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Altra Informazione, Ambiente e salute, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sinistra Europea, Cronache Sociali, Culture, Politiche di Rifondazione, sanità e salute, sicurezza lavoro — Ottobre 25, 2018 7:32 am

I percorsi di giustizia in Italia e Spagna. Questo breve viaggio a Cerdanyola ci conferma come l’industria del cemento-amianto abbia operato ovunque allo stesso modo, secondo il “modello Eternit”, fondato sul principio della massimizzazione dei profitti, sul disprezzo totale della salute e della vita dei lavoratori e dei cittadini, sulla menzogna, sulla disinformazione e sull’occultamento della verità. L’Italia, che si distingue per essere l’unico paese dove, seppur tra mille difficoltà, si celebrano processi penali contro i responsabili (attualmente a carico dell’ultimo padrone dell’Eternit Stephan Schmidheiny ve ne sono in corso quattro), dispone già di un fondo, ma i risarcimenti sono irrisori e a fasi alterne, complice la scarsa attenzione dei governi, vengono a mancare le necessarie coperture finanziarie.

Le vittime dell’amianto sulla scena del crimine

Pubblicato da franco.cilenti

amianto1

Siamo a Cerdanyola del Vallès, cittadina di quasi 60.000 abitanti alla periferia della capitale catalana, nota per ospitare la sede principale della Uab (l’Università autonoma di Barcellona) con i suoi oltre 30.000 studenti, ma anche e soprattutto per la presenza del più grande stabilimento di tutta la Spagna della multinazionale del cemento-amianto Uralita, che qui ha operato tra il 1910 e il 1997 seminando dolore e morti e provocando un disastro ambientale di dimensioni incalcolabili. Non è un caso che inizi proprio in questa località, con un ricevimento istituzionale, il primo Incontro internazionale delle vittime dell’amianto che si è celebrato in Catalogna dal 4 al 6 ottobre e che ha visto la partecipazione di un centinaio di delegati di numerosi paesi.

Un incontro promosso dall’Associazione catalana delle vittime (Avaac) e dal Colectivo Ronda, una cooperativa di avvocate e avvocati fondata nel 1972 che da allora, con oltre 100 professionisti, porta avanti le cause giudiziarie per conto delle vittime dell’amianto in tutta la Spagna (ottenendo anche importanti risultati di cui diciamo a parte) e più in generale si batte “per convertire il diritto in uno strumento di trasformazione sociale e di risoluzione dei problemi che colpiscono le persone e la società”, per costruire “un mondo più solidale”. Di qui il «forte legame che dura da più di 40 anni» con Cerdanyola e con la vicina Ripollet, due comunità che «hanno sofferto e che soffrono come pochi a causa dell’amianto», afferma l’avvocata Raquel Lafuente denunciando come
siano state «le ambizioni economiche delle imprese che utilizzavano l’amianto a provocare tanti morti e tanto dolore». «Una tragedia – infatti – che si poteva evitare perché si sapeva già dagli anni 40 degli effetti negativi dell’amianto ma ciononostante si è continuato a utilizzarlo per decenni. E oggi a queste imprese che non domanderanno mai nemmeno perdono, bisogna chiedere conto del danno che hanno consapevolmente causato». «Con la nostra lotta – conclude l’avvocata del Colectivo – vogliamo fare in modo che non vi sia impunità, che non ci si dimentichi di quanto è capitato».

Una nuova ondata di morti

Dalle informazioni e dalle testimonianze che abbiamo potuto raccogliere, la situazione di Cerdanyola e Ripollet appare addirittura più drammatica di quella prodotta a Casale Monferrato (Alessandria) dalla svizzera Eternit. Considerata “Zona zero” dell’amianto di tutta la Spagna, qui i segni dell’attività industriale della Uralita (dove negli anni di massimo regime hanno lavorato più di 3.000 operai) sono tuttora ben presenti. La fabbrica di cemento-amianto più grande d’Europa, ormai in stato di abbandono, è ubicata lungo la ferrovia, a poche decine di metri dal centro di Cerdanyola. Ma con la dispersione diretta delle polveri ha prodotto danni ambientali in un raggio di almeno due chilometri, cioè nella maggior parte del territorio abitativo delle due città. Ma non solo: la prossimità ha favorito anche un uso indiscriminato dell’amianto per la costruzione di strade e edifici privati e pubblici (scuole e impianti sportivi in particolare). «Sotto i nostri piedi c’è amianto, perché gli scarti della lavorazione venivano utilizzati per realizzare il manto stradale, sentieri e vialetti, che successivamente sono stati semplicemente ricoperti con l’asfalto», racconta una funzionaria del Comune.

«Questa situazione scatenerà una nuova ondata di morti dopo quella in atto che concerne gli ex lavoratori e i vicini della fabbrica», prevede il dottor Josep Tarrés, pneumologo ed esperto di malattie asbesto-correlate di fama mondiale che nel solo comprensorio di Cerdanyola e Ripollet ha potuto documentare quasi 2.000 casi negli ultimi 30 anni. «Il fibrocemento ha una vita media di 35 anni. In seguito il cemento perde la sua capacità coesiva e le microfibre d’amianto cominciano a liberarsi con il vento, la pioggia e la grandine. Ciascuna fibra si decompone poi in milioni di altre fibre che penetrano negli angoli più nascosti dei polmoni dell’uomo scatenando malattie come l’asbestosi, le placche pleuriche, il mesotelioma, il cancro del polmone e di altri organi (anche 30 o 40 anni dopo l’esposizione)», spiega il dottor Tarrés davanti a una platea composta di delegati internazionali ma anche di tanti cittadini di Cerdanyola e Ripollet accorsi per testimoniare “il male dell’Uralita” (come lo chiamano qui) che portano dentro i loro corpi e le loro anime, ma anche per manifestare tutta la loro rabbia nei confronti di quella fabbrica maledetta e di tutti coloro che le hanno consentito di operare per oltre 90 anni.
Nel mirino della critica anche i giovani sindaci delle due città (entrambi esponenti della sinistra radicale e a capo di una maggioranza rosso-verde-indipendentista che raccoglie attorno al 60 per cento dei consensi!), nonostante non abbiano evidentemente alcuna responsabilità se non quella derivante dalla loro funzione istituzionale.
«La Uralita ha commesso un genocidio sociale, morale e ambientale», afferma il sindaco di Ripollet José Maria Osuna che al pari del suo omologo di Cerdanyola Carles Escolà deve fronteggiare, oltre al danno sociale, un immenso lavoro di bonifica purtroppo soltanto agli inizi. «Il Comune ha un debito storico con le vittime dell’amianto e farà di tutto per fare di Cerdanyola un luogo senza amianto, a partire dallo smantellamento della fabbrica che fu dell’Uralita», promette il sindaco «a tutti quelli che oggi soffrono e alle future generazioni».

La “scuola Eternit”

Questo breve viaggio a Cerdanyola ci conferma come l’industria del cemento-amianto abbia operato ovunque allo stesso modo, secondo il “modello Eternit”, fondato sul principio della massimizzazione dei profitti, sul disprezzo totale della salute e della vita dei lavoratori e dei cittadini, sulla menzogna, sulla disinformazione e sull’occultamento della verità. Anche se la fabbrica spagnola è appartenuta alla svizzera Eternit soltanto per un breve periodo negli anni Trenta portando il nome “Manufactures Eternit SA” (per poi passare nelle mani di un fedelissimo del dittatore Franco), il legame con la multinazionale elvetica è proseguito anche nei decenni successivi. In particolare nel quadro del cartello europeo dei produttori di cemento-amianto fondato a Zurigo nel 1929 e che ha proseguito le sue attività fino agli anni Novanta: le sue finalità erano il controllo dei prezzi, il coordinamento delle esportazioni, la conclusione di accordi sull’approvvigionamento della materia prima e, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, anche lo scambio d’informazioni sui danni alla salute causati dall’amianto e l’occultamento delle conoscenze scientifiche in materia. Ma anche sul piano strettamente tecnico c’era collaborazione, come conferma il racconto di un ex lavoratore della Eternit di Casale Monferrato (testimone allo storico processo di Torino contro Stephan Schmidheiny), che negli anni Settanta fu inviato a riparare un macchinario proprio alla “concorrente ma non troppo” Uralita di Cerdanyola.

Ottenere giustizia è difficile ovunque

Giustizia, riconoscimento per tutte le persone che hanno sofferto, soffrono e soffriranno a causa dell’amianto, bonifica del territorio e ricerca medica. Sono le rivendicazioni comuni a tutte le organizzazioni delle vittime presenti al presidio organizzato sabato 6 ottobre nel centro di Barcellona (non distante dalle sedi del Comune e del Governo autonomo catalano) a margine dell’incontro internazionale cui hanno partecipato delegazioni di diversi paesi (Belgio, Francia, Italia, Svizzera, Gran Bretagna, Giappone) e di diverse regioni della Spagna.

Un’occasione per uno scambio di esperienze e di informazioni, per approfondire le relazioni e creare solidi legami di solidarietà e collaborazione tra le varie realtà. Per dare forza alla «multinazionale delle vittime», per dirla con Bruno Pesce, leader storico delle battaglie sindacali e civili contro l’amianto e contro la Eternit di Casale Monferrato (già più di 2.300 morti).
Tra le tante questioni emerse nell’ambito di un incontro organizzato il giorno precedente dal Colectivo Ronda in una masseria di sua proprietà nella campagna di Argentona (a una quarantina di chilometri da Barcellona), spicca il problema del riconoscimento delle malattie e del risarcimento delle vittime e dei loro familiari. Un problema quest’ultimo che investe la maggior parte dei paesi. A partire proprio dalla Spagna, dove il riconoscimento delle malattie da amianto resta tuttora problematico e le vittime sono costrette a sfiancanti battaglie giudiziarie. Il principio dell’istituzione di un fondo d’indennizzo è stato approvato un anno fa dal Congresso dei deputati, ma ci si è fermati lì, si lamenta il presidente dell’Avaac Benedicto Martino, puntando il dito contro le «imprese che continuano a negare le loro responsabilità».
L’Italia, che si distingue per essere l’unico paese dove, seppur tra mille difficoltà, si celebrano processi penali contro i responsabili (attualmente a carico dell’ultimo padrone dell’Eternit Stephan Schmidheiny ve ne sono in corso quattro), dispone già di un fondo, ma i risarcimenti sono irrisori e a fasi alterne, complice la scarsa attenzione dei governi, vengono a mancare le necessarie coperture finanziarie. Tra i delegati ha suscitato un certo interesse il modello di fondo istituito l’anno scorso in Svizzera, anche se ha il difetto di prevedere indennizzi solo per i casi di mesotelioma verificatisi dopo il 2006. «È un passo insufficiente ma che va nella giusta direzione e che potrebbe fare scuola nei paesi dove non c’è nulla», commenta un delegato proveniente dalla Francia. Quella Francia che rappresenta un modello, perché dispone del migliore sistema di indennizzo al mondo, con il suo fondo Fiva istituito nel 2000 e a cui hanno diritto tutte le persone colpite da una malattia asbesto-correlata (dalle placche pleuriche fino al mesotelioma e al cancro del polmone) rispettivamente i loro eredi fino alla terza generazione. In più dispone di un sistema di prepensionamento destinato a tutti gli esposti all’amianto di cui hanno finora già beneficiato più di 420.000 persone: esso prevede il pensionamento anticipato di un anno per ogni 3 anni di esposizione a partire dai 50 anni di età. Va poi detto che l’accesso a queste prestazioni (a differenza di quanto accade negli altri paesi che dispongono di strumenti simili) non esclude la possibilità di procedere parallelamente per via giudiziaria contro i responsabili. Ben messo è anche il Belgio, dove un Fondo d’indennizzo è stato creato nel 2007, anche se non include tutte le malattie e chi ne beneficia deve rinunciare a ogni azione in sede giudiziaria. «La politica ha voluto tutelare i colpevoli», osserva il presidente dell’associazione Abeva Eric Jonckheere, figlio di un ingegnere che lavorava alla Eternit e morto di mesotelioma, come sua mamma e due suoi fratelli. «Abitavamo a poche centinaia di metri da quella fabbrica», ricorda Jonckheere, che l’anno scorso ha ottenuto in tribunale la prima storica condanna della Eternit per il decesso del padre.
Fatta eccezione per questi due
paesi, la situazione resta insomma quasi ovunque insoddisfacente e nel 2018 si deve ancora scendere in piazza per ricordare che «le vittime dell’amianto hanno nomi e cognomi, così come i responsabili della loro morte».

Uralita condannata a risarcimenti milionari

Dai tribunali spagnoli giungono segnali incoraggianti sul fronte di quella Giustizia che le vittime dell’amianto di ogni dove reclamano. Gli ultimi in ordine di tempo sono dati da due sentenze, che per la prima volta condannano un’impresa del cemento-amianto a risarcimenti milionari per i danni causati a cittadini che vivevano nei pressi della fabbrica, i cosiddetti esposti ambientali. Sentenze che sono il frutto dei procedimenti avviati dai legali del Colectivo Ronda e che vengono considerate «pionieristiche», «di portata storica».

In Spagna, sul piano giudiziario il cammino per le vittime che hanno sofferto l’esposizione all’amianto sui luoghi di lavoro è chiarito da tempo in numerose sentenze, le quali dimostrano come Uralita e altre imprese simili non adottarono alcuna misura di protezione della salute dei lavoratori pur conoscendo la pericolosità dell’amianto. Più complicata è la battaglia delle cosiddette vittime domestiche (familiari di lavoratori) e ambientali (persone che hanno vissuto nei pressi degli stabilimenti), che hanno subito l’esposizione pur non avendo mai messo piede in fabbrica.
Ma recentemente sono stati compiuti importanti passi in avanti, in particolare grazie a due cause vinte dal Colectivo Ronda. Con una sentenza dello scorso 18 settembre, un tribunale di prima istanza ha condannato Uralita (che oggi produce materiali da costruzione e che dal 2015 porta il nome di Coemac) a indennizzare con 1,7 milioni di euro (1,95 milioni di franchi) gli eredi di 14 cittadine e cittadine di Cerdanyola e Ripollet che vivevano nei dintorni dello stabilimento. Una sentenza che fa seguito ad un’altra ancora più significativa con cui la Audiencia Provincial di Madrid (seconda istanza) nel dicembre 2017 aveva condannato la medesima Uralita a risarcire con oltre 2 milioni altre 39 persone per i danni subiti dall’esposizione ambientale. Danni causati dalla «mancanza di diligenza» da parte dell’impresa.
Spiega Esther Pérez, avvocata del Collettivo Ronda che ha vinto le cause: «Il giudice ha ritenuto l’impresa responsabile delle patologie che hanno colpito queste persone entrate in contatto con l’amianto per il fatto di aver vissuto in un raggio di due chilometri attorno alla fabbrica». La legale ricorda come già nel 1977 da un’ispezione dello stabilimento da parte di un ingegnere del Comune fosse emerso il pessimo stato della struttura: finestre rotte, porte che non si chiudevano, filtri e dispositivi di ritenzione delle polveri malandati, polvere che fuoriusciva dalle navate. Un testimone ha dichiarato che la fabbrica appariva avvolta da «una nube di polvere».
«In precedenza – prosegue Esther Pérez – non si era mai giunti a una condanna perché i giudici ritenevano che non si potesse affermare con assoluta certezza che l’amianto proveniva da un punto preciso, cioè dalla fabbrica. In un caso arrivarono addirittura ad affermare che poteva venire anche dall’usura delle pastiglie dei freni delle auto che transitavano da un’autostrada vicina. Ma la realtà è che nelle zone più vicine alla fabbriche ci sono dieci volte più malati d’amianto che altrove».
Non si tratta delle prime condanne per la multinazionale spagnola dell’amianto: la prima, riguardante un ex lavoratore dichiarato invalido permanente nel 1982 a causa dell’asbestosi e morto di cancro del polmone nel 1993, risale al 1997. E poi, a partire dal 2012 su Uralita si è scatenato una sorta di ciclone giudiziario che ha portato a molte condanne. Questo spiegherebbe tra l’altro la scelta di cambiare nome nel 2015. Un cambio che voleva «riflettere l’inizio di una nuova era», spiegava il gruppo in una nota stampa in cui non si faceva alcuna menzione al calvario dei suoi lavoratori né alle ripetute condanne subite.
Ma le ultime sentenze sono d’importanza storica, perché con esse i tribunali riconoscono per la prima volta le vittime ambientali. «Prima abbiamo ottenuto un riconoscimento per i lavoratori quando i tribunali hanno iniziato a condannare l’impresa per mancato rispetto delle leggi sulla prevenzione dei rischi lavorativi. In seguito i giudizi hanno cominciato a riconoscere le vittime domestiche conviventi dei lavoratori, ma sempre per la violazione di questa legge (in particolare per non aver provveduto a lavare gli abiti da lavoro, di cui di regola si occupavano le mogli a casa). Ora, si è compiuto un ulteriore passo in avanti», si compiace l’avvocata. Anche se, osserva, «la cosa più drammatica è che queste sentenze non arrivano mai con la persona in vita, perché si tratta di malattie che subentrano anche a distanza di decenni e che hanno un decorso molto rapido». «Non c’è indennizzo né prestazione sociale che possa lenire il dolore o attutire la rabbia per tanti morti evitabili, ma con questa giurisprudenza ormai solida, perlomeno, non c’è impunità. E nemmeno silenzio», aggiunge l’avvocata.
Intanto Uralita, «nel tentativo di dissuadere le vittime che si trovano in una situazione molto vulnerabile a rinunciare a iniziative giudiziarie e senza alcuna ragione di merito, ricorre sistematicamente contro ogni sentenza. E anche per ottenere i risarcimenti stabiliti dai giudici, che sono immediatamente esecutivi (devono cioè essere corrisposti anche in assenza di un giudizio definitivo), Uralita pur possedendo la liquidità necessaria e conseguendo utili ragguardevoli (8,6 milioni nel 2017), fa enormi difficoltà a pagare».

Claudio Carrer 

24/10/2018 www.diario-prevenzione.it

FONTE AREAONLINE.CH 

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