LE “BUFALE” INTERCONTINENTALI

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Nei primi giorni di dicembre, al rientro in Italia, dopo alcune settimane trascorse in California – con precipitosa fuga dalla “Mecca del cinema” e lungo soggiorno, molto più a nord, per godere la vista di una delle baie più famose al mondo e la coinvolgente visita all’ex prigione federale di Alcatraz – rilevai che ancora non si era spenta l’eco delle demenziali dichiarazioni di Donald Trump rispetto all’uso dei rastrelli impiegati    dai finlandesi per pulire il sottobosco e prevenire, quindi, i roghi.

Confesso che ero stato subito tentato di commentare – con una buona dose di malizia, evidentemente – l’ultima gaffe (in ordine di tempo) dell’ineffabile “Uomo che ride[1]” al governo degli Usa.

Realizzai presto, però, la sostanziale inutilità dell’iniziativa perché anticipato dagli stessi finlandesi che – tra l’altro, per assidua frequentazione e conoscenza diretta, non consideravo in grado di esprimere una sufficiente dose di umorismo – avevano, invece, già (ampiamente) provveduto a “sotterrare” l’allegro Presidente sotto un cumulo di risate e di scherno!

Le possibilità, però, non tardano a ripresentarsi.

In occasione di uno dei tanti incontri conviviali che nascono dalle opportunità, offerte solo dalle vacanze natalizie, di incontrare e trascorrere qualche allegra serata in compagnia di conoscenti e amici che, abitualmente, riesce difficile frequentare – se non impossibile, considerati i diversi paese di residenza – ho condiviso la compagnia di un ex collega di studi superiori; attualmente impiegato presso la sede newyorkese di una Compagnia di assicurazioni italiana.

All’irrequieto ventenne, che negli anni ’70 fremeva di sdegno per l’invasione del Vietnam, corrisponde oggi, un settantenne – con qualche eccesso di botulino e un sigaro, perennemente spento, all’angolo della bocca – che pare rappresentare l’essenza di quello che, con rara sagacia, nella sua “Storia del popolo americano”, Howard Zinn descrive quale processo di “identificazione psicologica”, grazie al quale, in tanta parte della popolazione degli States, è stato creato un fittizio sentire di “appartenenza gratificante”.

Ben presto, quasi in ossequio a una qualche regola non scritta, la nostra conversazione – iniziata confrontando i nostri divergenti punti di vista su quello che era stato il tentativo di Barack Obama di riformare qualche aspetto sostanzialmente marginale del Sistema sanitario degli Usa – finì per approdare alle gloriose gesta del suo attuale idolo: Donald Trump.

Accadde così, che fui coinvolto nell’entusiasta rappresentazione di quella che veniva considerata l’opera di un benefattore dell’umanità a me totalmente sconosciuto!

Il punto rispetto al quale il mio focoso e appassionato interlocutore riteneva legittimo esprimere il massimo della soddisfazione e, contemporaneamente, di delusione, per quello che appariva essere il mancato gradimento dei diretti interessati – la stragrande maggioranza dei lavoratori statunitensi – era rappresentato da quello che, personalmente, riteneva il più grande successo di Trump: i 200 mila posti di lavoro in più e i salari, in aumento di quasi tre punti, realizzati a fine agosto 2018.

A supporto delle sue affermazioni, l’articolo attraverso il quale, il primo agosto del 2018, il Wall Street Journal aveva comunicato: “I lavoratori degli Stati Uniti ottengono il più grande aumento di stipendio in quasi dieci anni!

I salari in agosto negli Stati Uniti sono saliti dello 0,4 rispetto a luglio e del 2,9 per cento su base annua, mostrando iniziali segni di accelerazione”; erano questi, a onore del vero, i “titoloni” che, attraverso un breve excursus, si scopriva avevano occupato le prime pagine dei maggiori quotidiani statunitensi sul finire della stagione estiva.

Però, in effetti, il dato reale, così come si evinceva già da un brillante articolo di Jack Rasmus[2], presentava una situazione di tutt’altro tipo.

In estrema sintesi, rinviando gl’interessati alla lettura integrale dell’articolo all’ottima traduzione curata da Francesco Delledonne, si può tranquillamente sostenere che, in sostanza, lo strombazzato aumento di circa il 3 per cento dei salari statunitensi, era una colossale bufala!

