Le ombre del volontariato nelle torbide acque del Terzo settore

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Il rapporto che lega il Terzo settore e il volontariato dev’essere esaminato alla luce delle contraddizioni che sono emerse con la crisi dello Stato sociale. A dire il vero, la pratica del volontariato affonda le sue radici nella cultura cattolica, infatti già nel XV secolo si esprime con la “pubblica pietà” nei confronti dei bisognosi, da parte di quelle persone che si prendono volontariamente cura degli orfani, dei trovatelli, di coloro che non sono autosufficienti o affetti da gravi malattie.

Com’è noto, le attività filantropiche non sono state solo una prerogativa degli affiliati alla Chiesa cattolica, ma coloro che hanno dedicato tempo e denaro per le opere di beneficienza trovarono spazio anche in altre dottrine, diramate dalla matrice cattolica.

L’approccio caritativo è la spinta propulsiva che mette in circolo la ripartizione delle briciole, l’anello debole di una catena che annoda lo sventurato e il rimpinguato, la foglia di fico che copre l’impotenza delle relazioni di aiuto che si basano sull’elemosina. Esso è il retaggio di una cultura economica che si fonda sulla scarsità delle risorse e che ha prevalso fino a quando ha regnato la miseria per la stragrande maggioranza della popolazione e il privilegio per i pochi eletti.

Il modo di produzione capitalistico predicava la religione del risparmio, per liberare gli uomini dal “bisogno economico”, il fine di tale credo – come rileva Keynes – era quello di far crescere la torta (il capitale), e mettere in atto tutte quelle strategie mistificatorie, affinché i lavoratori si astenessero dal consumare.

L’avvento dello Stato sociale prende forma, tra l’altro, dalla necessità di godere della ricchezza prodotta e accumulata dal sistema capitalistico: negli anni trenta del secolo scorso, venne affinata la percezione che la povertà che dilagava era collegata all’abbondanza. Il “siamo poveri perché siamo ricchi” – Keynes – sottolineava la natura paradossale del problema che si doveva affrontare.

Subito dopo la grande mattanza del secondo conflitto mondiale, emerse la consapevolezza che era necessario affrontare quelli che Beveridge chiamava i cinque giganti: la disoccupazione, l’ignoranza, la malattia, lo squallore e la disperazione.

Egli non si preoccupava solo del ceto medio, sebbene la sua estrazione sociale o la sua appartenenza politica fosse conservatrice; il suo progetto aveva una visione complessiva della società del suo tempo e di quella a divenire, era consapevole che ci fossero le condizioni per uscire dal pantano, ma si doveva cambiare punto di vista. L’impianto teorico del nuovo corso si basava sulla messa a punto di una previdenza sociale che intervenisse in tutti i momenti critici della vita di ogni individuo (incidenti sul lavoro, vecchiaia, malattia, ecc.); sulla creazione di un sistema sanitario universale, cioè accessibile a tutti; riduzione generalizzata della disoccupazione mediante la politica del pieno impiego.(1)

Dunque, nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, è stato compiuto un salto logico rispetto ai tradizionali modi di agire, a riguardo delle condizioni miserevoli della vita, quindi non più leggi sulla povertà come espressioni di atteggiamenti che si fondavano sull’elemosina, ma una politica di largo respiro che fosse in grado di rendere effettiva la capacità produttiva potenziale, facendo leva, in prima istanza, sull’eliminazione dello spreco peggiore che potesse esistere: la disoccupazione.

Il circolo virtuoso si è interrotto allorquando la Pubblica Amministrazione non è stata più in grado di creare altri posti di lavoro aggiuntivi per assorbire coloro che venivano espulsi dal mercato del lavoro. Le politiche di deficit spending furono messe sotto accusa, mentre l’insieme dei traguardi raggiunti, che non ebbero precedenti nel corso della storia umana, tranne che per una minoranza elitaria, vennero di colpo misconosciuti.

La crisi dello Stato sociale ha posto in primo piano la debolezza strutturale delle forze che hanno contribuito a realizzarlo; il declino di questa forma di organizzazione della società è stato indagato unilateralmente, cioè si è privilegiato solo l’aspetto che riguardava quello che non si era più in grado di fare (la creazione di lavoro aggiuntivo), mentre veniva completamente trascurato il fatto che se non ci fosse stato l’intervento pubblico, non ci sarebbe stato un incremento del reddito e del tenore di vita della popolazione.

