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Blog — Maggio 13, 2014 7:16 am

Libri & Conflitti. L’estratto di SUICIDI. Studio della condizione umana nella crisi: in Italia valgono più i numeri o le persone? L’estratto di un libro.

Pubblicato da franco.cilenti

A partire dal famoso volume di Durkheim “Il suicidio” e a partire da un campione di quaranta storie di suicidi economici avvenuti in Italia tra il 2012 e il 2013, in questo libro si indicano le cause principali che spingono molti lavoratori a optare per la morte volontaria nella società contemporanea. Il suicidio, inteso qui solo come “fatto sociale”, appare strettamente legato alle dinamiche prodotte dalla crisi economica, dalle matrici del neoliberismo, dalla crisi del Welfare e dei diritti sociali, da un’antropologia negativa prevalentemente fondata sulla paura del futuro, sul debito, sulla colpa, su un senso di smarrimento e solitudine generalizzati, sull’impossibilità stessa di accettare il fallimento. La crisi economica letta attraverso i suicidi, dunque, diventa essa stessa crisi dei legami sociali, crisi di un’etica condivisa, processo di scomposizione sociale e di individualizzazione. Una voragine da cui ripartire per pensare un nuovo modello di società, un nuovo modo di produzione, un nuovo Welfare.

Valgono più i numeri o le persone? La “guerra” dei dati e i corpi che contano.

Prima di passare alla costruzione genealogica della condizione umana nella crisi e delle sue ripercussioni sui singoli attori sociali in relazione all’atto del togliersi la vita, proveremo ad individuare gli “ordini discorsivi” che hanno animato il dibattito sul tasso suicidario in Italia.

Per tutto il 2012 i media hanno trasmesso notizie e statistiche che oscillavano tra la costruzione di un allarme sociale prodotto dal meccanismo di “notiziabilità”11 dei suicidi (articoli di cronaca nera che rimbalzavano sui social network, statistiche, talk show etc.) e il “contro-allarme sociale” ovvero la smentita sull’effettivo aumento dei casi di “suicidio economico” da parte di autorevoli istituti statistici. Il 2012 è anche l’anno in cui in Italia la retorica dell’austerity domina la scena pubblica a ridosso di una crisi economica che, sino ad allora, pareva essere stata rimossa, quantomeno dalla politica. Il clima di “negatività” si esaspera e i casi di suicidiocominciano a fare notizia. Oggi i media non ne parlano quasi più, ma il fenomeno non si è fermato, non foss’altro perché l’andamento dei suicidi per ragioni economiche è più o meno stabile, con picchi sempre verso l’alto e mai verso il basso, in qualsiasi momento di crisi e da sempre. A questi vanno aggiunti i suicidi in carcere o negli OPG (Ospedali psichiatrici giudiziari), considerati dalla doxa quasi sempre “altri” rispetto all’origine economica che determina quelli dei lavoratori dipendenti o autonomi i quali, come è noto, tendono a fare più notizia (su povertà e suicidio in carcere si veda il saggio di Saitta). In sintesi, il suicidio economico come

fenomeno sociale esiste ed esisterà sempre, a prescindere dal meccanismo di “notiziabilità”. Ciò che a noi interessa, semmai, è capire la trasformazione delle cause sociali che inducono o possono indurre ad optare per la morte volontaria. In questo paragrafo, intanto, proveremo a ricostruire la modalità attraverso cui gli istituti statistici si sono mossi sulla scena pubblica per tutto il 2012, perché al di là della costruzione dell’allarme e del contro-allarme, è pressocchè impossibile, oggi, capire davvero l’entità del fenomeno sul piano numerico, almeno per quell’anno, nonostante il suicidio stesso fosse diventato un “ordine discorsivo” per tutti i media.

La concorrenza tra Istituti Statistici, in altre parole, non ha agevolato l’accesso alla verità sull’argomento sino a generare una vera “guerra dei numeri” sviante e contraddittoria, mentre dall’altra parte i quotidiani davano sempre più spazio a singoli casi di morte volontaria a causa della crisi.

