Michele, l’ennesimo omicidio del capitale

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La lettera di Michele, e l’estremo gesto che ne è seguito, oltre alla comprensibile emozione ha stimolato un dibattito non solo “a sinistra” ma anche tra tanta gente comune, proletari, sfruttati che in un qualche modo si sono identificati almeno in una parte di quel disperato annuncio di commiato dalla vita. Dato che alcuni compagni mi hanno chiesto un parere avendo anche io pubblicato quel testo senza commenti, provo a fare una modesta riflessione in merito.
Diceva Trotsky che una situazione rivoluzionaria si contraddistingue per la “discesa in politica” delle masse. Non c’è dubbio che la voglia di commentare e discutere questo episodio sia uno dei tanti segnali, così come l’esito del voto referendario del 4 dicembre, di quanto la polveriera sociale su cui questo sistema è seduto sia sempre più in fibrillazione. “La gente comune” ha sempre più voglia di discutere e capire e questo è senza dubbio un ottimo segnale. Sulla vicenda in specifico, da quanto ho potuto leggere nei vari commenti alla lettera di Michele, sostanzialmente il dibattito ha visto emergere due correnti di pensiero. Entrambe a mio parere correte solo in parte perché, soffermandosi solo su alcuni aspetti (per lo più gli stessi anche se da visuali differenti), hanno il limite di non cogliere il punto essenziale della vicenda.
Da un lato c’è chi vede in quella lettera quello che non c’è. Non è un manifesto politico, non è il testo scritto da una persona con una coscienza di classe fatta e compiuta. E’ certamente un atto di accusa verso questa società ed i suoi valori ma non è (e nemmeno vuole essere) qualcosa di politicamente compiuto e conseguente. Per questo dire “Siamo tutti Michele” non basta, perché Michele non è un eroe da emulare ma una vittima di questo sistema. E’ un giovane che ha vissuto nelle condizioni ormai “normali” di questa generazione, non solo materiali ma anche culturali. Un giovane che alla insoddisfazione per una vita fatta di precariato ed incertezza affianca la disperazione di chi, avendo assimilato in pieno l’ideologia imposta dalla borghesia del cosiddetto “vincismo”, si sente fallito per non essere diventato il numero uno.
Dall’altro lato c’è invece chi, enfatizzando proprio questi limiti dell’individuo, in un qualche modo non riesce a cogliere pienamente né le cause intrinseche che hanno portato Michele a questo gesto e né il potenziale rivoluzionario che sta dietro quel malessere diffuso che ha reso così popolare la sua lettera. Certo c’è chi vive in condizioni materiali peggiori di Michele, c’è chi è stato meno fortunato, ma questo non toglie il punto sociale e politico di fondo che riemerge anche da questo ennesimo episodio: il capitalismo ammazza. Il capitalismo uccide gli sfruttati. Uccide l’operaio in fabbrica sul lavoro, come il precario che non vede più speranze nel futuro. La lettera era imperniata di vincismo? Assolutamente sì, ma in questo non vi è nulla di cui stupirsi. Come spiegava Marx, nei periodi normali il pensiero dominante è quello della classe dominante, tra i precari così come tra i metalmeccanici o i disoccupati.
Come i già 67 operai morti sul lavoro a partire da inizio anno, così la morte di Michele deve ingenerare ed ha giustamente ingenerato rabbia. Rabbia contro questo sistema, rabbia contro Poletti quale simbolo di quei servi dei padroni che ci hanno tolto tutti i diritti conquistati dai nostri genitori. Per questo la lettera di Michele ha avuto così tanto successo; perchè una intera generazione si è identificata in lui. Non cogliere il potenziale di questo fenomeno è un errore altrettanto grande.
Quindi “siamo tutti Michele”? Sì se con questo si intende che siamo stanchi di un sistema, quello capitalista, che ci sfrutta e ci opprime sia dal punto di vista materiale che da quello affettivo e morale. No se con questo si pensa che la sua risposta al capitalismo sia quella giusta.
Confesso che mentre leggevo la lettera mi sono chiesto se la scelta di usare come nome di fantasia quello di Michele sia stato un voluto riferimento dei genitori alla canzone “La Ballata del Michè”. Una canzone in cui De Andrè non vuole tessere le lodi del protagonista e nemmeno ergerlo ad esempio da seguire ma descrive la brutalità e spietatezza con cui la società tratta chi di estrazione sociale umile, pur mosso da sentimenti profondi ma non compresi, ha sbagliato.
Proprio oggi ho letto le parole della ex fidanzata di Michele la quale comprensibilmente si sente in parte responsabile dell’accaduto. In realtà a mio parere il passaggio più significativo della sua intervista è il ringraziamento alla famiglia di Michele che, lei dice, non l’ha in alcun modo fatta sentire in colpa ma al contrario ha voluto puntare il dito altrove e cioè contro il sistema in quanto tale. Ecco, io credo che questa scelta dei genitori di Michele di superare l’individualismo (di cui suo malgrado anche il loro figlio è stato imperniato) e passare dal particolare al generale sia il senso più giusto che si possa dare a questo tragico episodio.
I suoi genitori hanno correttamente voluto puntare il dito contro i veri responsabili della morte di loro figlio: i padroni del mondo e i loro lacchè.
Per questo il mio auspicio e la mia esortazione è che questo ennesimo omicidio del capitale contribuisca non solo a suscitare la necessaria rabbia ed il giusto odio di classe ma soprattutto sia da stimolo per tradurre questa energia in organizzazione politica e militante. Perchè episodi del genere non accadano più si deve cambiare il mondo e per cambiare il mondo bisogna fare la rivoluzione. Ma per fare la rivoluzione c’è bisogno di rivoluzionari, formati ed organizzati. Per questo anche i cosiddetti (ex) leader della sinistra si devono sentire altrettanto responsabili della morte di Michele. L’aver distrutto qualsiasi punto di riferimento ed aggregazione politica di classe e rivoluzionaria di massa ha indotto tanti, troppi (tra cui Michele) alla rassegnazione e/o alla disperazione. Per questo chi prova rabbia per la morte di Michele ha il dovere di vendicarlo organizzandosi con la propria classe sociale perché al mondo non vi siano più sfruttati né sfruttatori. Per questo dico:
Non “Siamo tutti Michele” ma “Mai più un Michele!”

Paolo Brini

10/2/2017

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