Molti fautori dello Stato sociale si sono affrettati a liquidare i progressi raggiunti, giudicandoli privi di fondamenta e al di sopra delle nostre possibilità. La gran parte delle forze che hanno rivendicato il diritto ad un lavoro dignitoso, per esempio, non sono state capaci di elaborare che era stata creata la base materiale sulla quale si reggevano quelle richieste.

Il Terzo settore aprì la sua breccia nei primi anni settanta del secolo scorso, quando iniziarono i primi segnali di crisi del Welfare state. In quel periodo entrarono in scena gruppi di volontari cattolici e laici, soprattutto nell’ambito socio-sanitario, con l’intento di provare a soddisfare i crescenti bisogni sociali che il sistema statale non riusciva più a garantire, per una serie di implicazioni che ho delineato in altri percorsi di ricerca.

Le forme spontanee di volontariato, ben presto, furono trasformate in strutture organizzate, dando vita a enti privati (associazioni, imprese sociali, fondazioni, cooperative sociali, eccetera).

Tali enti hanno finito per posizionarsi tra il Primo settore, ossia l’insieme delle attività economiche svolte dallo Stato e dagli altri enti pubblici, senza scopo di lucro, e Il Secondo settore, vale a dire le imprese private che nella produzione di beni e sevizi da vendere sul mercato, perseguono l’obiettivo fondamentale di conseguire il profitto.

Negli ultimi venti anni, il Terzo settore, con un giro di affari che in base a stime recenti si attesta intorno al 5% del Pil nazionale, è divenuto l’asse portante del cosiddetto Welfare mix, potendo contare su un esercito di volontari e dando lavoro a circa 850.000 addetti.

Ma in cosa consiste la relazione di volontariato e come si distingue dagli altri rapporti interpersonali che si vengono a creare nei piccoli gruppi di prossimità o nelle organizzazioni complesse?

Il volontario, che aderisce alla realizzazione di uno scopo che si prefigge di raggiungere un ente del Terzo settore, effettua una prestazione gratuita, mettendo a disposizione dell’organizzazione, con la quale collabora in modo continuativo, il proprio tempo e le proprie capacità.

Se l’assenza di un compenso è uno dei criteri per identificare il ruolo del volontario all’interno di un ente senza scopo di lucro, nondimeno è importante sottolineare l’incompatibilità di tale attività con ogni forma di rapporto di lavorativo tra l’associato e l’organizzazione, che ha, però, l’obbligo di registrare il volontario e pagare il premio dell’assicurazione per eventuali infortuni, malattie e responsabilità civile verso terzi..

La rinuncia a un compenso da parte de gli individui che sono coinvolti nella pratica del volontariato significa che essi, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno un reddito (diretto, indiretto) o erogano prestazioni lavorative dipendenti o autonome, per cui non sono pressati dalla contingenza materiale di trovare le risorse necessarie per vivere e dispongono di tempo libero da dedicare agli altri.

Anche gli iscritti attivi ai sindacati e i militanti di partito agiscono su base volontaria, alcuni di loro espletano tale funzione come se fosse un mestiere, un rapporto di lavoro particolare, ma la grande maggioranza aderisce a queste organizzazioni complesse, non solo per partecipare alla vita sociale, ma anche per provare a cambiare il contesto. Mettiamo da parte il fatto che, ai nostri giorni, quasi il 98% dei partiti sono diventati delle imprese e i loro dirigenti adottano strategie molto aggressive, per arricchirsi nel più breve tempo possibile. Nella percentuale residuale, il militante investe il proprio tempo e le proprie capacità, al fine di trasformare l’ordine esistente, tenendo presente, nella miglior prospettiva idealistica, che il miglioramento delle condizioni di vita del singolo individuo è connesso con quello della sua classe di appartenenza, quindi l’interesse particolare è subordinato a quello generale. Il sindacalista che solidarizza con un lavoratore o una lavoratrice e li aiuta a risolvere un conflitto, esortando il datore di lavoro a rispettare la legge, esplica il suo ruolo – in virtù dello Statuto e dei regolamenti interni dell’organizzazione a cui appartiene – per tutelare i diritti di tutti i dipendenti.