Il tutto, per una serie di motivi che tenterò di rendere comprensibili; anche a coloro i quali piacciono tanto i muri, le barriere doganali, le elucubrazioni e, non meno frequentemente, le colossali sciocchezze che Trump regala, periodicamente, ai suoi inossidabili sostenitori.

Un dato di partenza, direi fondamentale, è relativo all’individuazione della quota/salari rispetto al totale del reddito nazionale Usa.

Rasmus riporta che, per quasi 20 anni, essa ha continuato a diminuire. Infatti, se nel 2000 rappresentava circa il 64 per cento del reddito nazionale totale, nel 2018 è crollata a circa il 56 per cento dell’attuale reddito nazionale (pari a circa 16 trilioni di $).

Quindi, considerato che il calo dell’8 per cento è pari a 1,5 trilioni di $, se la quota dei salari fosse rimasta invariata (al 64 %), i lavoratori, nel solo 2018, avrebbero ricevuto maggiori salari per ulteriori 1,5 trilioni di $. Il tutto, secondo quanto calcolato da Rasmus, ha rappresentato una perdita di almeno 8.000 $ all’anno per ciascun lavoratore.

La stessa stima di 1,5 trilioni di $ (e, di conseguenza, il mancato guadagno pro/capite dei lavoratori) è, però, sottovalutata.

Infatti, così come – con grande semplificazione dei concetti – illustrato dall’economista, la “quota salari”, come definita dal governo, comprende anche gli stipendi dei dirigenti e degli amministratori delegati, i bonus di fine anno dei banchieri, i pagamenti forfettari ai dirigenti e altre forme di reddito non salariale.

Quindi, poiché gli stipendi e le retribuzioni di dirigenti, amministratori e banchieri sono effettivamente aumentati, in termini reali i veri redditi dei lavoratori salariati sono, addirittura, scesi al di sotto dei suddetti 1,5 trilioni di $!

In definitiva, sottraendo la quota dei dirigenti, amministratori e banchieri dalla quota del reddito nazionale spettante al lavoro, molto probabilmente, a fine 2018, la perdita annua per ogni lavoratore statunitense si attesterà oltre i 10 mila $.

A questo quadro, va aggiunto, purtroppo, un altro elemento; negativo almeno quanto i precedenti.

Dopo aver escluso gli aumenti (certi) conseguiti dai dirigenti ed amministratori (con riflessi negativi sul rimanente monte/salari), resta da considerare che i guadagni salariali che si sono, comunque, realizzati, sono quelli corrispondenti al 10/15 per cento più ricco delle restanti famiglie della classe lavoratrice – cioè professionisti nei settori tecnologicamente avanzati, dell’assistenza sanitaria, della finanza, con diplomi universitari e altro.

Per concludere, alla sostanziale bugia di Trump, secondo il quale, i lavoratori statunitensi hanno conseguito il più grande aumento di stipendio degli ultimi dieci anni, si contrappone una realtà nella quale l’85/90 per cento dei lavoratori salariati (circa 120 milioni) ha, in effetti, nel corso del 2018, subito una perdita netta superiore ai 10 mila $!

Tra l’altro, né fonti governative, né i media padronali, si preoccupano di evidenziare che l’osannato aumento dei salari vale esclusivamente nei confronti dei lavoratori a tempo pieno e indeterminato. Sono esclusi, quindi, i circa 50 milioni di lavoratori impiegati in quello che viene ufficialmente definito lavoro “contingente”, ma è, molto più semplicemente, solo lavoro “precario”!

In sintesi, il dato politico rilevante è rappresentato, a parere di Jack Rasmus, dall’avvento, dal 1980, della ristrutturazione capitalista neoliberista degli Stati Uniti e dell’economia globale, nella quale un elemento chiave è stato quello di comprimere i salari – per tutti, tranne quel 10 per cento che il capitale Usa considera essenziale per la sua ulteriore espansione e, ovviamente, per gli stipendi degli amministratori e dirigenti.

Da semplice “osservatore” italiano, se penso alla nostra attuale situazione e a quanto il futuro sembra riservarci, comincio a credere di avere seri motivi di preoccupazione!

[1] Romanzo di Victor Hugo, pubblicato nel 1869.

[2] Economista statunitense, autore dell’articolo “Labor Day 2018 & The Myth of Rising Wages” (jackrasmus.com)

Renato Fioretti

Esperto Diritti del Lavoro

Collaboratore redazionale del periodico Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

1/1/2019

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