L’Italia da culla a tomba di arte e cultura

1. L’arte è un bene comune

Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. Lo ha detto Peppino Impastato, di cui ricorre tra pochi giorni l’anniversario dell’omicidio (o comunque a lui la attribuisce il film I 100 passi). Lo cito nella convinzione che il ruolo del patrimonio artistico e culturale del paese dovrebbe essere centrale nella costruzione di una società civile e democratica e di una cittadinanza più consapevole della propria storia e della propria cultura. Che è anche la storia l’identità e la cultura di tutta Europa e patrimonio dell’umanità, antidoto a ogni sovranismo.

Ma la bellezza la si insegna poco, soprattutto in questo paese, che pure di bellezza ne ha da vendere. La bellezza è evocata ma al tempo stesso mortificata. Poco più che un oggetto da ammirare e da esibire o su cui, di volta in volta, fare propaganda e profitto, ma considerata assai poco e assai male. Allora bene che ci troviamo qui a Matera per discutere di questo, ma al tempo stesso credo che la nostra strategia dovrebbe provare a costruire una contro-proposta culturale che metta in discussione alla radice e radicalmente le politiche del settore degli ultimi 20 anni, non soltanto quelle dell’ultimo governo, e in particolare il legame tra pubblico e privato, la mercificazione della cultura, la separazione tra valorizzazione e tutela del patrimonio artistico, la frammentazione del sistema in aree di eccellenza e aree semi-abbandonate e, ovviamente, le politiche contrattuali, a partire dalla definizione dei contratti dove ancora non esistono e dalla loro applicazione dove ci sono ma non vengono rispettati, fino all’utilizzo selvaggio di lavoro precario e gratuito.

La condizione per superare a tutti i livelli la retorica che ha governato questo settore è, prima di tutto, che si metta in discussione l’assunto tossico ‘patrimonio culturale = petrolio’. L’arte può anche produrre soldi, (e certamente ne produce anche tanti: nel 2018 i musei italiani hanno avuto il record di visitatori, 55 milioni, con quasi 230 milioni di incassi). Ma prima di ogni altra cosa, l’arte deve produrre crescita sociale, cultura, identità. E come tale il patrimonio artistico, paesaggistico e culturale deve appartenere ai cittadini, essere conosciuto, frequentato e amato prima di tutto da loro.

In poche parole, i beni culturali e in generale l’arte devono essere beni e servizi pubblici essenziali, accessibili a tutti, fuori dalle logiche del mercato e dagli interessi usa e getta dei privati e delle Fondazioni, come invece avviene, dentro a una logica che condanna senza scampo chi non è in condizione di produrre profitto immediato. Siamo al paradosso che l’arte e la cultura diventano bene pubblico essenziale soltanto quando si tratta di limitarne il diritto di sciopero.

2. La accessibilità e la gratuità dell’arte

In primo luogo, bisognerebbe allora porsi seriamente il tema della gratuità dei beni artistici e culturali, eliminando le barriere di classe alla loro fruizione. Perché arte, teatri e musei dovrebbero appunto essere luoghi al servizio della collettività, indipendentemente dalle condizioni economiche di partenza. Non lo dico io; c’è scritto anche nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità e di godere delle arti.

Questo tema va, però, ben oltre la visione miope della “prima domenica del mese” nei musei statali, per esempio. L’aumento del numero di visitatori nei musei nel 2018 è dovuto in larga parte alle entrate gratuite. Bene, benissimo. Al tempo stesso, nel 2018 il prezzo medio dei biglietti è aumentato del 14% (record storico di rincaro, altro che inflazione!). Di fatto, si è sopperito al costo di una trovata propagandistica (confermata da Bonisoli, che anzi le ha portate da 12 a 20) con l’aumento dei costi di chi non aspetta la prima domenica del mese – iperaffollata – per visitare un museo.

Che poi, sarà pure aumentata l’affluenza, ma siamo proprio sicuri della qualità delle visite, dopo ore di coda e sale strapiene! E possiamo francamente dire che questo risponda ai bisogni di tutela e salvaguardia del nostro patrimonio artistico? Il 25 aprile a Pompei sono entrate 27mila persone (normalmente il sito ne ospita 18mila). Potete anche solo immaginare quali possono essere stati i danni di una scelta simile.

Mentre nelle aree più periferiche, la gratuità in un unico giorno ha spesso prodotto l’effetto contrario, diventando il pretesto per visitarle gratuitamente (ma male!) solo in quel giorno.

Se l’arte è patrimonio e bene comune è lo stato che deve investire su di essa, ma non soltanto a parole. L’Italia è penultima in Europa per gli investimenti pubblici in arte e cultura: dalla culla dell’arte alla sua tomba.