Ecco! Queste forme di relazioni interpersonali scaturiscono dal lavoro gratuito di migliaia di soggetti che interagiscono tra di loro, eppure, non si percepiscono come dei volontari.

Dinamiche simili trovano spazio anche in gruppi ristretti, come quello familiare o la rete amicale, non per questo l’attività lavorativa che viene messa in moto rientra nel volontariato. Il prendersi cura dei propri figli, che richiede tempo, energia, pazienza, empatia, forza e così via, non è considerata un’attività di volontariato, anche se non si puè prescindere dalla “volontà” del soggetto agente.

Il discernimento di cui sopra è un passaggio essenziale, prima di porre un altro punto interrogativo.

Quando parliamo di Terzo settore a cosa corrisponde l’espressione “privato sociale” con cui viene identificato?

Tale denominazione, a mio avviso, ha avanzato la pretesa di poter erogare quei servizi necessari a soddisfare una serie di bisogni emergenti che la PA non riusciva più a garantire. Il modo di produzione che si è affermato con lo Stato sociale ha liberato gli individui dalla povertà materiale, dalla paura della fame, ma ha modificato le condizioni di esistenza precedenti, disgregando la famiglia patriarcale, i rapporti di vicinato, le gerarchie di valori all’interno dei modelli culturali che predicavano l’astinenza dal consumo, eccetera. Tutto ciò non è stato indolore, il processo di cambiamento ha fatto sorgere nuovi disagi, legati, per lo più, a motivazioni di ordine relazionale, quindi la solitudine degli anziani che non potevano più appoggiarsi sull’aiuto dei figli, non poteva essere colmata solo con l’assegno pensionistico, che ha rappresentato, in ogni caso, una conquista inestimabile. Il bisogno interiore di non vivere isolati a livello affettivo, non trova una gratificazione solo esteriore sul piano sociale, così come impervia il disagio emotivo degli anziani, quando vengono a trovarsi in quelle strutture residenziali confortevoli, che recidono le radici degli “ospiti”, con gli odori estranianti che si respirano nelle strutture che li accolgono e li curano,

Il privato che avanza nel sociale come il morto che cammina, il privato che dipana la sua trama nelle forme dell’utilità sociale, considerando i bisogni relazionali collettivi, che il Terzo settore mira a soddisfare, al di sopra dei bisogni espressi nel pubblico e nel mercato.
Dunque, gestione privata e autonoma di enti che hanno come scopo la solidarietà, sulla base di un vincolo di reciprocità, per erogare servizi che soddisfino bisogni relazionali.

Il punto è che anche nei rapporti di produzione di beni e servizi per il mercato, da parte delle aziende orientate al profitto, c’è il cosiddetto marketing relazionale, la pubblicità, la fidelizzazione dei clienti, ossia tutte quelle tecniche che migliorano la commercializzazione dei prodotti, facendo leva proprio sull’aspetto relazionale. Pertanto, sembra che il Terzo settore, soprattutto in ambito socio-sanitario, sia diventato l’erogatore di tutti quei servizi che lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali gli affidano mediante le gare di appalto, quindi utilizzando, in gran parte, risorse pubbliche e potendo contare sul pilastro del volontariato.

Il tempo libero dei volontari divenne il valore sociale, per contribuire a partecipare attivamente alla produzione di quei servizi che la PA non erogava più direttamente o che comunque fu gradualmente costretta a limitarne l’erogazione, in quanto posta sott’accusa di sperperare il denaro pubblico. Quanto invece è possibile constatare che l’aumento del debito pubblico, nel decennio che segue il divorzio tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia, che passa dal 57,7% del pil, al 124,3%, non è dovuto agli aumenti della spesa, che di fatto è rimasta pressoché costante, subendo un incremento, al netto degli interessi, pari al 42,1% del pil nel 1984 al 42,9 % del 1994, cioè dello 0,7 %. << Gli 80 punti in più accumulati in soli dieci anni (fino al 124,3% del pil), erano tutti dovuti alla maggiore spesa per interessi, che cresceva a un ritmo tra l’8 e l’11% l’anno>>. (2)

Tuttavia accanto ai volontari che disponevano di tempo, energia, salute, lavoro o reddito, crescevano i precari e i disoccupati, cioè coloro che avevano difficoltà a campare e che, in qualche modo, rappresentavano uno spreco e un vincolo dal quale non ci si poteva sottrarre. L’altra faccia del volontariato è la disoccupazione involontaria: da un lato persone super impegnate, anche se pensionate, dall’altro, persone che si sentono inutili e, molto spesso, non riescono a dare un senso alle loro azioni.

