Le guerre e le crisi sono sempre utili al Capitale. La democrazia neoliberista, sia in guerra che in economia, si basa su pochi e solidi principi: favorire la strategia più utile al capitale.

Di fronte a crisi internazionali, a guerre o vicende che ne rappresentano la declinazione asimmetrica dell’epoca, è difficile trovare le parole giuste in una tempesta comunicativa nel deserto delle conoscenze. Perché emerge di colpo il problema di questa democrazia neoliberista che in guerra, come in economia si basa su pochi e solidi principi: favorire la strategia più utile al capitale, massimizzando profitti sia dal punto di vista dell’accumulo di risorse che sul piano della destabilizzazione generale delle coscienze.

Partendo da questo non è difficile interpretare con precisione le stravaganti e altalenanti scelte dei Governi nelle varie zone di crisi. Dove intervenire e dove no, dove armare i ribelli e dove schiacciarli, dove reprimere e dove far finta di niente, dove bombardare e dove invece fornire bombe. Non si tratta di dietrologia, è drammaticamente tutto sotto gli occhi di tutti.

Perché senza la premessa del cinico interesse neoliberista, che considera la democrazia una declinazione del potere dei pochi, è impossibile per chiunque abbia un minimo di sale in zucca (e di conoscenze storiche) comprendere che cosa accade in Iraq piuttosto che a Gaza o in Ucraina o in Africa (a proposito a qualcuno interessa qualcosa?). È impossibile stabilire quei principi che aiutano l’individuo a capire, a giudicare, a stabilire dove sta il bene e dove il male. A formarsi – come un tempo accadeva – una visione su basi interpretative figlie anche della coscienza etica. Qualcosa che non si accende con un clic sulla base delle informazioni che ci piovono addosso dai media.

Già, i media. Ovvio, nell’era della comunicazione globale, del tutto in tempo reale, nella spettacolarizzazione di ogni sentimento, la parte dell’informazione è fondamentale. Perché in economia come in guerra, occorre che l’emergenza tolga il terreno sotto i piedi del cittadino che pensa: che il giudizio si formi sulla base di sensazioni che si vanno a ficcare come chiodi nella mentalità del tempo. Che tutto sia prepotente e senza respiro, tutto necessario. Dalle bombe, alle stragi, alle invasioni, alle guerre, ai tagli della spesa sociale, al rispetto dei voleri delle banche o dell’Europa o del Fondo monetario internazionale.

Così, sapientemente, chi ha creato la rovinosa crisi economica che attraversiamo, da anni ci spiega quale medicina usare, e di fronte al peggioramento evidente, ci spiega ancora che va aumentata la dose. Così come chi ha destabilizzato per propri interessi imperialistici un’intera area geografica, spalancando il vaso di Pandora con la sega mentale della democrazia esportata a suon di guerre e massacri di inermi, oggi ci spiega che la medicina giusta è continuare a farlo. Imbellettando ogni volta l’accanimento imperialista, dando nomi convincenti alla guerra. Umanitaria, chirurgica, giusta. Ma sempre guerra, in un mondo che non può viaggiare verso la pace, ma che deve vivere sul principio della guerra permanente.

Tanti anni fa, a un dibattito sulla crisi irachena e Saddam dissi che un intervento militare in quell’area avrebbe aperto le porte di una guerra senza fine, combattuta con una violenza crescente e senza più regole (con mio fratello Gianni abbiamo anche scritto insieme un libro sul tema: La nuova guerra mondiale). Mi rispose piccato il segretario di non so quale federazione di non so come si chiamasse allora quello che ora è il Pd: mi lascia perplesso il fatto che sia un esperto e un giornalista – mi disse – ma lei ha torto su tutto, esistono guerre giuste che vanno combattute, punto e basta. Non capirlo vuol dire essere fuori dal tempo”.

Ho ancora nella memoria quella baggianata, espressa con convinzione progressista, sulle guerre giusto. Io mi limitai a sorridere, dicendo che ero contrario alla guerra imperialista sempre e comunque. Ma su un punto quel politico pallido aveva ragione: ero fuori dal tempo. E lo sono ancora. Perché non esiste altra strada che porsi fuori dallo schema e dal gregge intellettuale (il gregge peggiore) per un balzo della tigre nel tempo. Che contenga altri percorsi, altri saperi, un’idea di rivoluzione che implichi la capacità e possibilità di proporre un’idea, un’utopia, un progetto nuovo di rapporti sociali nelle comunità.

Antonio Cipriani

22/8/2014 www.globalist.it

 

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