L’incerto futuro dell’OMS

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Il 2017 continua a profilarsi anno di novità per le Nazioni Unite. Dopo l’avvicendamento del Segretario Generale a New York all’inizio di gennaio, tocca alla direttrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) Margaret Chan passare la mano, entro il prossimo maggio, a una nuova direzione che si insedierà formalmente il 1 luglio. In questi giorni, i 34 paesi membri del Consiglio Esecutivo dell’Oms hanno concluso la prima fase della selezione dei sei candidati in pista, per la votazione finale prevista durante l’Assemblea Generale (22-31 maggio). L’italiana Flavia Bustreo, assistente della direzione generale e candidata interna, non ha passato il primo turno elettorale. Adesso la campagna si gioca tra l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus (che ha avuto 30 voti), la pakistana Sania Nishtar (la vera sorpresa di questa elezione, con 28 voti), e l’inglese David Nabarro (18 voti).

Guidare oggi un’istituzione pubblica come l’Oms, decisamente indebolita e in ricerca di una nuova credibilità dopo la sequenza di fallimenti nella gestione della influenza pandemica H1N1 (2009)  e della epidemia di Ebola (2014-2015), richiede una visione politica coraggiosa. Le sfide planetarie che si abbattono oggi sullo stato di salute delle persone – conflitti armati, cambiamenti climatici, disoccupazione, serpeggiante violenza, migrazioni, politiche nazionali di privatizzazione, misure di austerità e disuguaglianze diffuse – rimandano sempre di più ai determinanti sociali della salute e alle necessità di rilanciare questo diritto attraverso politiche pubbliche di protezione sociale universale, di equità, di accesso ai diritti. Almeno 135 paesi membri dell’Oms hanno incorporato il diritto costituzionale alla salute, nel nord e nel sud del mondo. Eppure, è francamente difficile intravedere questo tipo di narrazione nelle stanze dell’Oms questa settimana: prevale il discorso della health security (il contenimento dei virus, con potenziali tentazioni di “neocolonialismo sanitario”), dell’azione in ottica di emergenza, insomma un approccio interventista d’urgenza a tutto campo che – dopo Ebola – potrebbe riorientare l’Oms e distrarla dalla funzione normativa, non sempre gradita ai governi che contano. Un approccio che potrebbe favorire Nabarro (già testato con Ebola) sugli altri candidati.

L’Oms potrebbe essere compromessa “oltre ogni possibilità di recupero”, scrive senza sconti l’ editoriale della rivista Lancet di dicembre 2016. In effetti, molti sono i nodi al pettine dopo sei dolenti anni di riforma capestro avviata nel 2010 dalla Chan per accattivarsi nuovi flussi finanziari e introdurre una operatività più riconoscibile e coerente ai tre livelli della struttura (Ginevra, gli uffici regionali  e le sedi nei singoli paesi). La frammentazione della struttura resta però tutt’altro che sanata, si continua a lavorare in silos, anche grazie ai maldestri interventi di Mckinsey un decennio fa, che hanno puntato più alla concorrenza che alla trasversalità, tra i vari dipartimenti dell’agenzia. I numerosi tagli poi hanno prodotto un’emorragia dei funzionari più competenti, rimpiazzati spesso da giovani alle prime armi e con contratti più leggeri, più malleabili, e ricattabili. Un impoverimento istituzionale che non depone a favore del futuro dell’Oms, a meno di una forte direzione capace di invertire la rotta. Gli Stati Membri hanno una clamorosa responsabilità di questo declino. A loro spetterebbe riguadagnare terreno per gestire la salute in un’ottica pubblica, anche sul piano globale. Invece forniscono solo il 35,8% dei fondi all’Oms, di cui solo il 21% sono utilizzabili con una certa discrezionalità. Condurre un’organizzazione senza avere il controllo sull’80% del proprio budget è un mestiere estremo!

Il primo problema riguarda dunque il disimpegno dei governi e la crescente penetrazione del settore privato nelIa definizione delle priorità. Un fenomeno che non ha risparmiato l’Oms, man mano che la globalizzazione dell’economia e le diverse ondate di privatizzazione e deregolamentazione hanno accresciuto il potere degli attori privati, in particolare delle grandi imprese, nella diplomazia internazionale. La creazione del Global Compact, voluto da Kofi Anan per aprire le porte delle Nazioni Unite al mondo del business in vista degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, lo sviluppo del modello multistakeholder e l’affermazione ideologica dei partenariati pubblico-privati come sola modalità di lavoro, non sono che l’espressione più evidente di una strategia volta a de-istituzionalizzare o ibridizzare l’ONU, per dare spazio e capacità di influenza a questi potenti attori nei fora di politica internazionale. Lo stesso paradigma, del resto, sottende acriticamente al nuovo impegno sugli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile (SDGs), malgrado ne sia provata dopo due decenni la disfunzionalità.