In questo clima, nel 1991, fu varata la legge 266 che riconosceva l’associazionismo e considerava il volontariato una “necessità” della società.

Fin qui nulla da obiettare, non si può essere contro a chi elargisce gratuitamente il proprio tempo e si mette a disposizione di chi si trova in difficoltà, ci troviamo, pur sempre, di fronte a un gesto empatico o d’identificazione con la sofferenza e il disagio dell’altro.

Quindi, il lettore curioso potrebbe chiedere: dove si annida il problema di questa forma d’interazione sociale?

Come al solito, le insidie, le sottigliezze e le complicazioni, che caratterizzano le relazioni sociali, non si palesano da sole, pertanto nel trovarmi ingarbugliato in questo percorso accidentato del volontariato, mi sembra opportuno rilevarne le contraddizioni, che si manifestano nel suo dispiegarsi.
Le complicazioni sorgono o si disseminano là dove i confini tra forme di agire contrapposte diventano labili, quindi il fluire del movimento contraddittorio che contempla i legami sociali in cui siamo immersi, inizia a girare a vuoto, si avvita su se stesso.

Succede, allora, che un circolo Arci, che si viene a trovare in una crisi finanziaria, per far fronte alle spese correnti di gestione, decida di ampliare le attività commerciali, non ritenendole più saltuarie o accessorie, di conseguenza intensifica le operazioni di vendita di servizi, invischiando il rapporto di volontariato nel vortice delle relazioni mercantili, con la differenza che coloro che si sentono soggetti attivi volontari, di un progetto culturale, iniziano ad essere coinvolti in pianta stabile, ma le retribuzioni non sono commisurate al lavoro che esplicano. Del resto, i prezzi dei servizi che vengono offerti sono calibrati su un determinato target di “utenti-clienti” , quindi tendono a rimanere calmierati e non rispettano il principio di economicità delle aziende che hanno come scopo il profitto.

Nei casi più estremi e confusi, ci troviamo in un contesto là dove viene offerto un servizio a pagamento, utilizzando il lavoro dei “volontari”, contrariamente alle pratiche e ai principi che regolano lo Stato sociale, in cui assistiamo all’erogazione di un servizio gratuito – ovviamente, non entro nelle vicende della privatizzazione del settore pubblico – mentre i lavoratori e lavoratrici godono di una retribuzione dignitosa, sancita dalla Costituzione.

Il ricorso al volontariato assume i contorni torbidi anche in un servizio territoriale di emergenza come il 118, una fetta consistente degli operatori che si attivano, quando chiamiamo un’ambulanza è costituita da volontari: in Lombardia questi ultimi sono circa 40.000, mentre il personale dedicato si attesta intorno a 1.500.(3)

Nell’ambito delle politiche di contenimento dei costi, le aziende ospedaliere effettuano delle vere e proprie esternalizzazioni, utilizzando il volontariato, per una parte del servizio del 118; l’azienda non ha la disponibilità economica per erogare l’intero servizio, quindi l’affida alle associazioni di volontariato che abbattono i costi, richiedendo il solo rimborso delle spese vive.

Anche qui il volontariato naviga in acque torbide, in quanto nasconde i tagli al SSN e impedisce il riconoscimento di quella spesa sociale necessaria che tende verso il pieno impiego, dato che, per esempio, i volontari di questo determinato servizio, circoscritti nella loro aurea di zelo, non si rendono conto che dall’altra parte della strada ci sono i disoccupati.

  1. Compendio ufficiale della relazione di Sir W. Beveridge al Governo britannico, Stamperia Reale Londra 1943
  2. T. Oldani, Milano Finanza, Il QE di Draghi cancella dopo 34 anni il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, 24/01/2015, https://www.milanofinanza.it
  3. Emergenza. Il volontariato avanza. Luci ed ombre del Terzo settore, 22/11/2017, https://www.infermieristicamente.it

Eugenio Donnici

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