Nel 2011 la Corte Costituzionale ha dichiarato che le Fondazioni Lirico Sinfoniche sono un’eccellenza italiana. Bene! Tutte le le leggi che si sono susseguite, però, dalla trasformazione degli Enti Lirici in Fondazioni di diritto privato nel 1996, hanno comportato una diminuzione dei fondi che lo Stato destina alla lirica e, aldilà della solita retorica (di tutti i governi, purtroppo, non soltanto dell’ultimo) il Fondo Unico per lo Spettacolo si è più che dimezzato dal 1985 al 2015 (dallo 0,0846 del PIL allo 0,0248).

Non si può neanche pensare che l’arte possa finanziarsi con il biglietto di ingresso. Pensate ai siti archeologici: nemmeno nella più ottimistica delle previsioni possono coprire da soli i costi di manutenzione con la sola vendita dei biglietti, se non sono adeguatamente finanziati dal bilancio statale.

Non è così altrove, d’altra parte: i musei statali di NY (dove non c’è esattamente il socialismo reale) si visitano gratuitamente e i visitatori decidono se versare un contributo libero. Altrettanto il British Museum: niente biglietteria, niente casse, niente code. Il museo guadagna con il merchandising, con il quale fattura milioni ogni anno. E si crea ricchezza nell’indotto esterno, nei bar ristoranti alberghi al di fuori del circuito strettamente museale. In altri paesi, per fare un altro esempio, il costo del biglietto è nettamente inferiore per i cittadini rispetto ai turisti, nel presupposto – logico – che i cittadini abbiano già contribuito alla gestione del patrimonio artistico attraverso le imposte.

3. Le privatizzazioni e le fondazioni

In secondo luogo, va detto con chiarezza che le privatizzazioni a scopo di lucro non sono mai una soluzione, né la trasformazione in Fondazioni, come è avvenuto per i teatri lirici dagli anni 90. Una operazione che avrebbe dovuto portare risparmi e migliore gestione dei teatri e che invece si è puntualmente tradotta in aumento vertiginoso degli stipendi dei dirigenti lottizzati dalla politica, blocco delle assunzioni, precarietà e mortificazione dei programmi, con lo schiacciamento sugli spettacoli più immediatamente remunerativi. Un teatro lirico non può e non deve essere sottoposto al vincolo del pareggio di bilancio per ottenere i finanziamenti. Oggi in Italia, possono vantare di avere i conti a posto soltanto la Scala e l’Accademia di Santa Cecilia. Così non si fa che alimentare un sistema dove esistono fondazioni liriche di serie A e fondazioni di serie B. D’altra parte, con le dichiarazioni di Franceschini “14 fondazioni lirico-sinfoniche sono troppe”. Troppe! Nel paese che ha inventato l’Opera e le cui opere sono rappresentate in tutto il mondo, Verdi Rossini Puccini Donizetti…

Più che lamentare che le Fondazioni sono troppe, si mettano in discussione gli stipendi d’oro dei dirigenti, scelti non per concorso internazionale (come avviene per i musicisti) ma con la più brutale logica dello spoil system (perché una Fondazione non è del tutto privata, tanto basta per permettere di piazzare ai suoi vertici parenti e amici senza alcun concorso e a prescindere da titoli e meriti). Basti pensare all’illustrissimo perito agrario Francesco Girondini (con tutto il rispetto per i periti agrari, ovviamente, salvo quando diventano Sovrintendenti dell’Arena di Verona a 200 mila euro all’anno, benefit esclusi, portando al disastro una istituzione lirica e artistica tra le più famose al mondo).

4. Lavoro gratuito e precarietà

A proposito di rapporti di lavoro: va detto con altrettanta chiarezza che il lavoro gratuito, le gavette infinite e il volontariato sono una piaga in questo settore, come ma anche più che in altri. Nei musei per esempio, il volontariato sostituisce regolarmente il lavoro pagato (con un rapporto 1/200), con realtà disarmanti, come quella del FAI, partner strategico del MIBAC e della RAI (con uno spazio radio-televisivo pressoché illimitato e quasi monopolistico), che vergognosamente su 229 dipendenti fissi, ne utilizza 7500 come volontari e volontarie, anche in alternanza scuola-lavoro, organizzati con turni e orari come fossero a tutti gli effetti lavoratori dipendenti.

Recentemente la biblioteca di Firenze, di fronte all’inconveniente che il prestito delle riviste è diventato possibile in pochissimi orari a settimana, si è scusata dicendo: ‘pensavamo di ripartire con il servizio civile, ma ci sono stati dei ritardi!’

