Lavoro diseguale

Racconti di lavoro, delusioni e rabbia nel libro di Chiara Davoli e Valeria Tarditi Lavoro diseguale, edito da Castelvecchi. Un’indagine su libertà e diritti, a partire dai vissuti delle donne di oggi

Nel 2009 Gosta Esping Andersen pubblicava un libro tradotto poi in italiano con il titolo La rivoluzione incompiuta sulla trasformazione del ruolo e dello status sociale delle donne. Con qualche analogia, benché diversamente focalizzata sul ruolo storico del femminismo, Giulia Rodano della Casa internazionale delle Donne di Roma intitola “La rivoluzione interrotta”, la postfazione al libro di Chiara Davoli e Valeria Tarditi Lavoro diseguale (Castelvecchi, 2023, pp. 153, prefazione di Maura Cossutta), che presenta i risultati dell’indagine commissionata dalla stessa Casa internazionale delle donne di Roma sui vissuti delle donne rispetto al lavoro.

La rivoluzione interrotta del femminismo può rappresentare un filo conduttore nella lettura del libro che ha al centro l’analisi delle interviste ad alcune donne di Roma sulle loro esperienze lavorative.

Le trentaquattro intervistate sono italiane (eccetto sette), di età diversa, con titoli di studio per lo più medio alti, single o conviventi, con figli e senza, lavoratrici per lo più con contratto full time a tempo indeterminato nei servizi o in professioni intellettuali, mentre quattordici sono lavoratrici autonome nel commercio o in professioni intellettuali. Si tratta quindi di una casistica volutamente eterogenea nell’intento di far emergere, oltre le diversità dei vissuti, un nucleo di aspetti comuni, nella consapevolezza della non rappresentatività del campione. Ne risulta una narrazione che conferma, dal punto di vista delle esperienze, molti aspetti già emersi in analisi socio economiche.

Noto il quadro statistico che il libro in breve richiama: la crescita dell’occupazione femminile in Italia dalla fine degli anni ‘70 con il tasso occupazionale più alto del 58,6% raggiunto nel 2008; la successiva discesa per via di crisi economica e pandemia e la modesta risalita fino al 51,9 del gennaio 2023, che rimane, comunque, il più basso dell’Unione europea e 17 punti percentuali al di sotto del tasso occupazionale degli uomini. Una madre su dieci risulta così inattiva nel mercato del lavoro a causa della cura dei figli; il part time riguarda un terzo delle lavoratrici, soprattutto giovani, ed è nel 61,2 % dei casi involontario; il gap retributivo di genere è del 4,2% mentre quello del reddito complessivo del 43% è la principale causa della maggiore povertà delle madri single e delle anziane.

L’Italia è infatti uno dei paesi Ue con il minor indice di uguaglianza di genere secondo il gender equality index dell’Istituto europeo per la parità di genere, l’Eige (che in Italia è al 65% rispetto alla media europea del 68,6).

Nonostante le diversità di professioni intraprese, tutte le intervistate dalle autrici del libro rivelano le disillusioni derivanti dalla mortificazione dei diritti basilari del lavoro, dalla discrepanza tra formazione professionale e qualità del lavoro. Molte delle esperienze raccontate sono accomunate dal susseguirsi di occupazioni intermittenti e precarie e da una retribuzione inferiore rispetto a competenze, responsabilità e dedizione, quando addirittura non si tratti di lavoro non pagato. Anche in presenza di stabilità lavorativa le retribuzioni non garantiscono autonomia economica ed espongono al rischio povertà, il che genera insoddisfazioni, frustrazioni, rabbia e inquietudine rispetto al futuro. 

Molte denunciano stereotipi e asimmetrie di potere derivanti da cultura androcentrica e gerarchie di genere che privilegiano le carriere maschili, svantaggiando le donne che devono faticare più duramente per ottenere riconoscimenti professionali economici e simbolici. In particolare, le madri denunciano una maternal wall rispetto alla carriera, a causa degli stereotipi che le rappresentano come meno competenti e produttive.

La maternità in Italia permane insomma come il più potente fattore di discriminazione sul lavoro – potentissimo per le lavoratrici autonome – coniugandosi con maggiore precarietà, demansionamento, penalizzazioni salariali, difficoltà a ottenere part time e permessi per gravidanza. Molte descrivono un’epoca del “non più lavoro” dove la precarietà invade tutta la vita e la stessa identità, ma le madri in aggiunta raccontano l’erosione dei confini tra lavoro retribuito, responsabilità familiari di cura, tempo libero e la povertà di tempo per se stesse.

Ne segue la denuncia di come le politiche di conciliazione siano state pensate unicamente come “conciliazione al femminile” e non anche di incentivazione della condivisione dei lavori di cura e domestici (vedi ad esempio la trasferibilità e la misera retribuzione dei congedi parentali).

I racconti raccolti nel volume testimoniano la fatica, la solitudine e talora l’impossibilità di conciliare il lavoro retribuito e quello gratuito per la famiglia e come sia poco cambiata la concezione che vede la donna prioritariamente responsabile dei “compiti naturali” di cura.

