Le Autonome. Storie di donne del Sud

Immagine di Vittorio Giannitelli

Quando ci siamo conosciute io e Carla, eravamo sicuramente in una fase storica completamente diversa rispetto a oggi; ci siamo incontrate più di dieci anni fa e la nostra generazione in quegli anni attraversava le piazze di tutto il paese per rivendicare il diritto all’istruzione pubblica, laica e includente. Negli anni, ci ha avvicinate particolarmente l’esigenza di creare uno spazio trans-femminista trasversale, che fosse in grado di rompere il silenzio che da troppo tempo occupava i nostri ambiti d’intervento. Successivamente, insieme a tante e tanti, ci siamo impegnate nella lotta contro la violenza di genere con Non Una di Meno. Il fulcro principale dell’azione e il ragionamento di rottura dello stato di cose presente, era ed è senz’altro la convinzione che non può esistere femminismo senza una prospettiva meridionale.

Quando ho letto il capitolo scritto da Carla nel secondo volume della trilogia meridionale de Gli Autonomi, mi sono venute in mente tantissime suggestioni: prima fra tutte, la constatazione felice e amara al tempo stesso, che almeno qualche piccolo spazio all’interno di questi volumi fosse stato dedicato al protagonismo di quelle donne, alla loro radicalità. Ho avuto la sensazione che troppo poco spesso viene riconosciuto il ruolo di chi, a pari merito degli uomini, ha messo la propria vita a disposizione della lotta. La narrazione a cui siamo abituati mostra una contraddizione alla quale ancora oggi siamo soggette: non riconoscerla significherebbe, semplicemente, esserne complice, farne parte e, probabilmente, non interrogarsi su come romperla. L’intenzione di queste riflessioni non vuole essere un manifesto di responsabilità o una riproduzione di categorie vacanti utili solo ad aumentare la confusione e la complessità della turbolenta e spaventosa “questione di genere”.

Questione, mi chiedo continuamente mentre scrivo e penso. Chissà perché ancora la chiamiamo così. Eppure, le nostre antenate hanno dato la vita per permetterci oggi di essere presenti negli ambiti della società; eppure, oggi siamo privilegiate rispetto a tante, tantissime, troppe, altre soggettività oppresse, che siano altre donne o persone che non si riconoscono in questo binarismo di genere.

Donne abitate e case abitate. La lotta per la casa come questione di genere

Parlando di questioni e tornando al titolo che ho dato al mio contributo – dentro e fuori dal femminismo –  mi sembra più interessante e congeniale riflettere sulla complessità di questa parola all’interno dei circuiti dei movimenti sociali napoletani. Il testo di Carla accenna alla storica e lunghissima esperienza napoletana delle occupazioni abitative, una storia che ha sempre avuto un protagonismo femminile marcato e che continua ad averlo al giorno d’oggi. In questi pochi anni di attivismo, ho avuto la fortuna di attraversare il movimento per il diritto all’abitare “Magnammece o pesone”, nato nel 2013 per contrastare l’emergenza abitativa a Napoli. È importante chiarire che queste sono riflessioni che non pretendono di parlare a nome movimento, ma raccontano la mia percezione e quella delle mie compagne di lotta. Cito questa esperienza perché trovo che sia emblematica, con l’obiettivo di esprimere al meglio cosa intendo quando parlo del “fuori”, in questo caso simbolico, dal femminismo.

La lotta per la casa di per sé incarna la difesa di uno spazio vitale necessario alla sopravvivenza di tuttx coloro che ne sentono l’esigenza, rappresenta la riappropriazione, la presa fisica e diretta di una parte di welfare sottratto dall’incompetenza amministrativa comunale. Materialmente, quotidianamente, la gestione pratica – tutt’altro che ideologica – e la difesa della casa ha avuto come protagoniste principali le donne delle occupazioni. Inconsapevolmente, spesso senza riferimenti teorici, chi ha animato con protagonismo la difesa dei palazzi sono state donne le cui storie meriterebbero un capitolo a parte nelle nostre riflessioni. 

Perché proprio la casa? Che connessione esiste tra il lavoro di cura come strumento femminista e la cura che ci viene imposta in quanto appartenenti al genere femminile? La linea è sottile, ma è proprio questa che fa la differenza. 