Proviamo a ricostruire e a svelare lo scenario. Tra il 2010 e il 2012 l’Eures pubblica un rapporto di ricerca dal titolo “Il suicidio in Italia al tempo della crisi”12 che, immediatamente, fa notizia. I dati che emergono dal rapporto sono piuttosto allarmanti. Gli autori

della ricerca mettono in evidenza quanto il rischio suicidario sia più alto nella componente della forza lavoro più esposta all’impatto della crisi, così emerge che nel 2010 (prima della costruzione sociale dell’allarme) 362 persone si erano suicidate a causa della disoccupazione, superando i 357 casi del 2009 (che già rappresentavano una forte impennata rispetto ai 270 accertati in media del triennio precedente, rispettivamente 275, 270 e 260 nel 2006, 2007 e 2008). La situazione economica, secondo l’Eures, non ha

effetti solo sui “senza-lavoro”, ma anche sugli imprenditori e i lavoratori autonomi (nel 2010 stimano 192 suicidi tra i lavoratori in proprio e 144 tra gli imprenditori e i liberi professionisti per un totale di 336). Si pensi al famoso caso degli imprenditori del Nord-Est (si veda il saggio di Peroni).

Nei primi mesi del 2012 (aprile), invece, l’Eures annuncia che il bilancio  sui suicidi si andava aggravando ulteriormente, dal momento che già 73 persone si erano tolte la vita a causa della crisi e dei problemi economici.

Considerando l’indice di rischio specifi co individuato dall’istituto statistico (suicidi per ogni 100 mila abitanti nella medesima condizione) sono i disoccupati, dunque, a presentare l’indice più alto (17,2%), seguiti con scarti signifi cativi dagli imprenditori e liberi professionisti (10%) colpiti dalle fl uttuazioni del mercato e dai ritardi nei pagamenti per i beni e i servizi venduti, in primo luogo da parte della Pubblica Amministrazione, e dalla conseguente diffi coltà di accesso al credito. Seguono i lavoratori in proprio (5,5%) e chiudono la graduatoria del rischio i “più tutelati” cioè i lavoratori dipendenti (4,5%). Soltanto di poco più alto, infi ne, l’indice di

rischio suicidario degli inattivi (pensionati, casalinghe, studenti, eccetera).

Il rischio suicidio, inoltre, secondo l’Eures, è sempre in agguato nella fascia dei cosiddetti “esodati”, in genere di età compresa tra i 45 e i 64 anni, si parla di un incremento di casi del 12,6% nel 2010 rispetto al 2009 e del

16,8% rispetto al 2008.

Sempre nel 2012, in agosto, l’autorevole “Sole 24 Ore” pubblica i dati di uno studio inglese sui suicidi attribuibili alla crisi economica e fi nanziaria13.

Lo studio, diretto dal prof. Roberto De Vogli, professore associato di salute globale all’Università del Michigan e all’University College

di Londra conferma che, effettivamente, a causa della crisi i suicidi e i tentati suicidi in Italia aumentano di parecchie unità a partire dal 2008. I dati a cui fanno riferimento, elemento curioso che spiegheremo più avanti, sono quelli dell’Istat. De Vogli rilascia un corsivo al “Sole 24 Ore” e dice: “Abbiamo osservato che i suicidi e i tentati suicidi erano cresciuti con un tasso del 10,2 già prima della crisi fi nanziaria, ma dopo questo periodo la percentuale è salita al 53,9. Abbiamo così stimato un numero di 290 suicidi

e tentati suicidi in eccesso imputabili alla grande recessione” . Un dato e una tendenza, peraltro, presenti anche in altri paesi europei, nei cosiddetti PIIGS14, ovvero i paesi più indebitati e più subalterni alle politiche imposte dall’ideologia dell’austerity, ma anche – e in proporzioni ben più epiche – nei cosiddetti BRICS15 ovvero i paesi non europei il cui impatto con il sistema capitalistico avviato dalla globalizzazione ha prodotto vere e proprie rivoluzioni strutturali e antropologiche16. Da parte sua, sempre innegativo della crisi. Suicidio, anomia, dismisura e désaffi liation 19 quel periodo, la CGIA (Associazione artigiani e piccole imprese) di Mestre

pubblica un rapporto di ricerca nel quale denuncia un aumento del 24,6% di suicidi già nel 2010.

