L’epidemia dei rider

“Il lockdown era iniziato da una settimana, più o meno. Sono uscito dalla porta e mi sono ritrovato davanti agli occhi un deserto. È andata così: da un giorno all’altro, in mezzo a alla strada, a correre da un capo all’altro della città per portare cibo a sconosciuti rinchiusi in casa. Insomma, nel giro di poche ore per me era cambiato tutto. Ero diventato un rider”. Dalle sue parole traspare ancora l’eco dello stupore, e anche una certa inquietudine. Ed è comprensibile, perché per Walter Primo quel giorno del marzo 2020 rappresenta una vera e propria rivoluzione. Quarant’anni, catanese, fino a una settimana prima lavorava nella raccolta pubblicitaria per il quotidiano La Sicilia. “Stavo seduto su una sedia per 8 ore al giorno, per 5 giorni alla settimana. Ma appena è scoppiata la pandemia è venuto giù tutto. Non avevano più bisogno di me, e mi hanno fatto fuori. Non che prima le cosa andassero benissimo, ma dopo sono andate peggio. Di sicuro”.

Un rider a Catania

Walter da quasi due anni è uno di quei lavoratori che prima della tempesta perfetta che ha stravolto il mondo erano poco più che comprimari di un fenomeno di nicchia. Soprattutto qui, nel profondo Sud. E che invece nei primi mesi di pandemia sono diventati, loro malgrado, protagonisti di una nuova normalità. Nwel marzo 2020 Walter s’è ritrovato padrone assoluto di una Catania spettrale: “All’inizio c’era solo silenzio, c’eravamo io e gli altri rider, la polizia e le ambulanze. Era davvero strano, un po’ inquietante. Però il lavoro mi veniva facile, perché di traffico non ce n’era nemmeno l’ombra. Ho pure scoperto strade e vicoli che non conoscevo, manco fossi un turista”. Walter non conosceva nemmeno il mondo del food delivery, e ha dovuto improvvisare. Perché di alternative non ne aveva proprio: “A Catania un lavoro era già prima un miraggio, figuriamoci col covid”. Non era nemmeno attrezzato: “Ho iniziato con Glovo, in macchina perché quella avevo. Poche consegne, e pochi soldi. Poi d’estate mi sono dovuto far aiutare per comprare una bici elettrica, ma la situazione economica è ancora quella che è”.

Foto: Marco Merlini

Dopo un po’ il lockdown è finito, la pandemia è rimasta. E lui è rimasto un rider. Oggi è ancora in sella, col suo cubo ben stretto sulle spalle e l’app di Just Eat sempre accesa. “Lavoro 6 giorni su 7, grossomodo per 5 o 6 ore. Ho un giorno libero a settimana, mai nel weekend. Attacco alle undici e mezza e vado avanti fino alle tre del pomeriggio. Poi a casa, provo a mangiare qualcosa, riattacco alle sei e stacco a sera tarda. L’orario dipende sempre da quando arriva l’ultima chiamata. In ogni caso, faccio almeno 20 chilometri al giorno, alternando la bici elettrica con quella classica”. È un po’ stancante – ammette – ma mi sento comunque fortunato, e non solo perché mi sono rimesso in forma”.

“Lavoro 6 giorni su 7, grossomodo per 5 o 6 ore. Ho un giorno libero a settimana, ma mai nel weekend”


