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Commenti di Mauro Biani

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    Esegetica di un governo nato dall’alto. Un primo elemento riguarda la collocazione di tecnici nei ministeri chiave (economia, innovazione tecnologica, transizione ecologica, infrastrutture, istruzione, università) e il forte peso dei ministri provenienti dal Nord-Est (la maggioranza) che fa il paio con l’ispirazione neo-liberista temperata di buona parte di questi.

    L’autorevole distruttore

    Pubblicato da franco.cilenti

    PDF http://www.lavoroesalute.org

    Versione interattiva http://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-marzo…/

    Le interpretazioni sul carattere del governo Draghi sono molte e contraddittorie, anche perché segnali di grandi cambiamento non si sono ancora misurati in questo breve tempo dalla sua nascita.
    Ci si è basati molto sulle esperienze precedenti di Draghi o su brevi explois del suo presunto pensiero filosofico-economico.
    Nel paese sospeso dalla crisi indotta dalla pandemia ora ci si interroga se veramente Draghi sia il Salvatore, il Principe macchiavellico che resuscita le sorti di un paese ormai disastrato da un declino inziato nella metà degli anni ‘90 e oggi ancor più in crisi a causa del Covid.

    Iniziamo a dire che Draghi non ha tutti questi poteri divinatori.
    E’ certo uno dei migliori uomini della finanza internazionale, ma non è un politico come lo poteva essere un Ciampi, per di più non ha un partito, non è eletto e nemmeno senatore a vita.
    Di qui il necessario compromesso a base di manuale Cencelli fatto con i partiti di destra e sinistra che lo sostengono, nell’assegnare gli incarichi sia dei ministri che dei sottosegretari.
    Ma esaminando più in dettaglio le nomine emergono già dei segnali che sembrano una traccia o un solco di quello che potrà accadere.

    Un primo elemento riguarda la collocazione di tecnici nei ministeri chiave (economia, innovazione tecnologica, transizione ecologica, infrastrutture, istruzione, università) e il forte peso dei ministri provenienti dal Nord-Est (la maggioranza) che fa il paio con l’ispirazione neo-liberista temperata di buona parte di questi.

    Non c’è nessun fanatico keynesiano fra di loro. Nessuno osa andar al di là delle melense, trite e ritrite idee dello stato come supporter del libero mercato tramite la leva fiscale. Nessuno vede di buon grado un intervento di direzione dello stato in settori importanti dell’economia ancorchè strategici, nessuno ama la costituzione di nuove imprese pubbliche a direzione statale. Si seguono le direttive europee, e su questo Draghi esercita un’enorme attenzione nel fare qualsiasi passo in perfetta sintonia con Bruxelles, come nell’azione eclatante contro Astra-Zeneca col blocco di 250 mila vaccini nello stabilimento di Anagni sono, concordato con la Von der Leyen.
    Permane ancora, in virtù dei vincoli costituzionali e della fiammata pandemica, l’idea di scuola e sanità relativamente pubbliche. Sebbene sotto le ceneri, soprattutto presso la componente di centro-destra del governo (lega, forza italia e.. italia viva), covino sempre le idee di rilanciare la privatizzazione strisciante nella sanità e come della scuola.

    Eppure ancora nei primi decreti permane l’impronta del governo precedente. Politica di rigore sulla prevenzione sanitaria compensata dai sostegni per i settori economici più penalizzati da chiusure e restrizioni sociali antipandemiche (turismo, turismo alpino, palestre, commercio, teatri, cultura), proroga dei licenziamenti e riforma degli ammortizzatori sociali.

    Sul terreno fiscale viene archiviata la minacciata riforma di Gualtieri improntata a una forte progressività per i grandi patrimoni, ma si riprende la riforma dell’allargamento delle basi imponibili (che verranno liberate dal ginepraio di leggi di favore cumulate nell’arco di 30 anni) e che potrebbe importare tutti i redditi da rendita. Sul terreno della progressività Draghi vuole imporre una soglia massima che non sia più di tanto discostante da quella attuale (41%, quando fino al 1982 si arrivava al 72%…).

