha, successivamente, aggiornato tutte le serie storiche relative all’occupazione, in seguito ad un’innovazione metodologica relativa alla destagionalizzazione dei dati. I cambiamenti non sono pochi, nè di scarso peso: per fare solo un esempio, il dato relativo all’incremento occupazionale 2015, che ammontava a +109.000 unità secondo il vecchio metodo, è “improvvisamente” diventato +163.606. Non avendo la possibilità di verificare di nuovo, e in breve tempo, tutti I dati, ci attestiamo su quelli che l’Istat forniva fino al mese scorso. Non possiamo fare a meno di notare, però, che la procedura seguita dal nostro istituto di statistica è poco rigorosa e piuttosto “bizzarra”, quantomeno dal punto di vista comunicativo. Del resto questo improvviso aumento di circa un terzo dei posti di lavoro in più per il 2015 – che ai malpensanti potrebbe far nascere più di un sospetto – è in scia con quanto è accaduto, ad esempio, in Grecia, Spagna e Portogallo negli anni scorsi; o con quanto è accaduto con I dati sulle migrazioni forniti da Frontex; dati che cambiano all’improvviso e che dimostrano, anche presupponendo la buona fede di chi li fornisce, il carattere profondamente politico, e quindi ideologicamente orientato, della raccolta ed elaborazione statistica di dati, sulla quale poi si fanno, o si giustificano, le scelte dei governi.

 

1. Spazziamo il campo dalla falsa propaganda: il Jobs Act è stato un flop (a caro prezzo)

Vi chiediamo un momento di pazienza prima di iniziare. Vi sembrerà di essere sommersi da un mare di numeri contraddittori e incomprensibili, e di perdervi, ma state tranquilli: ne usciremo vivi.
Le fonti utilizzate sono, come abbiamo detto, il bollettino mensile dell’Osservatorio sul Precariato dell’INPS e le rilevazioni statistiche dell’ISTAT.
Qual è la differenza tra le due fonti? L’INPS analizza i flussi, cioè l’andamento mensile delle attivazioni e delle cessazioni di contratti; l’ISTAT lo stock, cioè il saldo finale degli occupati, il suo incremento o decremento.
Non è la stessa cosa, un nuovo contratto o un nuovo posto di lavoro? No. Una stessa persona può essere intestataria di più contratti, contemporaneamente – due part-time, per esempio – o successivamente: ad un solo posto di lavoro possono corrispondere più contratti. Un altro esempio – è successo nel 2015 – è che un lavoratore, formalmente “autonomo”, diventa dipendente: quel lavoratore già era presente nel mercato del lavoro, quindi al nuovo contratto non corrisponde automaticamente un nuovo posto.
Che cosa ha fatto la propaganda governativa, a partire dall’inizio del 2015? Ha usato sistematicamente i dati INPS, cioè quelli sui contratti, e li ha spacciati per posti di lavoro (con la supina, pigra e colpevole complicità della quasi totalità della stampa nazionale); non solo, per cantare le lodi del Jobs Act il governo è arrivato addirittura a presentare come “crescita dell’occupazione” il dato lordo sui nuovi contratti attivati, senza calcolare le contemporanee cessazioni. Hanno imbrogliato spudoratamente e goffamente, per un anno intero.
La realtà, ovviamente, è diversa.
Il numero di nuovi contratti a tempo indeterminato attivati, al netto delle cessazioni, nell’anno 2015 è 186.048.
Il numero dei nuovi occupati, invece, è 109.000 (fonte ISTAT): questo è il prodotto di un incremento del lavoro dipendente (+247000) e un forte decremento del lavoro autonomo (-138.000); all’interno del lavoro dipendente prevale, seppur di poco, il tempo indeterminato sul determinato (135.000 vs. 113.000) ma sono i posti a tempo determinato che hanno la percentuale di crescita più alta(+4,9% rispetto al +0.9% degli indeterminati), confermandosi il la tipologia di lavoro più dinamica e finendo per rappresentare il 14,2% del totale dell’occupazione, cifra record mai registrata (nel 2014 erano il 13,6%).