La strategia della relazione dell’Oms con gli attori non statali  (la “Framework of Engagement with Non State Actors” , FENSA), al centro di quattro anni di aspri dibattiti negoziali, si è conclusa lo scorso anno con un dispositivo assai insoddisfacente. FENSA permette alle entità del business, alle fondazioni filantropiche e alle diverse partnership di entrare in relazione officiale con l’Oms senza che la gestione del conflitto di interessi sia stata trattata con adeguatezza e senso della realtà, come le organizzazioni della società civile vanno chiedendo da anni.  La richiesta della Fondazione Bill e Melinda Gates (BMGF) di entrare in relazioni ufficiali con l’Oms, al vaglio dell’Executive Board in questi giorni, riaccende la discussione. Piuttosto improbabile che venga  rigettata: la BMGF ha fornito all’Oms un contributo di 629 milioni dei 4,5 miliardi di dollari dell’ultimo budget; più del 13% di tutti i contributi volontari all’organizzazione, inclusi quelli dei governi. Le criticità strutturali si addensano dunque, e non poco. Anche perché la privatizzazione della salute nei paesi membri dell’Oms sembra essere contagiosa, e non è epidemia di cui medico si stia prendendo cura.

Le favolose scatole cinesi di Bill e Melinda

Fondata nel 1999, la Bill and Melinda Gates Foundation (BMGF) è la più grande fondazione filantropica del mondo, con una dotazione di 42,9 miliardi di dollari (marzo 2015).  L’entrata di Warren Buffet nel 2006, con una dote di 30 miliardi di dollari, ha fatto sì che la Fondazione si strutturasse in due entità separate: la Bill and Melinda Foundation, che distribuisce i fondi e la Bill and Melinda Gates Foundation Trust, incaricata di gestire gli asset patrimoniali. I dati della US Government’s Securities and Exchange Commission illustrano come il patrimonio della Bill and Melinda Foundation Trust sia investito in industrie alimentari e in altri settori di prodotti al consumo che di fatto minacciano la salute,  potendo causare malattie cardiovascolari, cancro, e diabete. Questi investimenti includono:

  • 466 milioni di dollari nella industria della Coca-Cola che opera a sud degli USA ;
  • 837 milioni di dollari nella Walmart, la più grande catena di cibo, di farmaceutici e di alcolici negli USA;
  • 280 milioni di dollari nella Walgreen-Boots Alliance, una grande multinazionale per la vendita di farmaci al dettaglio;
  • 650 milioni di dollari in due giganti della produzione di schermi televisivi, GroupTelevisa ($433 ml) e Liberty Global PLC ($221 ml).

Ma c’è dell’altro. Tramite Warren Buffet, un quarto del patrimonio della Fondazione detiene investimenti nella Berkshire Hathaway Inc., una holding con 17 miliardi di azioni nella Coca-Cola company degli Stati Uniti,  e 29 miliardi di fondi investiti nella Kraft Heinz Inc., una delle prime dieci aziende nel comparto alimentare. Tutti questi investimenti alimentano la Fondazione Bill e Melinda Gates, beneficiaria dunque della vendita di categorie di prodotti soggetti agli standard e alle regolamentazioni dell’Oms, nonché alle politiche dei governi su questioni di nutrizione,  cibo e salute.  E’ una bizzarra coincidenza che, nel Registro Oms dei Non State Actors, questa trama di conflitti di interesse non sia minimamente presa in considerazione.

Le associazioni e reti della società civile internazionale hanno sottoscritto una lettera inviata ai governi dell’Executive Board, con cui si chiede con urgenza di deferire ogni apertura di credito alla BMGF e di evitare decisioni che potrebbero mutare definitivamente la natura dell’agenzia, ed erodere ogni mandato costituzionale a favore dei diritto alla salute.  Prima che sia troppo tardi!

Nicoletta Dentico

1/3/2017 www.saluteinternazionale.info

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