Mai più come al G8

g8genova

Ho tra le mani, recuperato fra le mie disordinate carte, un volantino vecchio di una dozzina d’anni, forse più. Promuove una petizione, denominata “Mai più come al G8”, promossa da due piccoli soggetti – il Comitato Verità e Giustizia per Genova che ho contribuito a fondare e il Comitato Piazza Carlo Giuliani – insieme con una grande organizzazione, l’Arci. Era un’altra stagione politica. L’indignazione per quanto avvenuto a Genova nel 2001 era ancora grande e coinvolgeva un’ampia fetta di popolazione e anche una parte significativa del ceto politico.

La petizione intendeva sostenere cinque interventi che parevano necessari per far compiere un passo avanti al nostro paese dopo quel disastro umano, sociale, politico, giuridico che fu la gestione istituzionale delle contestazioni al G8 di Genova, chiuso con l’uccisione di un ragazzo e una serie infinita di abusi e violenze da parte di cittadini in divisa, fino alla tortura, su altri cittadini. Era un progetto di riforme possibili. La petizione chiedeva: l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta; i codici identificativi sulle divise degli agenti in servizio d’ordine pubblico; nuovi criteri di formazione degli agenti, con specifica attenzione alla prevenzione e alle tecniche nonviolente; l’esclusione di sostanze chimiche e incapacitanti (e in particolare il gas CS) dalle dotazioni delle forze di polizia; l’introduzione del crimine di  tortura nell’ordinamento.

Oggi sappiamo com’è andata a finire. La commissione fu affossata a suo tempo da una parte della stessa maggioranza parlamentare che la proponeva; le divise degli agenti sono come allora; la formazione invece ora si fa sostanzialmente nelle missioni militari, visto che nel frattempo è stata introdotta una norma che riserva l’impiego nelle forze dell’ordine a chi abbia prestato servizio militare volontario; le dotazioni chimiche e non chimiche sono state probabilmente incrementate e infine – unico risultato positivo apparente – abbiamo davvero una legge sulla tortura, ma siamo qui a domandarci se sia una legge anche contro la tortura e la risposta prevalente è decisamente no.

Il confronto fra il vecchio volantino e la condizione attuale è desolante ma non per questo poco istruttivo. Se ci proponevamo di  affermare la prevalenza dei diritti fondamentali della persona sulla pretesa del potere e dei suoi apparati di avere “mani libere” sui corpi dei cittadini, dobbiamo riconoscere la sconfitta. Una sconfitta rovinosa, con due sole deputate di maggioranza (Giuditta Pini e Michela Marzano) che hanno preso la parola contro  una legge che pure era stata contestata, ma potremmo dire demolita, nei suoi fondamenti giuridici da organismi istituzionali al di sopra di ogni sospetto come il commissario per i diritti umani del consiglio d’Europa Nils Muižnieks e  undici magistrati del tribunale di Genova, impegnati a suo tempo nei processi per le torture alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.

Solo due voci dissonanti ma nessun voto contrario in ambito democratico-progressista, solo mancate partecipazioni al voto e la via di mezzo dell’astensione (scelta anche dall’opposizione di sinistra), complici probabilmente un dibattito mai davvero decollato e un certo clima di desistenza che si è formato attorno allo slogan “meglio una cattiva legge che niente”.

Credo che questo sia il punto da discutere oggi. È davvero preferibile una legge che lascerà impuniti quasi tutti i casi di tortura a un vuoto legislativo che spingerebbe a lottare per una vera legge contro la tortura? È davvero saggia, equilibrata a adeguata ai tempi la strategia del meglio poco che niente applicata a qualsiasi campo, compreso quello delicatissimo del rapporto fra cittadini e potere coercitivo degli apparati?

Personalmente, come alcuni altri compagni di strada, riuniti in un comitato di fatto contro la “legge truffa” sulla tortura che ha promosso appelli e lottato fino all’ultimo, sono persuaso che sui temi chiave del nostro tempo, cioè i diritti e le libertà fondamentali messi continuamente in discussione, sia necessario battersi fino in fondo e dire no ogni volta che occorre dire no.

Accettare di raccogliere le briciole lasciate da chi sostiene che certe richieste sono esagerate e non fanno i conti con la realpolitik, a me sembra la via maestra per passare di rinuncia in rinuncia, di disastro in disastro. Finisce che nessuno dice più la verità, che nessuno crede più nell’importanza del proprio impegno.

È la china nella quale ci troviamo, con il commissario europeo e i giudici di Genova che – inascoltati – scavalcano per rigore e intransigenza le organizzazioni specializzate nei diritti umani, e con gente come me o Arnaldo Cestaro e Ilaria Cucchi, per non dire dei giuristi, attivisti e professori con i quali abbiamo condiviso le ultime settimane di lotta contro la legge, relegati al ruolo di patetiche cassandre e guardati con la sufficienza che si riserva agli esagitati, sospettati di massimalismo e di eccessiva distanza dallo spirito dei tempi.

Può darsi che mi sbagli, ma ho la sensazione che la piccola storia di questa vicenda, cominciata con la vecchia petizione “Mai più come al G8” e chiusa con una legge-non legge sulla tortura, sia la fotografia di un declino morale, civile e politico che riguarda ciascuno di noi e non solo il ceto parlamentare o le oligarchie che detengono il potere reale nel nostro paese. La mia speranza –  non ancora la mia convinzione – è che siamo in tempo a cambiare rotta, dobbiamo però riscoprire l’importanza di dire no quando i no vanno detti; l’importanza di lottare anche quando la realpolitik spingerebbe ad accettare quel che passa il convento; l’importanza di dire tutte le verità nelle quali ci imbattiamo.

Lorenzo Guadagnucci

12/7/2017 da http://comune-info.net

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *