Le riforme fino all’ANVUR: un disastro preannunciato

Volevo cominciare completando e aggiungendo alcune note a margine dell’intervento di Angelo d’Orsi riguardo al mantra berlusconiano sull’università. Di solito sono contrario alla numerologia, ma in questo caso darò qualche numero.

Una delle affermazioni più spesso ripetute, anche nelle aule parlamentari da molti deputati e senatori è: «in Italia ci sono troppe università.» Le università pubbliche sono 76. È necessario a questo punto fare un confronto con le 2000 e passa degli Stati Uniti o con la media europea, e inoltre considerare come si fa a stabilire quante università ci sono, cioè facendo un rapporto docenti/studenti per stabilire quanti studenti ha ciascun professore. A Cambridge un professore ha 4 studenti, ma è un caso unico, la media europea è 1 su 14, quella italiana 1 su 27.

Questi deficienti di politici confondevano, e questo l’ho anche provato, le sedi secondarie con quelle principali, per riuscire ad arrivare a dire che in Italia ci sono 286 università, ma allora significa che, per esempio, a Bologna, contando anche i campus in Romagna, dovremmo avere cinque università. Altra questione: in Italia ci sono troppi professori. Se però facessimo due conti, capiremmo che se avessimo i ricercatori che ci spettano e di cui abbiamo bisogno, rispetto a Francia e Germania, per paragonarci con paesi con cui dovremmo, come si usa dire oggi, «competere», dovremmo avere 100.000 professori. In realtà ne abbiamo soltanto 47.000, e questa è la spiegazione del perché ci sono poi 30.000 precari, perché qualcuno alla fine lo dovrà pur fare il lavoro che i ricercatori organicamente non riescono a fare.

Guardiamo dunque ai grandi cambiamenti recenti. Nel 2004/2005 Letizia Moratti ha emanato due leggi (se ricominciassimo a discutere a partire dalla riforma Berlinguer ci sarebbero molte più cose da dire) con cui ha stabilito sostanzialmente che invece di pagare le supplenze, i professori avrebbero dovuto fare 120 ore in più, che equivale a dire che le supplenze sono gratuite. La conseguenza è che quei pochi professori che abbiamo devono fare 120 ore in più e quindi uscire dal proprio settore disciplinare. Oltretutto c’è il problema che se il mio preside mi assegna un corso che non rientra nel mio settore disciplinare, qui si apre un altro discorso sugli SSD, i settori scientifico-disciplinari, in cui ogni professore per esercitare deve rientrare, descritti in maniera estremamente succinta dal Miur stesso. L’Italia è l’unico paese al mondo ad avere una cosa del genere.

Personalmente ho vissuto storie personali tragicomiche, quando per esempio si portano avanti ricerche che sono al limite tra due SSD. Per esempio, riguardo a filosofia della mente, la materia in filosofia più di moda e più studiata, anche sotto varie etichette; nel mondo anglosassone dicono tendenzialmente competence science ed è studiata dentro i dipartimenti di scienze cognitive. In Italia però non è collocata dentro scienze cognitive.

Un altro caso: teorie e sistemi dell’intelligenza artificiale, un insegnamento all’interno di filosofia, che io sto personalmente insegnando. Ce n’è una che ha un taglio completamente diverso a ingegneria, un’altra che invece che sta dentro psicologia. Essendo io un MF05, chi fa quell’esame con me matura crediti etichettati come MF05. Mi sono trovato con un insegnamento di intelligenza artificiale che nella declaratoria generale era PSI01, cioè psicologia generale, ma sapendo che lo facevo io che sono un filosofo l’hanno etichettato come filosofia. Infatti, su 150 studenti, metà erano di psicologia e l’altra metà di filosofia, i primi maturavano crediti psicologici, gli altri crediti filosofici.