Passano pochi mesi e nei primi giorni del novembre 2012 l’Istat, per voce del suo presidente, nell’ambito di un convegno organizzato a Bologna dalla rivista “Il Mulino”, sostiene la tesi secondo cui in Italia non v’è alcuna emergenza suicidi. E per sostenere questa tesi critica l’Eures, nonché la CGIA di Mestre rei, colpevoli, secondo lui, di aver stravolto i dati e di non aver dichiarato il tipo di metodologia quantitativa utilizzata per la rilevazione presentando “un’emergenza suicidi” di fatto assente nella

nostra società17. Ma è davvero assente o trattasi di mera competitività e di “guerra dei numeri” tra istituti statistici pubblici e istituti di ricerca sociale privati? Per svelare il busillis, siamo andati a studiare i dati disponibili sul sito dell’Istat18. Intanto bisognerebbe dire che i dati resi noti dall’Istat hanno come aggiornamento ultimo il 2009. Inoltre gli stessi vengono dedotti a partire da due fonti, una sanitaria e una giudiziaria: l’indagine sanitaria su “Decessi e cause di morte” e la fonte giudiziaria “Suicidi e tentativi di

suicidio”. L’Istat dichiara altresì di preferire i dati provenienti dalla fonte sanitaria, anziché quella giudiziaria, perché secondo loro hanno una copertura maggiore del fenomeno. I mezzi di comunicazione di massa, però, di solito fanno riferimento alle questure per coprire la cronaca e, come è noto,un suicidio anche s emotivato da lettere, testimonianze etc., afferisce alla sfera della “morte violenta”, mentre diventa solo un numero tra gli altri nelle statistiche mortuarie fornite dal sistema sanitario. Inoltre, come mai

lo studio svolto dalle Università inglesi e pubblicato dal “Sole 24 Ore”, pur dichiarando di utilizzare i dati dell’Istat, sostiene la tesi secondo cui in Italia i “suicidi economici” siano aumentati esponenzialmente almeno sino al 2011-2012?

Per i sociologi, a differenza degli statistici, rispondere è piuttosto semplice: i singoli fenomeni sociali, in questo caso i suicidi avvenuti a causa del clima e delle condizioni materiali prodotte dalla crisi, defi niti da noi come “suicidi economici”, costituiscono in sé un campo di osservazione che, in quanto tale, va scorporato dai dati generali sul medesimo fenomeno. Il chè implica un rovesciamento del senso che possono avere i dati quantitativi nella comprensione dei fenomeni sociali e di questo in particolare: laddove sia vero che il tasso suicidario generale non sia aumentato e dunque non v’è emergenza, né allarme, è altrettanto vero che per una

tipologia specifi ca, in questo caso il “suicidio economico”, vi possa essere un aumento dei casi che, comunque, può non determinare l’aumento dell’andamento generale delle morti volontarie. In ogni caso, quel che qui ci preme sottolineare è che, al di là dei numeri, moltissime persone sono state indotte a suicidarsi a causa della crisi e che questo “costo umano”, al di là della quantifi cazione numerica, costituisce in sé un problema che i sociologi non possono ignorare perché rappresenta, simbolicamente e nella

realtà, un fenomeno sociale che “negativizza” la stessa società.