Ciò che l’ISTAT, purtroppo, non ci dice è la composizione di quei 109.000 nuovi occupati: quanti di loro sono a termine, quanti indeterminati, quanti autonomi.
Non potendo stimarli in alcun modo, postuliamo un assunto palesemente impossibile e falso, cioè che tutti i 109.000 nuovi posti di lavoro siano a tempo indeterminato: in questo modo creiamo lo scenario – ripetiamo, impossibile – più favorevole alla propaganda governativa.

Quindi in sostanza l’occupazione aumenta di molto poco, anche perchè crolla il lavoro autonomo. All’interno del lavoro dipendente il miracolo del Jobs Act consisterebbe invece in quei 135.000 contratti a tempo indeterminato. Come veniamo subito a dimostrare però il costo potenziale, per la collettività, di ogni posto di lavoro è stato altissimo e ingiustificabile.

sgravi jobs actÈ ormai assodato – lo dice da tempo Marta Fana, lo ha detto finanche Bankitalia – che il “merito” della relativa, modestissima crescita dei contratti a tempo indeterminato è essenzialmente da attribuirsi agli esoneri contributivi. Basta vedere, l’andamento mensile delle accensioni dei nuovi contratti a tempo indeterminate: a Dicembre hanno registrato un enorme incremento, proprio quando era l’ultima occasione per le imprese di accaparrarsi i sopraccitati sgravi. Secondo Bankitalia, inoltre, “la combinazione del contratto a tutele crescenti e degli incentivi spiega solo il 5% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato”.
Vediamo, dunque, di che cifre potenzialmente parliamo, quanto ci potrebbe costare questa manovra.
I nuovi contratti che hanno usufruito degli sgravi sono stati 1,44 milioni; l’ammontare massimo degli sgravi previsto dalla legge di stabilità è 8060 euro annui per tre anni. Il calcolo, dunque, è:

(8060*3)*1.440.000 = 34.819.200.000 euro
Il costo potenziale di ogni nuovo posto di lavoro – postulando che tutti i contratti godano del massimo degli sgravi per tutti e tre gli anni – è dunque di 319.442 euro: nella realtà è sicuramente maggiore, ma non sappiamo di quanto. Altissimo e ingiustificato, non ci sarebbe neanche bisogno di scriverlo.

disoccupazioneA questo punto qualche cantore governativo potrebbe dirci che abbiamo imbrogliato, che il Jobs Act non può essere valutato solo sulla base dei nuovi posti di lavoro e che comunque il calo della disoccupazione e l’aumento degli occupati sono dati positivi, anche se irrisori.
Certo! Peccato che il Jobs Act non c’entri nulla!

La disoccupazione è diminuita dell’1% scendendo dal 12,4% all’11,4%, ma i dati sono sostanzialmente in linea con quelli europei: nell’Eurozona la disoccupazione è al 10,5%, in Francia al 10,1%, in Spagna al 21,4%, in Germania al 4,5%. La curva di crescita è in linea con l’UE, dove da gennaio a novembre la disoccupazione è scesa dello 0,7%. In sintesi: il jobs act è stato ininfluente rispetto alla dinamica del mercato del lavoro, l’andamento è stato in linea con quello del resto dell’UE; quel pochissimo in più ci è costato carissimo!

2. Effetti politici dell’operazione

Insomma, il Jobs Act ha prodotto poco in termini lavorativi nonostante le roboanti promesse di Renzi; che cosa ha prodotto, invece, in termini politici?

1. Contratto a tutele crescenti: il tempo indeterminato non esiste più, dal momento che è stato di fatto cancellato il reintegro e la sanzione amministrativa in caso di ingiustificato motivo è modesta. Ci sono stati, infatti, già casi di licenziamenti di lavoratori assunti col contratto a tutele crescenti.

2. Contratti a tempo determinato
: Abolito ogni obbligo di indicazione delle ragioni tecniche, produttive, organizzative, sostitutive nei primi 36 mesi di ricorso al contratto a termine, fino a un massimo di 5 rinnovi. Considerato che basta cambiare il titolo della mansione per ricominciare daccapo con lo stesso lavoratore, si può dire che non c’è alcun limite di utilizzo ai contratti a termine. L’unica sanzione prevista, per un utilizzo oltre il limite del 20% del totale del personale, è minima: il 20% della retribuzione del 21esimo contratto. Non a caso, nonostante i consistenti sgravi contributivi per i contratti a tutele crescenti e nonostante la libertà di licenziare, i contratti a termine sono la forma di contrattazione più utilizzata nel lavoro subordinato.

3.voucher Voucher: non sono contratti, ma sono la forma di organizzazione del lavoro maggiormente cresciuta nel 2015. Ne sono stati venduti 114.921.574 del valore nominale di 10 euro, per un ammontare complessivo dunque di oltre un miliardo di euro. Danno diritto alla maturazione della pensione e all’assicurazione INAIL, manon a disoccupazione, maternità, malattia, etc etc, perché non si certifica, col voucher, la continuità del rapporto di lavoro. Il limite economico di utilizzo annuo è 9333 euro lordi a lavoratore, più basso nel caso di prestazioni per imprenditori commerciali e liberi professionisti. Ciò significa che, nel corso del 2015, almeno 123.134 lavoratori sono stati pagati con voucher. Molti di più, se si considera che per alcuni settori – pub, ristoranti, … – il limite è più basso, è che molti vengono retribuiti in parte in nero, in parte in voucher. Possiamo stimare senza timore di esagerare che sono stati circa 200000 i lavoratori pagati in voucher, pari alla totalità dell’incremento del numero degli occupati (nel cui computo comunque non confluiscono).

4. Controllo a distanza: senza alcun collegamento con eventuali effetti benefici sul mercato del lavoro, nel Jobs Act è stata inserita la possibilità, per i datori di lavoro, di controllare i lavoratori attraverso telecamere a circuito chiuso, controllo telematico sull’uso dei PC, chip nelle scarpe per il controllo dei movimenti: in pratica è diventato legale il modello organizzativo di Amazon.

5. Demansionamento: come dice questo articolo (http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-sanatoria-nascosta-nel-jobs-act/) una pratica, quella del mancato riconoscimento della professionalità, che è anticostituzionale e riconosciuta dalla medicina del lavoro come lesiva dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, è stata riconosciuta innocua e consentita sempre e comunque.

 

3. Ma insomma, l’economia è ripartita?

Il 14 Marzo 2015 Renzi era in visita al cantiere dell’Expo. Mancavano 50 giorni all’apertura e il cantiere era pronto al 90%, ma ciò bastava e avanzava, per Renzi e Squinzi, per lanciarsi in ottimistiche previsioni sulla ripresa in Italia. Dall’articolo de laRepubblica on-line di quel giorno leggiamo che Squinzi dichiarava: “possiamo invertire la rotta e cambiare la condizione del Paese. Expo è il motore che permetterà al Paese di accelerare i consumi interni ed è il trampolino per la crescita del nostro Pil”. Renzi, dal canto suo, non si sottraeva: “Dopo questo non finisce tutto perché finalmente l’economia italiana sta ripartendo e potremo reinvestire nel settore delle infrastrutture anche alla luce delle nuove tecnologie”. Di dichiarazioni come queste, il governo, i giornalisti al suo seguito, gli esperti che non ne indovinano una da anni ne hanno rilasciate con frequenza più che quotidiana. È andata davvero così?

Insomma: il PIL cresce, ma pochissimo (+0,7% al secondo trimestre 2015, gli ultimi dati accessibili); la produzione industriale crolla (-1% a dicembre 2015, era al +0,2% un anno prima; i prezzi al consumo ristagnano allo 0,1%; la disoccupazione segue la tendenza europea e resta comunque alta, mentre sale la quota di inattivi; l’OCSE, infine, ha tagliato le stime di crescita per i prossimi due anni, per praticamente tutto il mondo. È evidente che, in un contesto di crisi generalizzata e globale, solo un imbecille o qualcuno in malafede può ritenere che misure come gli esoneri contributivi e il Jobs Act possano rilanciare l’occupazione…Bene: proveremo a dimostrarvi che tutto ciò che il governo ha fatto sul lavoro è esattamente il prodotto di imbecilli in malafede!