Ma non è soltanto lavoro gratuito. È precarietà, bassi salari, appalti anche di servizi essenziali (come fa la biglietteria di un museo a essere appaltata!). Il museo di Abruzzo, sempre recentemente, ha presentato un bando, sostenuto dal MIBAC, per 16 persone, altamente specializzate, per 6 mesi a 5 euro l’ora netti.

E li chiamano privilegi inamovibili! Ieri da questo palco, c’è chi ha che persino i custodi dei musei hanno troppi privilegi! Un violinista, tanto per dire, studia 10 anni in conservatorio per avere il diploma, quanto un medico più o meno ne impiega per laurearsi; poi si perfeziona e per entrare in una Fondazione supera un concorso internazionale (a differenza del suo Sovraintendente). Quello stesso violinista, quando è fisso, guadagna mediamente 2000 euro al mese; un corista (a meno che non sia alla Scala) guadagna intorno ai 1600 euro al mese. Può stupire in un tale contesto che tanti e tante artiste decidano di andare a lavorare all’estero?

Per non parlare di quelli che un contratto di lavoro nazionale non ce l’hanno proprio o non gli viene applicato (come accade in tantissima parte del mondo dello spettacolo dal vivo). Un ballerino al corteo del 1M di Bologna portava un cartello con scritto: se pensate che il mio non sia un mestiere, provate voi a stare sulle punte. Ora, la danza è stata totalmente e vergognosamente dimenticata, da questo, ma anche dai precedenti governi. E spesso anche da noi, diciamolo! Le principali fondazioni lirico-sinfoniche (Torino, Venezia, Bologna, Trieste, Firenze, Verona) sono state private del loro corpo di ballo: ne sono rimasti 4; in Germania sono 50; in Francia 95. 10 corpi di ballo con 50 tersicorei costerebbero a questo paese 20 milioni di euro l’anno; ne stavamo per spendere 98 per un torneo di golf, ricordate? Come se la danza non esistesse, in un paese in cui per quasi due secoli la storia del balletto ha coinciso con la storia della danza nel mondo. Pensate cosa accadrebbe se eliminassimo tutti gli spettacoli di danza in Italia. Chissà cosa ne penserebbe il pubblico, tanto per dire. O quel 1milione 400mila ragazzi e ragazze delle nostre scuole di danza (più che le scuole di calcio, ci credete!?).

5. La valorizzazione e la tutela

C’è poi un terzo problema, centrale, effetto della legge Franceschini e per niente risolto dalla nuova riforma Bonisoli: la scissione tra tutela e valorizzazione del patrimonio artistico e la segmentazione del nostro sistema museale (30 grandi musei autonomi e ricchi, superaffollati, da un lato; migliaia di piccoli musei sparsi sul territorio, privi di autonomia e più o meno abbandonati, dall’altro).

Un sistema del tutto inadatto a questo paese, la cui ricchezza, accanto alle città capolavoro come Roma Firenze Venezia Napoli, è proprio nel patrimonio diffuso e, purtroppo, quasi abbandonato, con migliaia di siti in stato di degrado, inaccessibili o comunque in situazione di grave sottoutilizzo. Invisibili alle proprie comunità tanto quanto ai turisti (la metà dei musei italiani non ha nemmeno un sito internet). Pensate a Venezia: Palazzo Ducale, già strapieno, ha aumentato gli orari di apertura (con buona pace dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici), gli altri, meno noti, restano più o meno ai margini. Con l’effetto di intasare alcuni siti con affluenze ingestibili, a discapito degli altri meno noti al turismo di massa. Salvo, poi, mettere il biglietto di ingresso per entrare in città!

Pochi investimenti, quindi, e perlopiù diretti alla cerchia ristretta dei grandi musei. Mentre alla grandissima rete dei presidi culturali periferici restano le briciole. Soprattutto al sud peraltro: nella sola Sicilia ci sono 300 luoghi artistici e archeologici sempre chiusi al turismo, per perpetuo restauro o semplicemente abbandonati. Cito la Sicilia, perché non basta essere capitale della cultura, Palermo lo è stata del 2018: magari aumenta il turismo, ma la valorizzazione del patrimonio artistico e archeologico è un’altra cosa, anche perché non consente la redditività in tempi brevi degli investimenti, che spesso sono necessariamente ingenti.

Allora, davvero, non stupiamoci delle tante Notre Dame italiane, che crollano lontano dai riflettori e dalle telecamere di Parigi: l’ultima, la chiesa 500tesca degli Incurabili a Napoli. Villa Adriana a Tivoli non è a norma antincendio, lo sapevate? Per non scomodare i crolli di Pompei e dei Fori Imperiali.

