L’autismo occidentale

L’autismo (dal greco αὐτός, aütós – stesso) è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da deficit della comunicazione verbale e non verbale, che provoca comportamenti ripetitivi.
In un certo senso, questa definizione ben si attanaglia al comportamento degli USA – e quindi dei vassalli del NATOstan – sulla scena internazionale, ma sicuramente con l’accendersi del conflitto in Ucraina questo autismo ha raggiunto nuove, pericolosissime vette.

L’ombelico del mondo

Gli Stati Uniti hanno immaginato, teorizzato, perseguito, ed infine realizzato, il sogno di un dominio globale, a partire da un’idea di eccezionalità (auto attribuita), che si tradurrebbe nel famoso destino manifesto (1). Tale propensione ha trovato il suo coronamento nel 1945, con la vittoria nella seconda guerra mondiale, per poi raggiungere il suo apice nel corso della guerra fredda. Ovviamente, nel corso di questa lunga traiettoria politica, l’élite statunitense – e di riflesso la popolazione del paese – ha maturato la crescente convinzione che il proprio successo globale fosse la controprova della propria titolarità ad ottenerlo; coerentemente con lo spirito dell’etica protestante-capitalista (2), negli states ha preso forma una vera e propria ideologia suprematista, il cui fondamento culturale è la convinzione di incarnare l’ideale di giustizia. Un’idea, questa, non estranea anche ad una visione religiosa del mondo, con tutto il carico di manicheismo che questa comporta. E che, niente affatto a caso, è estremamente simile a quella che anima un alleato del cuore, Israele.

Forte di questa granitica convinzione – i buoni siamo noi – per l’élite statunitense è stato ed è assolutamente normale e legittimo operare al fine di conformare il mondo a sé stessi. E poiché ovviamente non è impresa facile, piuttosto che cercare di esercitare la propria egemonia, ha finito quasi sempre per preferire la via più spiccia (e più sicura) del dominio.
In questa singolare forma di narcisismo politico, essendo un paese assolutamente giovane, senza radici storiche, si è reso necessario creare anche un immaginario all’altezza dell’ambizione; ragion per cui, assai spesso, gli Stati Uniti amano considerarsi una versione moderna dell’Impero Romano – pur avendo di questo, anzi, soprattutto in quanto di questo hanno un’idea superficiale, estetica, e per di più hollywoodiana.
Sfortunatamente, il deep state USA non ha mai avuto la capacità di capire il mondo che aveva Roma.

Un esempio paradigmatico di ciò – di non capire l’altro da sé, e di non considerare altro che sé – è rappresentato dalla posizione (verrebbe da dire dalla postura) con cui Washington affronta lo snodo epocale di cui la guerra ucraina – strenuamente cercata e voluta – rappresenta al momento la fase più acuta.
Si dice che l’obiettivo statunitense, nel premere continuamente contro le frontiere della Russia prima, nell’innescare la guerra in Ucraina poi, fosse principalmente quello di tranciare i rapporti tra Europa (Germania in primis) e Federazione Russa – cosa poi, anche simbolicamente, messa materialmente in atto tranciando i gasdotti North Stream.
Questo era sicuramente tra gli obiettivi, giacché la saldatura eurasiatica è sempre stata la minaccia suprema per il dominio americano. Che non a caso cerca sempre di non nominarla neanche. E sicuramente questo obiettivo è stato conseguito, almeno sul breve periodo. Il prezzo da pagare per questo risultato, però, sul medio e lungo periodo è decisamente elevato, giacché con ogni probabilità – se pure allontana la prospettiva del formarsi di un blocco euroasiatico – sta spingendo l’intero mondo non-occidentale tra le braccia di Russia e Cina, e queste ultime a legarsi strategicamente.

Ma oltre a ciò, è incredibile la mancanza di visione strategica nei confronti della Russia.
Mancanza che, come si può vedere, nasce da quel senso di supponenza, quell’illusione d’essere l’ombelico del mondo, che porta gli Stati Uniti ad entrare in conflitto con la maggiore potenza nucleare del pianeta, ignorandola completamente.
Se durante la lunga fase dell’espansione ad est della NATO, e poi della costruzione d’una situazione esplosiva in Ucraina, si poteva pensare che tutto rispondesse – appunto – al disegno strategico di provocare la reazione russa, l’inizio del conflitto ha portato alla luce la mancanza di un disegno strategico relativamente alla guerra con la Russia. È infatti evidente che non c’è una strategia che punti realmente alla vittoria sul campo (anche perché, se non altro, c’è la consapevolezza che ciò condurrebbe ad un conflitto nucleare), ma neanche una reale strategia che punti al logoramento dell’avversario, almeno sul piano militare. L’idea del logoramento politico-economico è peraltro clamorosamente fallita…

È evidente la totale indifferenza alle sorti della popolazione ucraina, e della stessa nazione amica; il supporto propagandistico sfrenato, la mitizzazione della figura di Zelensky (in effetti un attore televisivo dalla comicità alquanto grossier, portato al potere da un oligarca che contava di farne la sua marionetta), accompagnato ad un supporto militare accuratamente centellinato, mai sufficiente a mutare radicalmente la situazione sul terreno, testimoniano non solo la volontà statunitense di usare Kyev per la propria proxy war, ma anche l’assenza di una qualche strategia militare, che tenesse in conto anche le capacità belliche e le preoccupazioni politiche russe.
In effetti, se si guarda al complesso supporto messo in campo dall’occidente, risalta lo scarto tra l’enfasi propagandistica (un continuo peana all’immancabile vittoria ucraina) e gli effettivi aiuti militari, assai più simili ad una flebo, calibrata in modo da garantire giusto la sopravvivenza dell’organismo alimentato.