Questa è una conseguenza della terminologia e della mentalità frutto della riforma Berlinguer, cioè del 3+2, che ha trasformato tutta la nominalistica universitaria in terminologia aziendalistica, basti pensare a crediti e debiti.

Poi c’è stata la legge Gelmini 240/2010, iper-decisionista fin dall’articolo 2, e che poi lasciava poi lacune enormi che in seguito sarebbero state coperte con più di 50 decreti attuativi.

Quando io ho incrociato Renzi da sindaco di Firenze ho cominciato a seguire questo ragazzotto brillante; dopo che Bersani era andato sui tetti di architettura a Roma dicendo «Aboliremo la Gelmini!», credevo che il Partito Democratico desse corso a ciò che aveva detto il suo segretario. Poco tempo dopo Profumo alla prima intervista disse che la Gelmini non andava abolita, bensì oliata, e mi vennero in mente le vignette di Guareschi: «Contrordine compagni: non era aboliamo, era oliamo». Durante questo periodo di sofferenza questo ragazzotto emergente mi fa illudere, chissà che non sia la volta buona. Per capirci, la mia unica conclusione a questo discorso sarà che se non viene abolita la legge 240, facciamo solo del casino mettendo cerotti su cerotti, considerato quanto è sbagliata concettualmente, l’unica via praticabile è fare tabula rasa alla Locke.

Nella prima intervista di Renzi su Max, alla domanda su che cosa ne pensasse della legge Gelmini sull’università, lui rispose: «Il Ministro avrebbe dovuto avere il coraggio di chiudere la metà delle università italiane: servono più a mantenere i baroni che a soddisfare le esigenze degli studenti». È nato il mio odio mortale verso di lui, quest’uomo sprizza odio verso l’università.

Torniamo ora al discorso sulla misurazione, partendo da una cosa banale ma che fa riflettere: cos’è l’antropologia? Ha a che fare con i topoi in greco antico, il luogo e la localizzazione. Lo spazio antropologico è uno spazio molto semplice, in cui vi sono delle proprietà che sono più importanti della misurazione. Per farlo capire agli studenti di matematica si dice di fingere che il mondo sia di gomma, in cui tutto è estensibile a piacere e in cui non ha senso il più lungo o il più corto, ma bisogna considerare altre dimensioni non misurabili. Lo spazio metrico viene creato aggiungendo una teoria della misura e si caratterizza per il fatto di avere come assioma, come punto di distinzione, la cosiddetta «disuguaglianza triangolare», secondo cui la somma dei due lati di un triangolo è sempre maggiore del terzo. Introducendo ulteriori proprietà si può costruire uno spazio di Hilbert, e aggiungendone poi ulteriori si raggiunge uno spazio euclideo, quindi è una situazione un po’ più complicata che ai tempi di Euclide.

Questa introduzione mi serve per spiegare che esistono spazi non misurabili, in cui non ha senso dare matematicamente una misura. Banalmente, non si può stabilire se è più bella Alla sera di Foscolo o Alla luna di Leopardi, né la quantità di romanticismo presente in Dei sepolcri di Foscolo. È molto preoccupante, anzi una tragedia, perché è fondamentalmente così che si fanno i concorsi.

Già Platone diceva: è vergognosa l’ignoranza di chi crede che si possa misurare tutto (letteralmente non è precisamente così, questo è un sunto del concetto, che esprime tra l’altro in maniera diversa nel Teeteto e nelle Leggi). All’inizio del quarto secolo, cioè nel periodo in cui è vissuto Platone, si sapeva già da un secolo e mezzo che esistano grandezze incommensurabili, i famosi alogoi, i numeri irrazionali. Lo scopre addirittura la scuola pitagorica, in quanto è una diretta conseguenza del teorema di Pitagora; infatti, già sicuramente ai tempi di Pitagora e delle scuole pitagoriche della Magna Grecia, teorizzarono che la diagonale del quadrato è incommensurabile rispetto all’angolo. Per fare un esempio, se consideriamo un quadrato di lato unitario 1, secondo il teorema di Pitagora la base è 1, quindi la diagonale misura radice di 2, che è un numero irrazionale.

La aritmogeometria, cioè il sogno dell’uomo di poter misurare tutto e di poter fondare tutto sul concetto di numero, l’essere in termini pitagorici, e di monade, che, in senso pitagorico (non come veniva intesa da Leibniz, quella è tutta un’altra cosa), è la particella geometrica che corrisponde al numero con cui si costruisce il mondo, muore con la scoperta dei numeri irrazionali, che significa affermare che non sempre c’è una misura adeguata. Insisto in questo senso sulla matematica, perché è importante capire che già in questa disciplina la misurazione venne messa in discussione diversi secoli fa; poi ci sarebbero moltissimi esempi sulla letteratura italiana, molto più facili concettualmente.

Un’altra caratteristica importante della metrica è che ha sempre un limite di precisione prefissato. Vuol dire che la misurazione è un processo empirico all’interno del mondo reale, lasciando da parte gli spazi metrici dei geometri, in cui è possibile arrivare ad avere una buona approssimazione, ma è sempre presente un limite invalicabile di precisione.

La conclusione a cui voglio arrivare è che la misura è intrinsecamente insufficiente per certe cose.

In questo senso mi collego all’ANVUR. Già in una mentalità bipartisan, parliamo di sei o sette anni prima della riforma Gelmini, si cominciò tanto da parte dei Democratici di Sinistra che da parte della destra a discutere di produrre un sistema di selezione delle università, a cui partecipò il senatore Modica dei DS. I criteri erano quelli di premiazione del merito, della lotta ai baroni e alle rendite di posizione, ecc… Naturalmente, queste etichette sono di per sé non riprovevoli, ma il problema è la loro messa in pratica. Ho seguito personalmente l’andamento di tutte le sedute in aula. Il PD ha fatto veramente opposizione solo nel segmento finale della discussione, poiché in un primo momento veniva fatta passare come contentino a Berlusconi perché se ne andasse, c’è stata poi la vicenda di Fini, a cui Napolitano ha dato un mese per comprare cinque senatori. Doveva cadere il governo e non è poi caduto, quindi ci siamo dovuti sorbire la legge Gelmini. Si disse di creare un organismo nazionale che valuti ricerca, didattica e tutto il mondo universitario in generale. Nonostante l’ANVUR sia stata inserita in legge già prima, chi la mise effettivamente in atto e che la nominò fu la Gelmini. Il primo problema che la riguarda è il fatto di essere di nomina governativa.

L’ANVUR, questo leviatano, questo mostro biblico, si è inventato un criterio meritocratico oggettivo facendo leva sul concetto di mediana. La mediana è una linea che divide l’universo in due metà uguali, quindi diversamente dalla media, semplicemente divide a metà il mio oggetto, in maniera tale che, qualunque esso sia, metà è una cosa e l’altra metà l’opposto. I criteri della prima abilitazione nazionale per esempio si basano tutti sulle mediane, e sul Corriere della Sera venne scritto in un articolo che era stato scoperto tramite un’indagine che la metà dei professori universitari non ha il titolo.

L’ANVUR si inventa dei criteri di valutazione delle università, e torna la famosa questione della meritocrazia. Quello della meritocrazia nasce come un concetto negativo negli intendimenti del suo ideatore, Michael Young, sociologo inglese, che scrive un testo, The Rise of Meritocracy (La nascita della meritocrazia) nel 1958, in cui dimostra che se avessimo una meritocrazia perfetta, cioè un algoritmo che attribuisce ad ognuno di noi in proporzione e quindi ai migliori di più, arriveremmo alla rivoluzione della società e alla sua dissoluzione in un tempo molto breve.

Purtroppo, Tony Blair non l’ha capita nel suo corretto significato, pure rimanendo tra le fila del Labour Party, in quanto ha cominciato a parlare di meritocrazia in senso positivo, e da lì nel mondo anglosassone si è fossilizzato in questo senso: premiazione dell’eccellenza. Disgraziatamente, quasi che non fosse una fregatura per gli anglosassoni, noi l’abbiamo copiata pari pari.

La prima riflessione che faccio in merito riguarda l’annosa questione: il merito è di chi arriva primo o di chi migliora di più? Esiste un documento, scritto dal collega Canevago su una rivista, che diceva che l’ università o si riforma o si distrugge, spiegando che il vero merito è dell’operaio, che con fatica arriva a fine mese facendo una gran fatica, non del figlio di Marchionne, che ha la possibilità di eccellere già dal liceo.

Inoltre, in tutto un arco di questioni riguardanti materie e discipline, è possibile misurarlo? Di sicuro non attraverso il concetto di mediana. Io sono stato in audizione alla Camera e al Senato per conto di un’associazione di docenti che rappresento, nel momento in cui si stavano definendo i criteri di valutazione, in cui posi il problema rispetto al fatto che fossero state messe le scadenze delle valutazioni in tot anni. L’auditrice mi dette ragione, dicendo pure, un po’ sul serio un po’ sul faceto, che in realtà poi la Gelmini non avrebbe ascoltato i nostri consigli.

I criteri attuali che devono essere soddisfatti da chi faccia l’abilitazione scientifica nazionale, che si riapre per la prima volta a dicembre dopo tre anni, a causa della contraddittorietà della legge, sono innanzitutto l’aver scritto almeno un libro, cosa che di base tutti sono riusciti a fare. Poi, avere pubblicato almeno dieci saggi negli ultimi cinque anni. In più, avere pubblicato negli ultimi cinque anni almeno tre saggi su riviste di classe A. L’ANVUR infatti decide di classificare le riviste in: scientifiche e non, classe A e classe B, utilizzando criteri abbastanza risibili. Spesso per esempio capita che una determinata rivista diventi famosa proprio grazie al fatto che qualcuno abbia pubblicato con essa.

Il problema conseguente è che ciò orienta la ricerca su una linea mainstream conservatrice, in quanto è difficile che gli articoli più innovativi escano immediatamente su riviste importanti.

Avevamo già un altro organismo, il CUN, cioè Consiglio Universitario Nazionale, organo elettivo che rappresenta tutte le 14 aree in cui è suddivisa la ricerca italiana. Per ognuno di questi settori vengono eletti a livello nazionale dei rappresentanti per ogni fascia, quindi uno ordinario, uno associato, un ricercatore, e ultimamente uno anche per i dottorandi. Avevamo già quindi un organo in cui i professori si riconoscevano, ma la scelta della Gelmini è stata di nominare personalmente cioè dal ministro 5 o 6 persone molto pagate (fino a 3-4 volte lo stipendio di un professore universitario). Studi documentati affermano che la valutazione è profittevole fino a che costa meno del 3% di ciò che deve giudicare, ma con i nostri finanziamenti sarebbe meglio, dato che siamo sottofinanziati (meno di un miliardo circa dai tempi della Gelmini), che i soldi venissero assegnati a giovani ricercatori e che venissero fatte borse di studio. Oltretutto è assolutamente ingiustificato il fatto che debbano essere di nomina governativa e non democraticamente eletti dal corpo docenti.

D’Orsi nomina poi il CRUI, cioè la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. La cosa assurda è che non è un ente pubblico, ma una specie di lobby privata gestita dal governo e con molta influenza (infatti quando non vuole che passi una legge, questa non passa davvero), che viene utilizzata paradossalmente dai ministri come interlocuzione con il mondo accademico.