La separazione della tutela e della valorizzazione del patrimonio artistico non può che peggiorare questo stato di cose, perché di fatto antepone la valorizzazione (cioè la massimizzazione dei profitti) a discapito della tutela, in nome di una mercificazione dell’arte e della cultura, controllata direttamente dalla politica. Già 20 anni fa, Salvatore Settis scriveva che tutela e gestione non si possono separare. Anzi, scriveva che conoscenza-tutela-gestione-fruizione sono unico assioma.

Ormai, invece, diamo la nostra eredità artistica in pasto a eventi che la mercificano: puoi bere lo spritz all’ombra del tempio della Concordia, nella valle dei Templi; o sposarti nel foyer del San Carlo a Napoli (dopo che le ristrutturazioni ne hanno distrutto l’acustica!); il regio di Torino ha persino organizzato il Fitness all’opera; a Firenze, nel nuovo auditorium, si gira Italia’s Got Talent! E qui, anche, la cena di galà la sera prima dell’inaugurazione di Matera capitale della cultura si è svolta al museo di Palazzo Lanfranchi, in mezzo a quadri del 1200. Siamo di fronte a politiche culturali senza visione e senza memoria. È un delitto efferato ai danni della nostra storia e della nostra identità, che è anche la storia d’Europa e in larga parte la storia dell’umanità. Allora, qui non ho sentito nessuno indignarsi per la Certosa di Trisulti, vergognosamente regalata al peggior sovranismo mondiale. Ma comunque dovremmo indignarci ogni volta che un bene artistico, patrimonio di tutti, viene sottratto alla collettività per scopi commerciali a discapito della sua valorizzazione e tutela.

Peggio di questo c’è solo Casapound al Salone del libro di Torino.

6. Il rischio della autonomia differenziata.

Ultima cosa: l’autonomia regionale proposta dal Governo non riguarda soltanto la sanità e l’istruzione (cosa già abbastanza grave, ovviamente), ma lo stesso patrimonio artistico, perché Veneto Lombardia e Emilia Romagna stanno chiedendo il trasferimento di competenze anche delle Sovraintendenze, con il rischio, gravissimo, di perdere il fondamento unitario nazionale del patrimonio artistico del paese e di separare ancora di più le aree ricche dalle aree abbandonate. Le ville venete del 700, meravigliose, saranno tutelate e valorizzate; la antica Sibari può continuare ad allagarsi. Peraltro questa logica comporterà differenziazioni anche all’interno delle stesse regioni: la pinacoteca di Brera resterà statale, mentre, per esempio, le antichissime pitture rupestri della Val Camonica (patrimonio Unesco) passeranno sotto la Regione Lombardia come sito di “interesse locale”. Ma sulla base di quale criterio artistico?!

7. La manifestazione del 6 ottobre

Allora, io sono contenta che finalmente si decida una iniziativa nazionale e intercategoriale su questi temi. Ma avreste dovuto che in questi due giorni invitate soltanto i lavoratori e le lavoratrici, le tante associazioni, i tanti gruppi (con tanti nostri iscritti e iscritte) che quotidianamente sono impegnati nella tutela del mondo dell’arte e della cultura, nella sua valorizzazione e nella difesa dei diritti di chi ci lavora…. Mi Riconosci (per i beni culturali), al Comitato delle Fondazioni Liriche, a Facciamo la conta (per il mondo dello spettacolo), alle associazioni dei ballerini e ballerine, degli archeologi, dei restauratori. È quella la vera unità dal basso! È stato detto che non c’erano i giovani. Certo, non sono stati invitati. C’è tutto un mondo di giovani fuori da qui, quello che con creatività, sapere e determinazione ha finalmente portato in piazza a Roma il 6 ottobre tutte queste istanze e che quotidianamente è impegnato in questa mobilitazione, anche nel difficilissimo compito di farsi riconoscere come lavoratori e lavoratrici, perché finalmente non ci sia chi possa dire a un attore di teatro: sì, ma oltre a recitare, che lavoro fai?

Chiudo con una notizia. Proprio recentemente, nella Biblioteca Vitruviana di Lapassola, una attivista di Mi Riconosci?, Anna Pilofrazzi, ha straordinariamente scoperto un manoscritto in cui nel 1953 Leonardo scriveva: c’è necessità di un nuovo movimento nazionale, che possa unire tutti gli artisti e i professionisti della cultura, radicale, contro il potere e i facili compromessi (Necessitade v’è de un novo movimiento nationale que possa unere li artisti et li professionali de cultura omni, radicale, contra el potere et li facili compromessi).

Se lo diceva Leonardo…

Eliana Como

7/5/2019 https://sindacatounaltracosa.org

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