    Un altro limite dell’azione di Draghi viene dall’entità e carattere dei finanziamenti Europei elargiti in 7 anni. Sono sembrati tanti rispetto alla misura dei tagli subiti negli ultimi anni dal nostro paese, ma risultano limitati se si pensa che per le grandi trasformazioni verdi, dell’industria 4.0, del digitale e della sanità che si vogliono fare non basteranno.

    Quando in Europa sono programmati complessivamente 750 miliardi in 7 anni, abbiamo di contro gli USA di Biden che ne stanziano 3 mila miliardi di investimenti pubblici. Inoltre solo un terzo di questi soldi sono a fondo perduto, due terzi sono prestiti, pur a tasso agevolato e da restituire in 30 anni. Il piano Marshall in paragone era tutto a fondo perduto e di maggiore entità.
    De Gasperi ha avuto molta più “fortuna” del povero Draghi.
    Va da sé che tutte le aspettative miracolistica create attorno al Recovery Plan saranno ridotte a ben più misere basi prosaiche nell’applicazione.
    Non a caso Confindustria ha sgomitato e sgomita per accapparrarsi il più dei soldi per le sue industrie del nord più produttive, escludendo il resto del paese.
    L’idea classica di Joseph Schumpeter, ultimamente tanto citata, della “distruzione creativa” nei processi di transizione capitalistica, rischia qui di trasformarsi in una volgare prassi di grande distruzione con scarsa creazione.
    Prima di tutto perché nel nostro PNRR alle diverse quote di risorse finanziarie fissate per i diversi progetti di sviluppo seguiranno dei classici bandi gara specifici, ai quali dovranno aderire con diverse proposte di progetto vari soggetti privati o pubblici-privati nella forma del partenariato, grande formula madre di tutte le concessioni di gestione di importanti servizi pubblici ai privati.
    In secondo luogo che nella forma dei bandi aperti, liberi, certe regioni e certe aree del paese come il Meridione sono da sempre in maggior affanno, vuoi per la crisi delle imprese, vuoi per l’accesso al credito che solitamente è necessario per accedere comunque ai ondi europei o nazionali. Sappiamo tutti che oggi, malgrado i tassi bassissimi, i forzieri delle banche sono strapieni di liquidità poichè la cessione di credito viene ormai data solo ad imprese che non siano più che in salute. In questa fase le banche vivono nella paura della crescita dei crediti inesigibili, per questo non rilasciano prestiti facilmente, nonostante i tassi d’interesse bassissimi e le eventuali garanzie di Stato. In questo modo favoriscono le strette recessive sulla produzione, come la deflazione per i mancati investimenti.
    La crisi del credito privato produttivo di recessione e deflazione non può essere risolto con i normali meccanismi europei dei finanziamenti di stimolo al mercato delle imprese. Occorrerebbero maggiori capitali gestiti direttamente dal pubblico, come un piano di maggiori assunzioni nel settore pubblico, cose assolutamente keynesiane e in Europa ancora fuori di moda.
    Il Recovery Plan per sua impostazione, semiliberista, non è quindi in grado di per sé di risolvere il problema. Lo Stato sarà obbligato a una funzione di controllo, di incentivo tramite la leva fiscale in forme condizionali o meno, ma non altro.
    L’idea di stato pianificatore o di stato imprenditore non è presente nei testi e nelle linee guida europee, così come il PNRR non è il cavallo di Troia del nuovo stato imprenditore. Non è scritto da nessuna parte, nessuno ci sta pensando fra Bruxelles e Roma.
    E Draghi, da perfetto uomo d’Europa ed esecutore testamentario delle direttive europee, si guarderà bene dal farlo. Non ci pensava nemmeno Conte, figuriamoci il suo successore!
    Dunque in questo piano neoliberista temperato, il compito di Draghi si ridurrà a favorire con tempi certi e scanditi, che i soldi europei tornino indietro da dove sono venuti. Se i fondi messi a disposizione non verranno spesi tutti (e quindi non arriveranno progetti a sufficienza) quei soldi verranno spostati su altri progetti che sarranno a quel punto meno finanziati dalla UE fino ad esaurimento dei progetti. Può pure accadere che per la nostra inefficienza intrinseca (sia della parte statale amministrativa che di quella privata delle imprese) si abbia alla fine una minor spesa con un minor debito, ottenendo una minore crescita, ovviamente.
    La stessa coesione sociale, tanto millantata nel Recovery Plan, rischia per questi meccanismi di leggero stimolo del mercato da parte pubblica, di non essere favorita. Basta guardare ai crescenti divari fra Nord e Sud del paese, e fra i diversi territori, accentuate dalla pandemia.
    Da sempre le performance delle regioni del sud rispetto a quelle del nord nell’utilizzo dei fondi europei sono peggiori, anche su progetti di maggior interesse per il meridione, come quello dell’economia circolare, principalmente del ri-ciclo dei rifiuti.
    L’ultimo bando in Italia di 220 milioni per lo sviluppo dell’economia circolare ha visto solo il 30% di utilizzo dei fondi (77 milioni), di questi solo un sesto è stato utilizzato dalle regioni del Sud (11 milioni).
    I rischi di un accellerazione con il Recovery Plan delle differenze economiche e sociali fra Nord e Sud, e all’interno dei diversi territori sono molto forti, se non vi è una regia molto attenta di contrasto a questi “meccanismi spontanei”. Da alcune premesse di questo governo dei dubbi sono leggittimi che questa regia sussista.
    Nella sua interpretazione della “distruzione creatrice” fattane in Parlamento, Draghi pensa più alla tutela dei licenziati che a quella dei posti di lavoro ovvero delle imprese “decotte”, quindi predilige più le naspi e il reddito di cittadinanza che la cassa integrazione per garantirne una sorta di transizione ai nuovi posti, magari con corsi di riqualificazione gestiti fra regioni e imprese… Anche qui le imprese da supportare saranno solo quelle che vanno già bene sul mercato. Ma questo darwinismo sociale può significare la morte di interi territori se ci si affida al semplice spontaneismo di mercato e non ad un intervento riequilibratore dello stato.