Da parte nostra, l’empiria in relazione all’osservazione del fenomeno si è prevalentemente basata sulle singole storie di suicidio che abbiamo avuto modo di monitorare tra la fi ne del 2011 e per tutto il 2012, nonché interviste e monitoraggio dei dati. Nello specifi co chi scrive ha monitorato quaranta storie pubblicate su varie testate nazionali e locali, nonché alcune note di agenzia. Cosicchè, a partire da questo campione qualitativo, proveremo a delineare alcune variabili che possono aiutarci a capire meglio cosa ha indotto svariate persone ad optare per la morte volontaria nel momento più

topico delle narrazioni sulla crisi economica e delle narrazioni sull’austerity.

Il primo dato interessante da trarre è che queste storie suicidarie sono piuttosto trasversali, seppure in proporzioni diverse denotano un passaggio di fase rispetto agli studi di Durkheim relativi al suicidio incistato nel grande mutamento della rivoluzione industriale. A suicidarsi non è più solo il proletario o il contadino che fa l’esperienza dell’anomia nella metropoli fordista, ma è anche il manager, l’imprenditore, il ricercatore, la pensionata e il pensionato, l’artigiano e il commerciante, il rappresentante, così come l’operaio disoccupato o in cassa integrazione o il ladruncolo fi nito in carcere a causa di un improvviso impoverimento. Le cause, invece, derivano tutte dal clima generato dalla crisi economica: 1) fallimento del progetto di vita e di lavoro; 2) mancata riscossione dei crediti dalle pubbliche amministrazioni così come da altri privati; 3) indebitamento con il fi sco e aumenti esponenziali dell’ammontare a causa dei tassi di interesse di Equitalia o di altre agenzie di riscossione; 4) senso di precarietà diffuso e paura del futuro; 5) impossibilità di accedere a nuovi crediti. Nonostante alcune tipologie suicidarie siano contestualizzate in territori specifi ci, potremmo dire che queste storie testimoniano una trasversalità geografi ca con dei picchi in Veneto e in Puglia, mentre se in prevalenza trattasi di persone tra i quaranta e i sessant’anni è possibile anche trovare molte storie di trentenni, qualche

ventenne e alcuni pensionati.

Questa trasversalità è molto importante perché ci aiuta a capire meglio quanto le cause, che oggi possono indurre un attore sociale al suicidio, siano immediatamente riconducibili al processo di désaffi liation generalizzato ovvero al superamento stesso della condizione di anomia (assenza di norme morali da colmare con l’istituzionalizzazione della solidarietà nel lessico di Durkheim) verso un processo di individualizzazione e di solitudine tali da non poter neppure più immaginare la possibilità di rivendicare diritti e Welfare, così come relazioni sociali basate sulla solidarietà organica.

Un tempo fermo, senza futuro, nero e inghiottito dalla voragine della crisi. Una coincidenza micidiale tra vita, corpo, lavoro, economia, vuoto giuridico e sociale. O almeno questa deve essere stata l’esperienza di chi ha optato per la morte volontaria in questi ultimi anni. Ma cosa accade agli attori sociali all’interno di questa nuova condizione umana nella crisi prima ancora che optino per il suicidio.

Con saggi di Sara Fariello, Stefania Ferraro, Caterina Peroni, Pietro Saitta.

Anna Simone è ricercatrice in sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Roma 3. Ha insegnato per anni Sociologia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Tra le sue pubblicazioni in questa collana: Divenire Sans Papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani (2002); I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio (2009); Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neoliberismo (2012). Ha curato, inoltre, Il lessico di biopolitica (manifestolibri 2006) e per la stessa casa editrice l’edizione italiana di Noi cittadini d’Europa. Lo stato, le frontiere il popolo di Etienne Balibar (2004).

I suicidi. Studio della condiozione umana nella crisi.

a cura di Anna Simone

MIMESIS EDIZIONI euro €12,00 pagine 130

11/5/2014 www.controlacrisi.org

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Autore: franco.cilenti

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