Dalle valutazioni di questi enti dipende anche la suddivisione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), i soldi dati alle università a livello nazionale, su cui sono stati fatti dei tagli. Già con Tremonti, quindi prima della Gelmini, erano stati tagliati in un colpo solo 800 milioni su un finanziamento complessivo costituito da 7 miliardi e 100 milioni, corrispondente a circa 1% del PIL. Per capire se uno Stato spende abbastanza nella ricerca e nell’università bisogna confrontare appunto la spesa a questo dedicata e il PIL, non essendo possibile farlo solo attraverso la cifra spesa per nazione, viste le disuguaglianze tra i vari paesi anche all’interno dell’Europa. La media europea è di oltre 2% del PIL, della Germania e della Francia anche sopra il 2%, quella del Giappone supera il 3%, in Italia abbiamo una quota pari all’1% del PIL, quindi siamo i più sottofinanziati d’Europa, al penultimo posto anche dei paesi OCSE.

Un’altra grossa questione è il fatto che purtroppo abbiamo un’editoria malata, che soprattutto dopo l’evoluzione digitale sta sempre meno in piedi. I quotidiani si sono dimezzati, lo stesso vale per i libri; in un mercato piccolo come quello italiano un libro scientifico difficilmente si sostiene. Soltanto chi ha i soldi e può permettersi di pagare l’editore a qualunque prezzo ha la possibilità di pubblicare ciò che vuole, in una situazione in cui non esistono più specifiche politiche editoriali come invece accadeva 40-50 anni fa. L’editoria al giorno d’oggi vive soltanto sullo scolastico perché la gente è obbligata a comprare, oppure sul fatto che l’università compri determinati libri o manuali. Insomma, il dramma è che, pur esistendo discipline non misurabili, c’è un ente chiamato a misurarle, e di nomina governativa!

Un altro effetto distorsivo, sempre dovuto alla numerologia pitagorica gelminica, è che se è necessario pubblicare una certa quantità di articoli si fa di tutto per arrivare a quella soglia. Questo, per la ricerca di base e soprattutto per certi settori, è una tragedia. Le tempistiche imposte dalla legge Gelmini ti obbliga a pubblicare cose non verificate e a non fare ricerca di base, mandando in questo modo la ricerca verso il fallimento.

Un ulteriore progetto che torna fuori sistematicamente è quello che cerca di dividere le università in due categorie come nel mondo anglosassone (anche se trovo il paragone forzato, visto che il numero complessivo di università è nettamente superiore), le teaching universities e le searching universities, ma nessuno si chiede mai se sia giusto e conveniente. È innegabile che esistano università migliori di altre, ma non per forza in ogni aspetto o settore disciplinare. Non sarebbe svantaggioso invece procedere in senso di un piano strutturale di specializzazione, dando modo alle piccole università di specializzarsi in qualche settore, al posto di proporre di chiuderle.

Ribadisco che si stia cercando di mettere delle pezze ad una legge che è totalmente sbagliata e che andrebbe rifatta da zero.

Chiudo aggiungendo un’ultima cosa sulle Cattedre Natta. L’attuale presidente del consiglio Renzi, nella legge di stabilità del 2015, presenta una slide in cui afferma la volontà di prendere 500 super cervelli dall’estero, senz a affatto considerare che non sia legale fare un concorso precludendolo agli italiani, perché è l’articolo 3 della Costituzione che lo vieta.

Ci pensa sei mesi prima di arrivare un paio di mesi fa all’illuminazione: scegliere direttamente dal ministero i presidenti della commissione dall’estero, nonostante il parere del Consiglio di Stato fortemente negativo.

Ultima battuta sugli allievi e sul precariato. La stima per la formazione da parte dello stato di un buon ricercatore gira intorno ai 250.000 euro, ma se il giorno successivo andrà in Germania, parlando da un punto di vista aziendalistico è decisamente antieconomico. Un euro speso in ricerca ne frutta poi quattro, ma il tempo in cui il processo necessita di maturare è molto più lungo e complesso di quanto si pretenderebbe.

Maurizio Matteuzzi

1/8/2018 http://noirestiamo.org

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