Nella lotta per la casa, le donne hanno avuto il protagonismo che le ha – che ci ha – rese consapevoli della propria capacità di agire, attraversare, decidere e conquistare. E se diciamo allora che l’autodeterminazione è soggettiva e che bisogna riappropriarsi della parola “cura” in tutta la sua potenza, è evidente che, lottando per la casa, non si è mai propriamente “fuori” dal femminismo.

Non a caso, credo, il romanzo di Gioconda Belli La donna abitata ha accompagnato con le sue parole la mia storia di occupante e ha segnato il valore emotivo ed emozionale che ha avuto per me occupare una casa: vivere dentro di me ed essere abitata dalle storie di altre donne mi ha restituito l’importanza di essere fuori e dentro dal femminismo. Ciò che lega la lotta contro la violenza di genere alla lotta per la casa è da un punto di vista “intersezionale” strettamente connesso alla geografia dei corpi: dove questi corpi si trovano, in che parte del mondo vivono. 

Se è vero che bisogna avere una casa per andare in giro per il mondo, difenderla è sicuramente un modo per iniziare il viaggio.

Raccontare altre storie, insieme. Il contrario della solitudine

«Il termine femminismo viene bistrattato mentre cresce l’elogio al femminile. È come se definendosi femminista una donna o una qualunque persona stesse andando contro lo stato naturale delle cose, come quello che è trattato dal discorso come verità, questa verità è violenza di morte simbolica e fisica contro le donne» (Marcia Tiburi, 2020).

Nel libro Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune (Effequ, 2020) l’autrice brasiliana Marcia Tiburi, attraverso l’utilizzo di un linguaggio semplice e includente, spiega come il femminismo sia uno strumento di rottura contro l’isolamento che capitalismo e patriarcato, uniti strutturalmente, utilizzano per mettere da parte le donne con e senza gli strumenti della violenza fisica e psicologica.

Se il femminismo è, come ci insegnano le donne brasiliane in lotta ma anche le Autonome della Napoli degli anni ’70 e le donne che, in tutti i Sud del mondo, lottano e occupano case per affermare il loro diritto ad esistere, il “contrario della solitudine”, è semplice comprendere perché questo strumento venga messo alla gogna dall’informazione mainstream che ci vuole sole, inconsapevoli e senza strumenti per comprendere il mondo.

Per questo e altri motivi, è sempre più importante mettere al centro l’utilizzo non simbolico del femminismo, strumento di cura e di rottura della misoginia. La lotta femminista ci anima, ci ispira e ci istiga: è l’azione del desiderio che ci politicizza. A partire da quest’analisi, essere fuori dal femminismo non è altro che essere fuori dalla bellezza della lotta, dal suo aspetto desiderante e dirompente che parte dal corpo e attraverso il corpo raggiunge i suoi obiettivi.

Essere dentro è un modo per essere insieme, rompere la brutalità della solitudine. Leggere e riflettere sul capitolo che Carla ha scritto, è stato per me come un incontro di storie ed esperienze che appartengono alla nostra generazione, lontana e vicina da quella che lei stessa racconta, pur non essendoci mai stata. È passata di acqua sotto i ponti da quella Napoli degli anni ’70, attraversata dalla lotta armata e sul punto di vivere esperienze devastanti come quella del terremoto e del colera. Ma la sostanza delle lotte che hanno visto il protagonismo di queste donne meridionali è sempre la stessa: abbattere il patriarcato, agendo nel presente col pensiero alla storia delle donne che ci hanno dato la possibilità di essere un passo avanti verso la conquista della giustizia di genere.

Si dice che la storia venga narrata dagli uomini, come da loro vengono scritte le leggi, anche quelle che riguardano la vita e le scelte di donne e soggettività non binarie. Allora oggi, leggere di ieri attraverso le parole di una donna che appartiene a un contesto storico “nuovo”, è uno slancio di autocoscienza che afferma la necessità di continuare in questa direzione. Se la lotta operaia delle donne negli anni ’70 ci ha insegnato la necessità di essere determinate e determinanti, a costo di rompere relazioni, equilibri di potere e rapporti personali, non possiamo certamente girarci dall’altra parte.  Se a partire dalla storia si costruisce il presente – perché il futuro non abbiamo ancora capito quando comincia – abbiamo il dovere di parteggiare, prendere parte, trasformare quotidianamente la condizione di subalternità delle soggettività oppresse, di noi stessə.

Se allora “il contrario della solitudine” è quello che ci rappresenta, è nella lotta che ci incontreremo.

Jessica Sciarnè

11/11/2022 https://www.dinamopress.it

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