    Rimane il dubbio sulla ricollocazione difficile, con tutte le riqualificazioni del caso, per chi perde il lavoro a 55 o 58 anni con il persistere di una riforma Fornero che ha allontanato l’età pensionabile per lavoratori precoci e no, impedendo qualsiasi forma di scivolo come la vecchia mobilità o di prepensionamento nei casi di crisi. Ma il tema delle pensioni (richiesto fortemente da Bruxelles) è ancora un tabù per questo governo.
    L’esodo di massa prodotta dalla transizione alla industria verde e 4.0 non è ancora ben focalizzato da questo governo dei “migliori”.

    Certo, vorranno cambiare le politiche attive del mercato del lavoro, quelle che favoriscono la ricollocazione. Ma vogliono riformare gli uffici per l’impiego facendoli veramente funzionare o delegare tutto alle agenzie private, cioè a quelle interinali, come vorrebbe Confindustria?

    D’altra parte una delle maggiori proccupazioni di Draghi è di liberare dall’indebitamento una parte importante delle imprese, ancora economicamente attive e produttive, per salvare le banche dall’eccesso di crediti tossici: la nuova pandemia finanziaria che sta infettando tutte le banche nel mondo, mettendo a serio rischio il sistema finanziario mondiale. Della qual cosa se ne potrebbe avvantaggiare solo un unico grande fondo sovrano, di questi tempi fortemente blindato, quello cinese…

    Marco Prina
    Cgil Moncalieri (TO)

    Collaboratore radazionale di Lavoro e Salute

    Pubblicato sul numero di marzo del mensile

    PDF http://www.lavoroesalute.org

    Versione interattiva http://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-marzo…/

    Tags: autonomia differenziata banche cgil disoccupazione governo Draghi Lavoro e Salute Lavoro pubblico Legge Fornero licenziamenti Marco Prina MARIO DRAGHI Maurizio Landini movimento cinque stelle PD pensioni privatizzazioni recovery fund Recovery Plan
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    Autore: franco.cilenti
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