L’inverno ai confini dell’Europa: paure per i rifugiati

(Foto di Aegean Boat Report (Lesvos, Moria 2.0), https://www.facebook.com/stilliriseNGO)

L’Europa è considerata da molti rifugiati in fuga da persecuzioni, guerre, povertà e violenza come un luogo di sicurezza, di diritti umani, di protezione e gentilezza. Queste narrazioni sono ulteriormente supportate dalla retorica della Commissione Europea che presenta l’Europa come un luogo di “rispetto per la dignità umana, libertà, uguaglianza, stato di diritto, diritti umani… valori al centro della nostra Unione”. Eppure queste spesso non sono le condizioni che chi cerca protezione affronta al suo arrivo, dove scopre che l’Europa, per molte persone, non è niente di tutto questo.

Nella plenaria del Parlamento Europeo sulla situazione umanitaria dei rifugiati e dei migranti alle frontiere esterne dell’UE del 19 gennaio 2021 numerosi oratori hanno osservato che ogni inverno ci ritroviamo a parlare delle condizioni dei rifugiati ai confini dell’Europa. La fornitura di riparo, cibo e supporto è spaventosamente inadeguata in molti paesi, storie di respingimenti sia in mare che alle frontiere terrestri parlano di vite dei rifugiati messe a rischio e del fallimento dei governi europei nel fornire loro assistenza, mettendo ulteriormente in pericolo la vita umana.

A gennaio, luglio e novembre del 2019 ho visitato l’isola di Samos in Grecia, che ospita un Centro di accoglienza e identificazione costruito per ospitare 648 persone vicino alla città di Vathy. Ho visto di persona i pericoli affrontati dai richiedenti asilo, causati dalle condizioni meteorologiche estreme dell’isola. A gennaio Samos ha affrontato tempeste che hanno rischiato di provocare frane per le persone in condizioni precarie nel campo straripante. A luglio, quando il sovraffollamento è peggiorato, i rifugiati hanno dovuto affrontare la disidratazione, così come il rischio dei morsi di topi e serpenti, giacché gli animali potevano facilmente penetrare nei rifugi che si erano costruiti con teloni e tende.

A novembre mi hanno raccontato di minori non accompagnati e bambini soli costretti a dormire nella sezione sovraffollata del campo in tende senza materasso, a rischio di scabbia, cimici, varicella e aggressioni, perché non c’era più spazio nei rifugi protetti riservati ai minori che viaggiano da soli. Due anni dopo, le condizioni nelle isole della Grecia, così come i campi sulla terraferma e gli spazi di accoglienza in altre parti d’Europa non sono migliorate. Questa conversazione rimane attuale oggi come lo era due anni fa e come lo era al culmine della cosiddetta “crisi dei rifugiati” nel 2015.

Dopo l’incendio del campo di Moria a Lesbo nel settembre 2020 è stato costruito un rifugio temporaneo, noto come Moria 2.0. Questo spazio, costruito in riva al mare, è esposto alle intemperie con venti forti, inondazioni e anche tempeste di neve che mettono a rischio la vita delle persone.

Allo stesso modo, in Bosnia Erzegovina, dopo l’abbandono del campo insicuro di Lipa nel dicembre 2020, i rifugiati si sono trovati a temperature sotto lo zero, senza un riparo e con l’unico, limitato supporto fornito dai volontari. Anche se ora sono alloggiati in grandi tende riscaldate, questa non è una soluzione sostenibile per proteggere le vite umane e mantenere i valori di “dignità, diritti umani e uguaglianza” sostenuti dall’Unione Europea. Sebbene la Bosnia Erzegovina non ne faccia parte, condivide un lungo confine con la Croazia; questo ha portato a un aumento dei rifugiati che la usano come via di transito in seguito alla chiusura e all’aumento della sicurezza degli altri confini dell’UE. Di conseguenza, la Bosnia si affida ai finanziamenti dell’UE come parte della sua risposta alla gestione della migrazione. Moria e Lipa, tuttavia, non sono gli unici spazi in cui i diritti fondamentali non vengono rispettati.

Samos ha anche visto una serie di disastri che hanno ulteriormente messo a rischio le vite nel periodo invernale 2020-2021, con incendi, un terremoto e temperature gelide che hanno creato una situazione in cui i rifugi sono tutt’altro che adeguati e le persone rischiano di morire di freddo. Nel 2018 la Commissione Europea ha dichiarato che le strutture di accoglienza per i rifugiati dovrebbero “fornire riparo, alloggio, cibo, assistenza sanitaria, trasporto negli hotspot, garantendo … condizioni di vita sane e sicure”. Siamo ormai nel 2021 e queste condizioni non trovano ancora riscontro nella realtà. Infatti, come ho argomentato con colleghi di altri posti, i campi e i centri di accoglienza sono in pratica delle “terre desolate” e non degli spazi adatti a garantire un supporto dignitoso agli esseri umani. Mentre gli attori statali e internazionali continuano a fallire nel sostenere adeguatamente le persone, le ONG continuano a colmare queste lacune.

Mentre le temperature continuano a scendere, mettendo a rischio la vita delle persone, i gruppi di sostegno ai rifugiati sull’isola greca hanno aperto i loro centri comunitari e le loro aule per le persone più a rischio, fornendo brandine, coperte e spazi caldi per la notte. Eppure in spazi come questi non è facile capire o riconoscere chi è più vulnerabile e ci sarà sempre qualcuno che sfugge, quando le organizzazioni di base svolgono il ruolo che dovrebbe competere allo Stato. Tutto questo inoltre accade sullo sfondo di una pandemia globale che serve solo a peggiorare le disuguaglianze affrontate dalle persone che attraversano i confini per trovare sicurezza.

Se l’Unione Europea vuole essere all’altezza dei valori che sostiene, questi valori non possono essere applicati solo ai suoi cittadini, a quelli al centro del continente, mentre chi è intrappolato ai margini, lungo i confini, continua a soffrire. Non possono essere solo parole, discorsi che si fanno nelle sessioni plenarie, ma che non si traducono in un cambiamento reale ed efficace. Non possiamo continuare a ripetere le stesse cose ogni inverno, mentre la vita di altre persone viene messa a rischio.

Gemma Bird

26/1/2021 https://www.pressenza.com

Articolo originale.

La dottoressa Gemma Bird è una Ricercatrice in politica e relazioni internazionali presso l’Università di Liverpool. Partecipa al progetto di ricerca IR_Aesthetics sulle migrazioni lungo la rotta balcanica.

Traduzione dall’inglese di Anna Polo

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