MIGRAZIONE SANITARIA DAL SUD: IL PNRR NON LA RIDURRA’

Col titolo “Cure efficaci per 60mila la speranza è altrove” Quotidiano di Puglia ha pubblicato una riflessione di Antonio Maniglio (altri suoi interventi si trovano in questa testata) sul rischio che i progetti presentati per usufruire dei finanziamenti del PNRR non riusciranno a colmare la distanza tra la sanità meridionale e quella del centro nord del paese.

Ogni anno 60mila pugliesi si spostano fuori regione per curarsi. Eppure tra i tanti numeri che in questi giorni si stanno sparando come fuochi d’artificio questo dato non c’è. Sparito. È il solito trucco degli imbonitori: concionare sul futuro, quando tutto funzionerà alla meraviglia, e tacere su quello che ogni giorno si incide nella carne viva delle persone. E allora vai con le migliaia di assunzioni, con gli stabilimenti che si trasformano in ospedaletti, con la telemedicina, la robotica, la digitalizzazione, ricchi premi e cotillon. Tutto con i 630 milioni del Pnrr. Sulla migrazione sanitaria invece, una vergogna che pagano soprattutto le persone più bisognose, e che insieme alle liste d’attesa sono il termometro per valutare la qualità delle cure erogate ai pugliesi, si scantona pavidamente.

Certo, tra quei 60mila tanti potrebbero curarsi in Puglia. Ma al netto delle prestazioni inappropriate (e del relativo spreco di risorse) sono comunque decine di migliaia i malati che decidono di ricoverarsi in altre regioni. Sì, sono gli antichi e tristemente noti viaggi della speranza.

Da tempo la sanità è diventata un pianeta a rischio di disumanizzazione. Contano i progetti e gli appalti, i Dgr e i finanziamenti, le piante organiche e le assunzioni, i piani operativi e i bilanci. Tutti ingranaggi necessari, ma secondari rispetto al diritto di ogni cittadino a essere curato bene, a essere accompagnato e assistito anche nei momenti più duri che la vita può riservare.

Da qui deve ripartire la politica per tornare ad essere autentica e al servizio della collettività, altro che scomunicare chi decide di curarsi in Lombardia o in Emilia, come lasciano trasparire i ragionieri che spulciano i conti nelle Asl. Non è turismo sanitario. Ed è lo stesso assessorato alla sanità a spiegare le motivazioni che alimentano i viaggi della speranza: per il 56% incide la qualità delle cure e per il 25% i tempi delle liste d’attesa. C’è quindi un problema di organizzazione e di fiducia nella sanità regionale. Significa che nel sentire diffuso, e nonostante i passi in avanti compiuti nell’ultimo decennio, pesa ancora una storia di ritardi e di arretratezze. Non è in discussione la professionalità, oltre che la dedizione, di tantissimi operatori. Ma il deserto sanitario del recente passato (quando per fare una Pet bisognava andare a Milano, lo ricorderà il neoassessore alla salute) e i disservizi di oggi sono un incentivo soprattutto per chi ha in valigia una diagnosi drammatica – a cercare fuori dalla propria terra strutture dove l’esperienza clinica, l’efficienza organizzativa, la ricerca e l’innovazione offrono una chance di vita in più. Una speranza, appunto.

Una classe dirigente illuminata dovrebbe mettere in cima alle sue priorità la riduzione, e la cancellazione, di questo pendolarismo verso il nord del paese. Lo dovrebbe fare anzitutto per motivi etici e di civiltà, per non sottoporre persone fragili e in difficoltà ad ulteriori e intollerabili via crucis. Ma anche per risparmiare soldi pubblici che potrebbero essere più utilmente spesi. Ci stiamo giustamente esaltando per l’iniezione di fondi europei una tantum. Ma quante cose si potrebbero fare con i 243 milioni che ogni anno, e ormai da decenni, destinati a rimborsare le cure extra-regionali?

Il punto è che si galleggia sull’esistente, prevale la smania di comunicare e finanche la tentazione di ricostruire deleteri blocchi di potere. L’esatto opposto di quello che è necessario: un progetto ambizioso, da coltivare con gli operatori e le università, per trasformare le isole di eccellenza della sanità pugliese in un virtuoso e diffuso arcipelago. La qualità delle cure non dipende dalla modernità delle strutture fisiche (che in Puglia ci sono) ma dalla professionalità di quanti lavorano nei reparti. Bisogna riempire gli ospedali anche con incentivi mirati – di medici bravi, dal curriculum indiscutibile, in grado di fare squadra. E collegarsi con i migliori centri di ricerca e le strutture sanitarie più avanzate, oltre che potenziare quelle che operano in Puglia. Questa è la rivoluzione che serve: immettere qualità, eccellenze e innovazione nei principali ospedali della regione.

Accade invece che soldi del Pnrr stiano prendendo altre strade: ben 256 milioni di euro sono destinati agli ospedali e alle case di comunità, al fine di potenziare la medicina territoriale. Gli ospedali di comunità (Odc) sono chiamati a fornire un’assistenza di base gestita dai medici di famiglia – soprattutto agli anziani appena dimessi dall’ospedale o non ricoverabili per inappropriatezza, a somministrare farmaci e fornire un supporto riabilitativo. Una specie di Rsa in formato tascabile, insomma. In Puglia, secondo i dati riportati da un’indagine della Bocconi, ci sono 11 ospedali di comunità. Quale bilancio si può fare? Quanti sono effettivamente operativi? Che ricadute hanno avuto sulla qualità dell’assistenza? Domande che continuano a rimanere senza risposta.

La missione delle case di comunità (Cdc), che in Puglia abbiamo chiamato presidi territoriali di assistenza (Pta), è quella di erogare prestazioni diagnostiche, esami di laboratorio, visite specialiste. Esistono già e sono ben 33, almeno sulla carta. Il loro funzionamento è a corrente alternata, con orari e servizi ridotti. E la prova della loro scarsa efficienza sta proprio nel continuo dilatarsi delle liste d’attesa. Anche per le Cdc/Pta il giudizio non è positivo. Ma sono le indicazioni del piano Italia domani, si dirà. Ed è vero. Ma quello che nel linguaggio tecnocratico appare perfetto va sempre verificato nell’esperienza concreta. Ecco perché si rischia di allestire delle scatole vuote. Ci si limita a intervenire sugli edifici per metterli in sicurezza, ristrutturarli, attrezzarli senza sapere come attivarli perché ad esempio – manca il personale. Non è un caso se in regione mettono già le mani avanti. E piuttosto che aggredire le disfunzioni organizzative e gli sprechi, le rendite di posizione e le sacche di improduttività del sistema, scaricano la patata bollente sul governo nazionale. Roma naturalmente farà rimbalzare la patata a Bruxelles e, come nel Monopoli, si tornerà alla casella di partenza.

L’esito purtroppo pare già scritto: tra qualche anno faremo l’ennesimo mea culpa sui soldi spesi male, sulla polverizzazione degli interventi, sulla cattiva politica. Nel frattempo gli invisibili continueranno a salire su un treno o un aereo, direzione Alta Italia, per trovare altrove cure e assistenza che la Puglia non è in grado di offrire.

Antonio Maniglio

11/3/2022 http://www.salutepubblica.net

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