Alcune vedrebbero nella flessibilità dell’organizzazione del lavoro e anche nello smart working, se scelto dalla lavoratrice e ben regolamentato, potenzialità vantaggiose per la conciliazione e la liberazione e gestione autonoma dei tempi a misura dei bisogni della quotidianità. Viceversa la flessibilità è diventata spesso precarietà e lo smart working, come sperimentato durante la pandemia, ha evidenziato rischi e potenziali danni a causa della sovrapposizione tra lavori retribuiti e no, della continua reperibilità e del sovraccarico di sfruttamento. Molte ne temono l’isolamento e la maggior difficoltà di far valere i propri diritti. 

I racconti dell’esperienza della pandemia parlano non solo del sovraccarico di lavoro retribuito di cura e domestico, ma anche di quello per integrare la didattica a distanza per i figli, mentre chi era impiegata nei servizi di sanità e assistenza denuncia i pesanti carichi di lavoro e i rischi per la salute. Per non parlare di quanto affrontato nella pandemia dalle immigrate-badanti, prive di qualsiasi tutela e spesso rimaste senza lavoro. Tutte le immigrate intervistate sono state per qualche tempo impiegate in lavori di cura o domestici e denunciano la precarietà e il mancato riconoscimento della dignità di questi lavori insieme, a volte, ad atteggiamenti razzisti.

A fronte di tutte le difficoltà registrate dalle lavoratrici intervistate, appare non scontato, nella pur sfaccettata ambivalenza di posizioni, il forte attaccamento delle donne al lavoro nel mercato, non riducibile alla sola necessità economica, ma espressione anche di identità e valorizzazione personale, d’indipendenza e autonomia, di socialità e utilità sociale. Nessuna delle donne intervistate, neppure quelle impiegate nei lavori più precari e stressanti, pensa di potersi realizzare solo come moglie e madre e di rinunciare al lavoro retribuito, qualora ne avesse l’opportunità economica. Vogliono tutte lavorare, ma vorrebbero farlo in un modo diverso, con la libertà di scegliere il lavoro e godendo degli adeguati riconoscimenti economici e simbolici.   

Più eterogenee le opinioni rispetto al ruolo delle donne nelle istituzioni e nelle carriere politiche-decisionali. Molte lamentano l’insufficienza del pur necessario incremento di donne nella rappresentanza politica che si traduce spesso in scarsa ricettività verso le istanze femminili, se non addirittura in alcuni casi in posizioni antifemministe, discriminanti e antiabortiste, ed esprimono il bisogno di una “rappresentanza sostanziale” delle richieste delle donne.

Nella maggioranza dei casi, predominano la disillusione rispetto alle attività di partiti e sindacati e la sfiducia nella capacità della politica istituzionale di rappresentare e garantire uguaglianza ed emancipazione per le donne, ma anche un senso di scetticismo nell’efficacia politica delle mobilitazioni dal basso. Prevale inoltre il disimpegno politico e sociale: solo alcune sono attive in organizzazioni di volontariato sociale o in associazioni femministe cui riconoscono un ruolo fondamentale nella loro vita. Nella prevalente disillusione emerge però comunque il desiderio di cambiamento.

Gli ostacoli e le disuguaglianze nel lavoro denunciate nelle interviste sono in molta parte riconducibili alla contraddizione strutturale nel capitalismo tra produzione e riproduzione sociale dei lavoratori, tra il lavoro nel mercato e quello a casa e in famiglia, come analizzato nei testi del femminismo marxista di Nancy Fraser, Silvia Federici e Alisa Del Re che sono i principali riferimenti teorici delle autrici.

Le politiche neoliberiste, che hanno fatto strame del diritto del lavoro attraverso una precarizzazione selvaggia e ridotto la spesa pubblica per la riproduzione sociale nel welfare, nella sanità e nell’istruzione, hanno reso più profonde le disuguaglianze e ne hanno generate di nuove, anche tra le donne. Il libro critica le politiche dei governi italiani su cui pure hanno molto influito le scelte dell’Europa, che però non vengono prese in considerazione. Eppure l’esame della contemporaneità nelle politiche europee di incentivazione dell’occupazione femminile, di deregolamentazione del mercato del lavoro e riduzione della spesa sociale avrebbe permesso di mettere in luce ulteriori criticità. 

Sarebbe stato pure interessante indagare le opinioni delle intervistate rispetto a proposte politiche oggi in discussione, quali, ad esempio, la riduzione dell’orario di lavoro o l’estensione del congedo di paternità obbligatorio di durata comparabile e addizionabile a quello di maternità. Consapevoli di questa carenza di proposte di cambiamento, le autrici, nelle riflessioni conclusive, ne rimandano l’individuazione alla futura continuazione del lavoro.

Marigrazia Rossilli

29/5/2023 https://www.ingenere.it

Chiara Davoli, Valeria Tarditi, Lavoro diseguale. Castelvecchi, 2023

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