La Milano del sud

Per lavorare a Catania, in effetti, ci vuole un certa fortuna. Quella che nel favolosi ’60 era definita la “Milano del sud” secondo l’Istat viaggia oggi su tassi di disoccupazione del 16.4%. Non è un caso, quindi, se da queste parti negli ultimi anni il numero di rider sia cresciuto a dismisura. “Oggi a Catania sono più o meno 400, solo in Just Eat sono una settantina – ci racconta Giuseppe Campisi, responsabile rider per la Filt e il Nidil Cgil della città -. Qui non ci sono realtà imprenditoriali forti e consolidate come altrove, e con la pandemia tante persone sono rimaste senza lavoro. Molti tra coloro che oggi fanno il rider avevano piccole imprese che hanno dovuto chiudere, o sono stati licenziati nel giro di poche settimane. C’è Mario, che fa il rider a oltre 60 anni per arrivare alla pensione; Nunzio, che lavora part-time in aeroporto e poi quando stacca salta in sella per Glovo, Antonietta che ha iniziato a fare la rider perché il marito ha avuto problemi seri, Silvia e diverse altre donne. Insomma, questa crisi ha cambiato tutto, per queste persone ha anche cambiato il modo di vedere le cose. In tanti hanno alzato gli occhi da terra, e  hanno deciso che non potevano più vivere senza tutele e senza diritti, quindi cercano di migliorare la loro condizione”.

“Molti tra coloro che oggi fanno il rider avevano piccole imprese che hanno dovuto chiudere, o sono stati licenziati nel giro di poche settimane”


Un profilo rigoroso dei rider catanesi in pandemia, in realtà, è stato già tracciato. Lo ha fatto Luigi Di Cataldo, al secondo anno di dottorato presso il Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Catania. Il ricercatore sta svolgendo uno studio sulla gig economy, che prevede un ricerca sul campo tra i ciclofattorini della città. La prima fase si è svolta dal giugno all’ottobre del 2020, a ridosso della seconda ondata pandemica, e ha coinvolto 120 lavoratori di cinque diverse aziende: Glovo, Foodys, Just Eat, Social Food, Winelivery. L’identikit che ne esce sembra proprio tagliato addosso a Walter: uomo (92%), nato in Italia (89%), domiciliato in città (75%), non studente (79%) e non giovanissimo (età media è di 31 anni). Il riding è l’attività a cui dedica più tempo, anche tra quelle non lavorative, lo fa da meno di un anno (72%) ed è la sua unica fonte di reddito (66%). In parole povere, pure a Catania fare il rider non è più, o forse non è mai stato, un ‘lavoretto da studenti per arrotondare’. E nell’ultimo anno, quello del covid, è diventato un mestiere molto diffuso. https://cdn.datamatic.io/runtime/echarts/3.7.2_408/embedded/index.html#id=105553696908284816339/1XW9-nsualRaNTjNRRpiAK69yESDpuZxa

Un identikit (im)possibile

Provare ad estendere queste caratteristiche a livello nazionale, in ogni caso, appare un’operazione quantomeno azzardata. Perché la figura del rider tende a sfuggire a ogni stereotipo. Innanzitutto, già soltanto capire quanti siano effettivamente i ciclofattorini in Italia è complicato. Per molti di loro, infatti, si tratta ancora di un’occupazione temporanea, c’è poi chi lavora nello stesso momento per più aziende e pure chi fa del vero e proprio caporalato, cedendo le proprie corse in cambio di benefici. Nel 2019, ad esempio, l’Inps ha contato circa 11.000 rider. Stime sindacali, sempre pre-pandemia, fanno invece lievitare le cifre, portando a 30.000 gli addetti nelle maggiori piattaforme e nelle città più grandi. Nel febbraio 2021, invece, la Procura di Milano dopo una lunga indagine ha chiesto la regolarizzazione di addirittura 60.000 lavoratori delle principali società del settore. Sei volte tanto rispetto ai dati Inps.

La scheda

Un identikit (im)possibile

Carlo Ruggiero

Di conseguenza, anche provare a dare un volto a questo esercito di lavoratori appare problematico. I connotati dei rider italiani sono sfuggenti, come se cambiassero a ogni pedalata. Forse anche per questo tutti i tentativi finora effettuati hanno un orizzonte piuttosto limitato, e non si allontanano mai troppo dalle mura di una singola città. Nel febbraio 2019, ad esempio, l’assessorato al lavoro di Milano, la capitale italiana della consegna domicilio, aveva commissionato una ricerca all’Università Statale per capire chi fosse a sfrecciare sulle ciclabili della città. E i risultati ottenuti discordano parecchio da quelli registrati un paio d’nni dopo a Catania. Pure in questo caso, quantificare appare un’operazione complessa: Le voci più accreditate sulla realtà milanese parlano di circa tremila persone prima della pandemia. Anche questa popolazione era composta principalmente da uomini (97%), ma erano più giovani (l’85% aveva meno di 30 anni). E, sebbene pure a Milano fossero in pochi a conciliare lo studio con le consegne (15%), qui una netta maggioranza non era di cittadinanza italiana: quasi sei rider su dieci erano migranti, per lo più di origine africana.

Come conferma Aldo Cristadoro, ricercatore della Statale che ha collaborato con il comune su questo tema: “Il fenomeno oggi è particolarmente difficile da mettere a fuoco perché si costituisce prima e si sta consolidando ora una zona grigia fra lavoro professionalizzato e lavoro occasionale, fra persone che vivono di questa attività e altre che arrotondano solamente le proprie entrate. Si tratta oltretutto di un fenomeno in costante evoluzione, con ciò che tale evoluzione inevitabilmente implica: la sostituzione degli occasionali con i professionalizzati”.

Quasi sei rider su dieci erano migranti, per lo più di origine africana


Tra ‘altro, affermano gli studiosi, ci sono rider diversi in base alla composizione sociale del territorio in cui lavorano. Questo perché, per dirla ancora con le parole di Di Cataldo, in sella alla gig economy si trovano sempre “gli esclusi dal mercato del lavoro, i più fragili e ricattabili”. Con una differenza sostanziale, però: “Nel Sud è la popolazione italiana, che affronta una situazione economica e sociale fatta di precarietà, a dirigersi verso le multinazionali del food delivery. Nel più ricco Nord, invece, è la popolazione immigrata a cercare delle opportunità nelle piattaforme”. Così, a Bologna e Firenze, prevalgono i lavoratori giovani, spesso studenti. Napoli e Palermo hanno invece una forte presenza di lavoratori espulsi dal mercato del lavoro, come a Catania. A Roma, proprio come a Milano, predominano i migranti.

Foto: Marco Merlini

“Sul profilo dei rider incide anche l’urbanistica – spiega Fiorella Imprenti, ricercatrice e fino a poco tempo fa parte dello staff dell’Assessorato al lavoro -. Una grande città è molto sfidante, quindi un tipo di lavoro come quello del rider, fisicamente intenso e con un salario basso, viene ricercato solo da chi ha più bisogno. Quando ci siamo  confrontati con i manager delle imprese di food delivery abbiamo sempre avvertito una distanza enorme tra la visione che avevano di questi lavoratori e la nostra esperienza diretta. Per loro i rider erano perlopiù persone che cercavano autonomia e flessibilità per integrare un altro salario. Mentre noi ci confrontavamo ogni giorno con persone che avevano l’esigenza di lavorare e che non avevano alternative”.  

La grande livella (verso il basso)

Tutti questi indizi, però, sono stati raccolti prima che il covid arrivasse a mettere sottosopra milioni di vite, proprio come quella del nostro Walter. La pandemia, in realtà, potrebbe aver sparigliato le carte in tavola. La sensazione è che l’aumento della povertà e il crescente bisogno di un lavoro quale che sia abbiano spalancato le porte di un settore in fortissima espansione a migliaia di persone. Quello che è successo a Roma ne è un esempio lampante. Secondo i sindacati, oggi, i rider capitolini sono circa seimila. Prima della pandemia se ne contavano più o meno duemila. Insomma, in un anno e mezzo sono triplicati. Un dato, questo, confermato in maniera non empirica anche da Foodys, uno dei principali player della città, che ha registrato “un boom di richieste per diventare rider a causa di altri lavori persi”. Il tutto a fronte di “un aumento del giro d’affari del 100%”. Il Covid in effetti ha accelerato, e di molto, la crescita del mercato delle consegne di cibo in Italia. Secondo le stime delle società del settore, nel 2020 ha toccato gli 800 milioni di euro. Quasi il doppio dell’anno precedente, quattro volte quello del 2018. Per il 2021 si prevede addirittura di sfondare quota un miliardo. Nel 2019 il food delivery rappresentava il 18% del totale degli acquisti online, oggi secondo l’Osservatorio Just Eat è al 25%.

Nel 2020 il food delivery ha toccato quota 800 milioni 


Gli effetti di questo enorme slancio in un periodo di profonda crisi già si fanno sentire. E questo accade sia nel nord che nel sud del Paese, a Milano come a Catania. La pandemia, in questo senso, potrebbe anche rivelarsi una grande livella in grado di appianare, di certo al verso il basso, le differenze territoriali e quelle tra grandi metropoli e centri più piccoli. L’impressione è che i rider post-virus potrebbero essere sempre più anziani, sempre più cittadini italiani, e che potrebbero anche aumentare le donne.

Foto: Marco Merlini

Nell’aprile 2020, dopo un anno dalla prima ricerca e in pieno lockdown, l’area lavoro e formazione del Comune di Milano ha distribuito guanti e mascherine ai rider della città. Con l’occasione si è cercato di raccogliere ulteriori informazioni dai 540 lavoratori che hanno risposto all’invito. Ebbene, secondo questa indagine interna, erano bastate poche settimane di pandemia per far lievitare la quota degli italiani, ormai quasi il 30% del totale. A Milano, però, quello del rider restava ancora un lavoro per soli uomini: il 98%. Il più giovane che si era presentato aveva dichiarato di avere 15 anni, il più anziano addirittura 64. “Ancora un volta i dati contrastano con il profilo dello ‘studente che arrotonda’, che di certo esiste ma non è né diffuso né tantomeno prevalente”, commenta Fiorella Imprenti -. Per tutti, però, quello del rider si conferma un lavoro duro e sottopagato a cui si accede nei momenti più difficili della vita. Un cambiamento durante la pandemia c’è statosicuramente , anche se la mia impressione è che, a differenza di quanto accadrà in altri territori, nella nostra città queste dinamiche potrebbero rientrare quando ci sarà un presumibile rimbalzo dell’occupazione”. 

Foto: Marco Merlini

A Catania invece, secondo De Cataldo, l’emergenza sanitaria ha ormai “accelerato in modo irrimediabile alcune tendenze”, determinando “una maggiore domanda di servizi” e producendo “un consistente flusso di manodopera verso questi operatori economici”. Ci si può quindi “legittimamente aspettare” che le carriere lavorative dei rider diventino “più stabili”, che questo tipo di lavoro diventi sempre più “l’attività principale” di molti. Potrebbe anche “aumentare la percentuale di rider che non sono impegnati in alcuna attività di studio”, e crescere ancora “la quota di cittadini non migranti impiegati”. In ogni caso, la seconda fase della ricerca sui rider catanesi, quella che confermerà o meno questi effetti della pandemia sul settore, è ancora in corso.

Nel frattempo, a dare un po’ di stabilità ai rider di Just Eat, uno dei colossi del settore, è anche arrivato il contratto nazionale. Mentre il virus mietere vittime, l’ipotesi d’inquadramento previsto dall’integrativo aziendale firmato con Cgil, Cisl e Uil il 29 marzo scorso ha infatti preso forma. E stavolta non a colpi di battaglie legali, come nel famoso caso di Marco Tuttolomondo, il rider assunto su ordine di un giudice del tribunale di Palermo. Oggi Just Eat propone dei part-time da 10, 20 o 30 ore settimanali, con tutte le garanzie degli altri lavoratori: riposo settimanale, ferie pagate, malattia, maternità, paternità. Per questi rider è arrivata anche la paga fissa, non più legata solo al numero di consegne. Alla paga base di 8,50 euro all’ora, si sommano 0,25 euro per ogni consegna, e si stima una media di due consegne ogni 60 minuti.

L’intervista

«Un contratto per tutti»

Davide Colella

In sella a cinquant’anni?

È inquadrata in questo modo anche la vita del nostro Walter: “Io oggi ho un contratto, sono tra i fortunati che sono riusciti a ottenere le 30 ore. Così arrivo a prendere uno stipendio di milleduecento euro al mese. Più o meno quanto facevo con il precedente lavoro, ma con più fatica. Dico che sono fortunato, perché ci sono ancora colleghi che non arrivano nemmeno a 300 euro al mese”. Con o senza contratto, in ogni caso, molti dei problemi dei rider sono sempre gli stessi, per tutti. Le pratiche di sorveglianza, il controllo sui tempi, i meccanismi sanzionatori, la geolocalizzazione costante, la stanchezza, i rischi continui. Come ha spiegato il procuratore di Milano Francesco Greco, “il problema è conosciuto e uguale in tutto mondo. Ci sono sentenze dei tribunali spagnoli, australiani, ma da un punto di vista giuridico è un tema trattato in modo molto superficiale”. E poi: “Per loro c’è un problema di pericolosità del lavoro, ci sono tanti a cui non vengono forniti mezzi adeguati e rischiano, quando piove, per l’usura delle gomme”. E ancora: “Ci troviamo davanti a un sistema di organizzazione aziendale che funziona attraverso un’intelligenza artificiale, che assegna i turni favorendo chi è sempre disponibile e addirittura penalizzando chi si ammala o si assenta per sciopero”.

Intanto, proprio da Milano, il 15 ottobre è arrivata la prima condanna penale per caporalato sui rider. Il giudice dell’udienza preliminare del tribunale ha condannato a 3 anni e 8 mesi uno dei responsabili delle società di intermediazione di Uber Eats. Secondo l’accusa i ciclo-fattorini venivano “pagati a cottimo 3 euro”, “derubati” delle mance e “puniti” con decurtazione dei compensi se non stavano alle regole. Il gup ha anche deciso di convertire il sequestro di circa 500 mila euro in contanti, disposto nelle indagini, in un risarcimento da 10mila euro a testa per i 44 fattorini parti civili e da 20 mila euro per la Cgil. 

“Il problema è conosciuto e uguale in tutto mondo”


“I problemi sono quelli – ci conferma Walter -. Con gli altri rider ne parlo spesso. Ci incontriamo in Piazza Steticoro, che è il nostro punto di partenza. Chiacchieriamo in attesa degli ordini. È lì che ho conosciuto la Cgil, perché sede è in via dei Crociferi, poco più in là. Sono venuti a conoscerci, a parlarci. È stato il mio primo contatto con un sindacato. Certo, sapevo già cos’era, ma nell’azienda per cui lavoravo prima nessuno era sindacalizzato, avevano tutti paura. Insomma, è un mondo che ho conosciuto in questi ultimi due anni, ed è stata un’altra scoperta, un altro cambiamento”.

Il problema più grosso, però, per Walter così come per ogni altro rider, resta il futuro. “Quando ho trovato questo lavoro, non avevo scelta, l’ho dovuto fare – ci dice -. Ma ancora oggi lo vedo come qualcosa di momentaneo, pure se mi dà uno stipendio quantomeno decoroso. È un lavoro che si può fare fino a quando uno ha la forza per farlo. Io ho 40 anni, ma a 50 o più diventa dura. Adesso però penso solo al presente, perché devo campare giorno per giorno. Ci penserò dopo, magari. Potrei fare carriera dentro Just Eat con un lavoro più sedentario. O magari entro 10 anni riuscirò a comprarmi un motorino per andare avanti un altro po’. Quando comincerò a non farcela più neanche con quello, allora sì che dovrò inventarmi qualcosa. Staremo a vedere”.

Carlo Ruggiero

18/10/2021 https://www.collettiva.it

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