 

4. Qual è stato l’obiettivo reale? Di fatto, quali sono stati gli effetti più consistenti del Jobs Act?

Il costo del lavoro per le imprese è stato ridotto, scaricandolo sulla collettività, quindi, in ultima analisi, sul salario.
La conflittualità è stata annichilita dalla cancellazione dell’articolo 18, dal controllo a distanza e dal demansionamento.
La possibilità di ricorrere al lavoro precario, o di “legalizzare” il nero, è aumentata enormemente, col boom dei voucher e la predominanza dei contratti a tempo determinato.
Il governo, insomma, ha fatto regali immensi ai padroni: ma i padroni, che stanno facendo per il famoso “sistema Paese”? Vediamolo.

 

5. L’economia italiana, ovvero: il morto interrogato non rispose

Uno dei cavalli di battaglia del governo è stato che gli interventi sul lavoro avrebbero rilanciato la produttività; non a caso nell’ultima legge di stabilità lo Stato si fa praticamente carico degli investimenti privati introducendo il cosiddetto “superammortamento”, cioè una valutazione maggiorata del 40% delle spese sostenute per l’acquisto di nuovi macchinari e i canoni di locazione, in maniera tale da avere consistenti sconti su IRES e IRPEF: in parole semplici i padroni pagano meno tasse se investono.
A quanto pare, però, a questo fatto di spendere i soldi i padroni italiani sono piuttosto refrattari: tra il 1995 e il 2014, infatti, la quota di investimenti sul PIL è diminuita del 2,51%! Nonostante ciò, nello stesso arco di tempo la produttività, cioè la quantità di prodotto per unità lavorativa, è costantemente aumentata, tranne che nel 2009 e nel 2012: in totale, nel 2014 era il 47% in più rispetto al 1995!
Chi ha fatto questo vero e proprio miracolo italiano? I lavoratori! Solo aumentando l’intensità di sfruttamento, intesa anche, brutalmente, come pagare di meno per più lavoro, è possibile crescere in produttività riducendo gli investimenti…insomma, avremmo tutto il diritto di decidere noi sulle scelte economiche, visto che sono i numeri stessi a dirci che mandiamo avanti la baracca, ma invece dobbiamo sorbirci le lezioncine di chi ci accusa della mancata crescita perché…guadagniamo troppo!

In un recente documento del proprio centro studi, infatti, Confindustria grida allo scandalo, sostenendo esplicitamente che, in uno scenario in cui il valore aggiunto non cresce a sufficienza, la massa salariale assume, rispetto al PIL, proporzioni intollerabili.
E hanno ragione (dal loro punto di vista…)! La curva dei salari, infatti, dall’inizio della crisi del 2008, da quando cioè il PIL è in contrazione, diventa leggermente anticiclica. Dal momento che non esiste ancora – per fortuna – una scala mobile al contrario (anche se c’è da dire che con gli ultimi rinnovi dei CCNL sono quasi riusciti ad imporla), non è stato possibile per i padroni tagliare i salari proporzionalmente al crollo del PIL, quindi questi ultimi sono, in percentuale, aumentati: di pochissimo, +1,20 % la differenza tra il 2014 e il 1995, ma abbastanza per allarmare Confindustria. Non è un caso, infatti, che nei più importanti rinnovi contrattuali del 2015 i padroni abbiano chiesto un ridimensionamento salariale, o in alternativa la corresponsione degli aumenti concordati in forma di premio di risultato.

Ma che cos’è che davvero preoccupa Confindustria? La produttività cresce senza che loro investano più di tanto, e se lo fanno hanno lauti sconti sulle tasse; i salari sono aumentati in proporzione al PIL, sì, ma dello 0,06% medio all’anno; non pagano i contributi per i neoassunti, possono licenziarli quando vogliono, possono usare i voucher in qualunque settore…che cosa ti preoccupa, Squinzi?