L’ordine del caos

Tutto sembra per un verso rispondere quindi alla classica strategia USA, la pura e semplice destabilizzazione come fattore di controllo e dominio. La guerra intesa non tanto come strumento che, attraverso il conseguimento di determinati obiettivi militari, punta ad ottenere un risultato politico, ma è la guerra in sé, come fase di disordine ed instabilità, ad essere lo strumento.
L’esito del conflitto, quindi, quanto meno sotto il profilo militare, sembrerebbe essere secondario. La guerra durerà finché conviene che duri. Ma non perché maggiore è la durata maggiore sarà il logoramento del nemico, ma solo perché è il caos bellico ciò che si vuole.
La guerra del Vietnam, così come quella in Afghanistan, sono durate vent’anni. E si sono entrambe concluse con una precipitosa fuga, quando a Washington hanno ritenuto che il gioco non valesse più la candela.

Ma è effettivamente così, è questa la strategia USA, che si cela dietro l’apparente mancanza di una strategia? Nel caso specifico del conflitto ucraino, la domanda resta effettivamente aperta. Poiché non poche sono le perplessità, gli indizi che indurrebbero a pensare che – al contrario – non ci sia alcun disegno strategico, e che il caos stavolta regni alla Casa Bianca. Formalmente, la posizione statunitense è che il quando ed il come debba finire la guerra vadano stabiliti dal governo ucraino; naturalmente è un’ipocrisia, giacché con ogni evidenza è Washington ad avere in mano le chiavi di questa decisione, e non soltanto perché sono gli aiuti statunitensi a far sì che non finisca domani stesso. E infatti, ogni qual volta si rende necessario, gli USA non si fanno scrupolo di dettare pubblicamente la linea.
Ora è abbastanza evidente – non solo per logica, ma proprio osservando le dinamiche di questi quattordici mesi – che gli Stati Uniti non vogliono mettere la Russia spalle al muro; non solo per il timore che ciò porterebbe dritti dritti ad un conflitto nucleare, ma perché uno scontro diretto tra NATO e Federazione Russa, sia pure meramente convenzionale, non solo avrebbe serissime possibilità di concludersi con una disastrosa sconfitta, ma rischierebbe di allargarsi spaventosamente.

Di là dagli esiti militari, una guerra NATO-Russia in Europa infiammerebbe facilmente l’intero continente euroasiatico. Un primo focolaio si accenderebbe sicuramente in Medio Oriente, con un conflitto violento tra Israele ed Iran (più Siria, Libano, palestinesi…). L’innalzamento del livello di scontro spingerebbe la Cina a rompere gli indugi, e ad entrare direttamente in campo, il che probabilmente significherebbe nuovi conflitti in Corea ed a Taiwan. Con nuovi possibili focolai nel mar Rosso e nell’oceano Indiano.
La dottrina militare statunitense prevede che il paese debba essere in grado di combattere due guerre contemporaneamente, ma dopo il lento depauperamento degli arsenali in conseguenza della guerra ucraina (per non parlare di quello degli eserciti europei, già di per sé assolutamente impreparati ad un conflitto di tale portata), le possibilità che gli USA possano reggere – e vincere! – uno scontro praticamente planetario, contro due grandi superpotenze nucleari, più altri due eserciti formidabili come quello iraniano e nordcoreano, è praticamente pari a zero.

A meno quindi di un totale impazzimento nel deep state, capace di sovrastare persino l’enorme potere del complesso militare-industriale, è ragionevole ritenere che il confronto diretto con la Russia sia una red line che Washington non intende superare.
La questione fondamentale, pertanto, sarebbe quanto a lungo pensano di poter tenere in vita il conflitto, guardando non soltanto alla capacità di resistenza militare ucraina, ma anche a quella più complessiva dei paesi europei. Ma, appunto, è lecito chiedersi se a Washington abbiano una qualche idea sul quando e sul come porre fine alla guerra.
Gli Stati Uniti, nella loro strategia di sicurezza nazionale del 2022, si sono dichiarati egemoni globali, uno stato la cui sfera di interesse è il mondo intero. Ma la vastità non solo dell’ambizione, ma persino della effettiva possibilità di comprendere e valutare le infinite variabili che una tale visione comporterebbe, rendono tutto ciò alquanto dubbio.

Il nemico russo

Indubbiamente, anche se nella percezione americana è la Cina ad essere identificata come la minaccia effettiva, l’unico vero competitor nell’egemonia globale, con ogni probabilità tale competizione si immagina di risolverla attraverso un duro contenimento di Pechino, da agire sia usando leve economiche e commerciali, sia leve militari – laddove e quando serve. Diversamente, nella prospettiva globale statunitense, Mosca non è un competitor, ma ad un tempo un ostacolo ed una preda. Una preda, perché le immense risorse di cui dispone fanno gola al vorace capitalismo a stelle e strisce, un ostacolo perché sinché esisterà una Russia – potente ed unita – il pericolo di una saldatura euroasiatica (la vera minaccia esiziale) non sarà eliminato. L’ambizione, quindi, è certamente quella di frantumare e saccheggiare la nazione russa. Però non hanno idea di come farlo.

Come dice il vice ministro degli esteri di Mosca, Sergey Ryabkov (3), parlando con i rappresentanti statunitensi si ha l’impressione che il presupposto dominante sia che è possibile raggiungere gli obiettivi dichiarati dall’occidente in relazione all’Ucraina e, di conseguenza, anche alla Russia. In altre parole, non hanno alcun piano B. Mancano sempre meno passi al momento in cui potrà iniziare qualcosa di, diciamo, qualitativamente più pericoloso.
Lo sconcertante è che forse non hanno neanche un piano A.
Se si guardano le dichiarazioni ed i passi effettivi che provengono dalla Casa Bianca, emergono con lampante chiarezza due elementi: la volontà di sostenere l’Ucraina ad ibitum, senza che sia chiaro per conseguire quale risultato e come farlo, ed al tempo stesso il considerare la Russia come un corpo inerte, vuoto, del tutto privo di capacità, di interessi e di volontà, per cui tutto ciò può essere ignorato.

Ogni (mutevole) ipotesi su quale possa essere astrattamente una condizione accettabile per porre fine alla guerra, è sempre immaginata e narrata non come un possibile terreno di partenza per una trattativa, e quindi soggetta a discussione e mediazione, tenendo in conto entrambe le parti, ma come una possibile, generosa concessione, alla quale la Russia dovrebbe automaticamente aderire. Anche a prescindere dal fatto che – da che mondo è mondo – è chi si trova in vantaggio sul campo a dettare le condizioni, e non il contrario, pensare in questi termini è decisamente infantile.
Non è un caso, infatti, che tutte le ipotetiche condizioni di pace che vengono fuori dal NATOstan, siano sostanzialmente improntate all’idea che Mosca non veda l’ora di porre fine alla guerra, a qualsiasi condizione. E che quindi, ad esempio, una rinuncia ucrainaalla Crimea ed a parte del Donbass sarebbe una lauta concessione, di cui la Russia dovrebbe prontamente approfittare.

Tutto ciò, laddove è invece fin troppo evidente che non c’è alcuna intenzione, da parte russa, di rinunciare ai territori liberati a così caro prezzo (e sulla cui ricostruzione sta già fortemente investendo), ma soprattutto che per nulla al mondo rinuncerebbe a solidissime garanzie sulla sicurezza dei propri confini occidentali – il che significa, soprattutto alla luce dell’ulteriore espansione scandinava della NATO, che condizione minima è la demilitarizzazione dell’Ucraina, e quindi la sua non adesione all’Alleanza Atlantica. Se ciò non potrà essere garantito per via diplomatica, lo otterrà manu militari.
Questa è una condizione irreversibile, perché Mosca ha chiarissimo che il desiderio occidentale è quello di distruggerla, come entità stato-nazionale, e quindi questa è una questione di sopravvivenza. Se non otterrà le garanzie di sicurezza che chiede attraverso una trattativa (e dopo il fallimento degli accordi di Minsk, e la loro conclamata falsità da parte ucraina ed europea, dovranno essere più che solide), non avrà altra scelta che conquistarsele da vincitore.
C’è quindi questa contraddizione stridente, tra una posizione che sembra disinteressata alla pace, ed una condotta che non cerca soluzione nella guerra.

La volontà egemonica, che oggi appare più che altro la strenua difesa di un dominio di fatto ormai finito, si manifesta insomma in un caos non più come arma, ma come condizione che caratterizza innanzitutto il cuore stesso dell’impero. Non è un caso che gli states siano politicamente frantumati come non mai, attraversati da un sorta di guerra civile latente, sull’orlo del baratro finanziario (con un debito che schizza irrefrenabilmente verso l’alto, mentre il dollaro perde velocemente lo status di moneta globale), ed il paese comincia a cedere socialmente e strutturalmente.
Il dubbio non è più soltanto se Washington abbia o meno una strategia, ma forse se sia il malato (l’autistico chiuso in sé stesso, che non  sa comunicare col mondo) o la malattia (la “peste che ha invaso il mondo”, per dirla con le parole di Susan Sontag (4)).


1 – Cfr. “Destino manifesto”Wikipedia
2 – Cfr. Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”Wikipedia
3 – Cfr. “Viceministro degli Esteri della Federazione Russa Sergei Ryabkov: gli Stati Uniti non hanno un piano ‘B’”aif.ru
4 – Susan Sontag, “Malattia come metafora”, Einaudi

Enrico Tomaselli

2/5/2023 https://giubberosse.news

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