Noi lo sappiamo, perché loro non hanno vergogna a dirlo: li preoccupa il cosiddetto MOL, margine operativo lordo, che noi più chiaramente chiamiamo profitto. Rispetto al 1995, nel 2014 la percentuale del MOL sul PIL era diminuita dell’1,40%, e di anno in anno la variazione oscilla tra un + e un – zero virgola…insomma, si può dire che sia leggerissimamente in calo, e che l’unico sforzo dei padroni in questi vent’anni sia stato quello di mantenerlo più o meno costante, non farlo diminuire troppo.

 

6. Ma che colpa abbiamo noi?

Ricapitoliamo un po’ il comportamento di questi geni dell’economia e della finanza: scoppia la crisi, e la prima cosa che fanno in Italia è minare alla base le possibilità di una ripresa, diminuendo la percentuale di capitale investito, solo per continuare a mettersi in tasca più o meno gli stessi soldi a fine anno; dopo che hanno fatto questo decidono che è il momento di attaccare frontalmente i salari: il jobs act e i rinnovi contrattuali arrivano esattamente a questo punto, e si portano dietro anche una prevedibile riduzione delle imposte sul lavoro, dal momento che ci sarà sempre meno welfare da finanziare.

Risultato: siamo di fronte al più grave attacco al salario degli ultimi 30 anni almeno, che: non farà aumentare il PIL; non avrà risultati sulla produttività; servirà a mantenere invariata, almeno per qualche anno, la quantità di soldi che i padroni rubano, fino a trovarci – si parla già del 2017 – precipitati in un’altra crisi, peggiore della precedente (l’andamento delle Borse degli ultimi mesi è un indicatore affidabile).

Se ciò non bastasse, per non farsi cogliere di sorpresa il capitale italiano sta tentando disperatamente di svendere al miglior offerente i settori produttivi strategici.
Parliamo di Finmeccanica, che sta svendendo tutto ciò che non è legato alla produzione militare, come l’aeronautica (e lo sanno bene i lavoratori Alenia, Fincantieri. Dema…).
Parliamo dell’ILVA, il più grande impianto siderurgico a ciclo integrale d’Europa finché non è stato regalato dallo Stato ai Riva, che hanno smesso di investirci fino a quando, con l’esplodere dello scandalo ambientale, l’unica prospettiva realistica, per quanto lontana, è diventata una riconversione dello stabilimento in un impianto di lavorazione di semilavorati, non più competitivo, a spese dello Stato.

 

7. Conclusioni

Usiamo l’abusata metafora del governo, o della società, come una nave, precisamente, per restare ancora di più nel cliché, come il Titanic.
Qualcuno l’ha costruito male, risparmiando su tutto, dai pezzi alla manodopera. Ci ha caricato sopra una quantità di gente, tutta in qualche modo costretta a lavorarci o viverci. Alle prime falle, questo qualcuno ha pensato bene di ripararle prendendo dei pezzi da altre parti della chiglia. Ogni volta che riparava, aumentava la fragilità complessiva, ma al tizio non interessava, l’importante era continuare a navigare, speculando e arricchendosi su tutti, dai marinai ai passeggeri. A un certo punto il Titanic inizia a collassare, il tizio e altri stronzi come lui non solo si buttano sulle scialuppe scacciando gli altri, accusano passeggeri e lavoratori che è colpa loro, sono troppi, è pure un po’ giusto che muoiano e, ciliegina sulla torta, prima di salire sulle scialuppe si affannano anche a sfasciare ulteriori pezzi di chiglia, contando di vendere un po’ di ferraglia a qualcuno, dopo la bufera.

Sperano, gli stronzi, di sopravvivere sempre, di restare sempre a galla rispettando la loro natura; sperano quindi, dopo l’ennesimo naufragio, di trovare ancora qualcuno a cui vendere la loro paccottiglia. Ma un dopo, e un qualcuno, per loro potrebbero non esserci; prima che il naufragio si compia la gente sulla nave potrebbe decidere di buttarli a mare, oppure potrebbero sbarcare in un posto dove sanno benissimo com’è andata e fanno loro pagare tutto, fino all’ultimo centesimo.

Insomma, in questa storia, e nella Storia, come sempre, il futuro non è scritto!

6/3/2016 http://clashcityworkers.org

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